Archive for marzo 2016

ARTUROCONTROMANO, “PASTIS” (autoprodotto / Libellula Dischi)

I torinesi Arturocontromano sono in giro ormai da oltre quindici anni; “Pastis” è il loro quarto disco: “Pastis”, termine che evoca l’italiano ‘pasticcio’, un piatto all’apparenza raffazzonato, miscela di elementi talvolta casuali, ma che al palato risulta più che mai gustoso… “Pastis”, che ai più attenti o appassionati non può che evocare certe parentesi di tranquillità vissute dai protagonisti dei libri di Jean Claude Izzo in quel di Marsiglia…

Banalmente, gli Arturocontromano mostrano tutto il loro essere musicalmente torinesi, figli di una città apparentemente seria, sobria e compassata, ma capace di dare i natali a un maestro dell’ironia e dello sberleffo come Fred Buscagliene; città spesso immaginata come fredda e plumbea, ma capace di partorire i Mau Mau, una delle band più calorose e sgargianti che abbiano percorso i paesaggi sonori dello stivale.

Gli Arturocontromano proseguono questa tradizione di ‘reazione’ a una geografia e un clima che si vorrebbero poco ‘accoglienti’: negli otto pezzi di “Pastis” mescolano jazz, swing, cantautorato ‘ludico’, suggestioni tzigane, folk, parentesi mariachi, e – perché no? – un filo di pop, di quello ‘elegante’, che non basta.

Un’attitudine che per un gruppo di sette elementi non si può che definire ‘bandistica’, al crocevia tra le fanfare paesane, le orchestrine di strada in stile New Orleans, i gruppi swing da fumoso locale dei ‘bassi’.

Fughe da fermo’ solo immaginate, nate e concluse sprofondati sul divano, un atteggiamento compassato, all’insegna di un disincanto rassegnato che cerca di cogliere il lato ironico e paradossale delle difficoltà della vita, alle quali è sempre complicato dare un senso; i rapporti sentimentali (ovviamente complicati)… Tematiche all’insegna di un campionario tutto sommato ‘canonico’…

Gli Arturocontromano, a dirla tutta, non suonano – né dicono – nulla di straordinariamente nuovo: eredi espliciti di una tradizione, inseriti in un ‘filone stilistico’ che ormai conta un ampio numero di esponenti… Il fatto è che far suonare in modo efficace sette persone non è comunque così facile, immediato; la band torinese raggiunge in pieno l’obbiettivo, donandoci un disco del quale certo non si sbaglia nel dire che è ‘l’ennesimo esempio di mix di jazz, folk, musica popolare e spezie etniche’, ma che alla fine riesce comunque a essere coinvolgente, a riscaldare l’ascoltatore, fargli fare una risata e magari anche a suscitare qualche riflessione dal retrogusto vagamente amaro.

NOIR PROJECT, “SAVED” (MERVILTON RECORDS / LIBELLULA DISCHI)

Sei anni di gavetta, due Ep e una discreta attività dal vivo alle spalle, i torinesi Noir Project tagliano il traguardo del primo lavoro sulla lunga distanza.

La formula è quella di un metal contaminato da elementi ambient, prog e vagamente avanguardistici, memore della lezione di band come Tool, A Perfect Circle, Isis (il nome non spaventi: si tratta di un’omonimia, la band esisteva peraltro da ben prima che i tagliagole salissero alla ribalta) e compagnia bella. La band a dire la verità cita tanche la cosiddetta ‘intelligent dance’ tra le sue fonti di ispirazione, ma trai dieci brani “Saved” questa è forse l’influenza meno evidente, pur se il disco è caratterizzato anche da una componente elettronica, dalle sfumature industriali, frutto di synth, tastiere ed effetti vari.

Il sestetto torinese, comunque, dimostra di saperci fare: pur non aggiungendo nulla di sostanzialmente nuovo al genere, dimostra per lo meno di averne ben assimilato i principi, riuscendone a dare una versione, se non originalissima e stilisticamente ancora un po’ acerba, comunque gradevole.

Dilatazioni e digressioni in luogo dei consunti solismi metallari, per un lavoro che appare finalizzato alla costruzione di uno scenario sonoro d’insieme, più che a dare risalto ai singoli pezzi.

Un cantato che mescola rabbia sofferenza, spesso espresse in modo quali lancinante, racconta di scenari onirici ai confini (e talvolta oltre) dell’incubo, momenti quasi claustrofobici, favole più o meno oscure, fino alla classica dicotomia, morte / nascita che caratterizza i due brani conclusivi.

Un disco dotato di una sua certa coerenza interna, di una discreta solidità strutturale di fondo, che scorre anche abbastanza agevolmente, ma che alla lunga paga forse la mancanza di un apice, di uno o più brani che possano spiccare sul resto.

I Noir Project superano la prova del primo full length abbastanza agevolmente, anche se resta da fare qualche passo in più nella ricerca di un’impronta stilistica più personale.

EMILY SPORTING CLUB (NEW MODEL LABEL)

Emily Sporting ClubPartono da Pier Vittorio Tondelli, e in particolare da “Altri Libertini”, gli Emily Sporting Club, nel loro disco di esordio.

Una sorta di tributo a uno dei loro punti di riferimento, in cui lungo i nove pezzi presenti testi originali della band si mescolano a stralci dello scrittore di Correggio, in una sorta di patchwork all’insegna di una poetica volta alla ricerca del riempimento del vuoto di senso che caratterizza il minimo quotidiano, tra relazioni interpersonali – sentimentali e non – vie di fuga immaginate o concretamente tentate, aspirazioni, (ir)realizzazioni personali.

Una consistenza irregolare, scomposta e un po’ precaria come quella di un mosaico o di un puzzle, che trova una corrispondenza sonora nel mescolarsi di ispirazioni sonore anche molto lontane tra loro, dalla new wave al prog, passando per sprazzi funkeggianti, in un insieme sonoro dove l’espressione vocale occupa spesso in modo preponderante la scena, talvolta riducendo i suoni a semplice contorno, all’insegna di un’interpretazione (per lo più in italiano, ma con alcuni episodi in inglese) a tratti fin troppo enfatica.

L’esito è per molti versi contrastato: l’impressione di fondo è che si, gli Emily Sporting Club ci sappiano fare; o meglio, ci saprebbero fare: il disco mette in luce discrete doti tecniche, si intravede la capacità di mettere insieme brani anche dal discreto appeal… ma forse il risultato finale ha pagato una certa ‘foga’ dell’esordio, un’eccessiva ‘istintività’, se vogliamo.

Il quartetto sembra aver voluto mettere troppa carne al fuoco, presentare tutto e subito il proprio campionario sonoro, con un risultato spesso un po’ ondivago; e forse un lavoro che mescola testi originali a brani del proprio scrittore di riferimento è un’operazione che sarebbe meglio riuscita a un gruppo già rodato e padrone dei propri mezzi (anche soprattutto in termini di scrittura), che non a una band all’esordio.

Gli Emily Sporting Club sembrerebbero insomma avere le carte in regola per proseguire il proprio percorso, ma in questo caso hanno forse fatto il classico passo più lungo della gamba, lasciando un po’ troppo spazio all’entusiasmo e all’ambizione tipica di ogni inizio.

DELUDED BY LESBIANS, “FOTOROMANZI” (NEW MODEL LABEL)

Considerazione numero uno: non importa quando una band italiana possa essere definirsi ‘indie’, alternativa, lontana anni luce dalle melodie del ‘bel canto’ tricolore: la tradizione è un fatto e, volenti o nolenti, prima o poi bisogna farci i conti.

Considerazione numero due: le cover di per sé sono sempre rischiose; la cover è fondamentalmente un omaggio, è il ‘primo passo’ :la quasi totalità di coloro che imbracciano un qualsiasi strumento musicale comincia col suonare pezzi di altri, ma quando una band ha avviato il proprio percorso, impegnarsi nel reinterpretare è il più delle volte un azzardo, perché il più delle volte, la copia – specie se ‘conforme’ e totalmente ricalcata sull’originale, al suo cospetto impallidisce…

Diverso il discorso quando la cover l’originale lo sconvolge, dandogli una nuova personalità…

E’ il caso (e ci siamo arrivati, finalmente), del terzo lavoro dei milanesi Deluded By Lesbians, che dopo essersi imposti all’attenzione del pubblico grazie a un nome indubbiamente originale e aver dato alle stampe due dischi sulla lunga distanza (il più recente, “Heavy Medal”, si caratterizzava per essere un disco doppio, in cui gli stessi brani venivano interpretati in italiano e poi in inglese), decide di dedicarsi a questo, divertissement, col quale si tolgono di dosso l’impiccio di dover confrontarsi col ‘canzoniere’ italiano degli ultimi ottant’anni, o giù di lì.

“Fotoromanzi”: titolo ‘vintage’ che evoca le storie d’amore travagliata dei ‘giornaletti’ che nel secolo scorso hanno costituito per decenni un filone di successo della narrativa popolare: titolo scelto non a caso, perché qui di canzoni d’amore si tratta, e non poteva essere altrimenti, in un lavoro dedicato ai successi della storia della canzone italiana: attenzione, nonostante alcuni ‘grossi calibri’, qui non parliamo della tradizione cantautorale, dei ‘pesi massimi’ etc… qui parliamo dei ‘grandi successi’, di brani e autori che puntualmente troviamo nelle compilation vendute nelle ‘ceste’ degli autogrill…

Canzoni coverizzate alla maniera dei Deluded By Lesbians, facendo ricorso a punk rock (con qualche accenno hardcore), indie, una punta di stoner, una spolverata di metal.

L’apertura del disco non poteva che essere affidata a Fotoromanza di Gianna Nannini; seguono, in ordine sparso, Cuore Matto di Little Tony, Vacanze Romane dei Matia Bazar e la più recente Se tu non torni di Bosè; si risale fino agli anni ’30 con Parlami d’Amore Mariù; immancabile l’inno nazionale Nel blu dipinto di blu; parentesi ‘autoriale’ con Il cielo in una stanza; non poteva mancare un episodio jovanottiano con Serenata rap (che in versione pompata risulta assai più gradevole dell’originale)… ma il vero pezzo – simbolo, quello che in una compilation del genere non poteva mancare, è l’imprescindibile Felicità di Al Bano e Romina.

Accompagnato da un booklet in cui i tre componenti della band inscenano un vero e proprio fotoromanzo – la storia di un matrimonio contrastato, “Fotoromanzi” ha almeno due meriti: il primo è quello di dare anche agli ascoltatori più ortodossi il pretesto di ascoltare certi brani e certi autori senza troppi sensi di colpa… anche se questo vuol dopo anni passati a scansare le hit da classifica, ritrovarsi a scapocciare con Serenata rap o Miguel Bosè; il secondo, è mettere in luce una questione, tanto banale quanto poco evidenziata: questi brani possono non piacere, lasciare indifferenti o (molto più spesso, per quanto mi riguarda) far venire l’orticaria, ma se poi trasfigurati in versione punk rock finiscono per funzionare in certi casi perfino meglio, allora vuol dire che forse, in fondo, tolti gli arrangiamenti edulcorati e lasciate da parte le facili emozioni, questi pezzi continuano a possedere un certo valore intrinseco…

 

 

FUMETTAZIONI – 1

1, 2, 3… PROVA FUMETTI

E’ una considerazione che ho fatto altre volte: nonostante i fumetti siano forse la mia principale ‘passione intellettuale’ – gli dedico circa un’ora al giorno’ – ne ho sempre parlato poco, qui sul blog.
Forse perché i fumetti, ancora di più di altre tipologie ‘culturali’ (film, libri, etc…) hanno una ‘resistenza limitata’ al passare del tempo.
Il lettore di fumetti, come l’amante dei libri o dei dischi, è un ‘accumulatore seriale’ per il quale spesso la ‘necessità’ di arricchire la propria biblioteca supera quella di fruire del contenuto.
Mi spiego meglio: con tutta probabilità, l’appassionato di un qualunque tipo di consumo, troverebbe maggior godimento nell’ascoltare per la centesima volta Kid A dei Radiohead, o nel leggere l’Odissea, o (per restare in ambito fumettistico) Watchmen di Alan Moore, più che nell’ascolto o nella lettura, dell’ennesimo disco, libro, o fumetto di una band / scrittore / disegnatore che nel giro di poco tempo sarà presto dimenticato…
La questione tra l’altro è stata ulteriormente complicata dall’atomizzazione prodotta da Internet, attraverso cui qualunque band può far ascoltare la propria musica, gli scrittori e i fumettisti farsi leggere.

Insomma: certe passioni intellettuali inducono ‘l’accumulo’, sia esso fisico o, come succede in tempi moderni, ‘digitale’.
Per i fumetti poi il tutto è ulteriormente complicato dalla serialità: certo, ci sono le cosiddette ‘graphic novel’, autoconclusive, paragonabili a un libro, ma alla fine il fumetto campa soprattutto sulla serialità, gli albi che escono ogni mese: siano essi antologici come Topolino, autoconclusivi, ma facenti parte di una serie (come i vari Dylan Dog, Tex e via discorrendo), o concatenati in un susseguirsi di trame sull’esempio di quello che avviene nelle soap opera.
Il fumetto diventa così un mare magnum di storie ‘usa-e-getta’ che, presto lette, finiranno per essere altrettanto presto dimenticate, soppiantate prontamente da altre.
Resto convinto che parlare di fumetti qui abbia poco senso… eppure, mi è venuta voglia di farlo, e dato che comunque sui blog, ‘scripta volant’, mi sono detto: proviamo.
Cercherò di tenere una rubrica più o meno periodica, con brevi recensioni di quanto letto ultimamente… chissà se ci riuscirò…

 

CYBERSIX NUMERI 35, 36, 38

Recuperati parecchio tempo fa (parliamo di anni… questo per riparlare dell’accumulto di cui sopra) ma letti solo ora, questi tre numeri della serie firmata da Trillo e Mejia, dedicate alla creatura artificale dai sentimenti umani in lotta contro la persecuzione dello scienziato che l’ha creata nell’immaginaria città di Meridiana.
Albi pubblicati dalla Eura che risalgono ormai a una ventina di anni fa (e dubito che riuscirà a completare la serie), ma sempre di alto livello, in cui in ogni storia, anche se ‘minima’ si riesce a dire qualcosa in più. Voto: 7

 

FANTOMIUS VOLUME 3.

Nuovo volume dedicato al predecessore / antesignano di Paperinik; quattro storie scritte e disegnate da Marco Gervasio, che negli ultimi anni ha letteralmente costruito la mitologia del personaggio. In questo numero, come di consueto ambientato negli anni ’20, il Dr. Fu-Man-Etchù; un’avventura nella brughiera inglese con contorno di un cane infernale, scorribande tra le calli veneziane e il primo incontro del protagonista col suo fido alleato Copernico Pitagorico. Voto: 7

 

AGE OF ULTRON VS MARVEL ZOMBIE N.2

Nel nugolo di miniserie che fanno da contorno al megaevento Marvel Secret Wars, l’incontro tra le versioni decomposte dei supereroi e l’esercito di androidi creato dall’androide Ultron era quella che prometteva il maggior tasso di ‘delirio’: l’esito è stato purtroppo modesto, con una storia che giunta a metà percorso ha detto finora ben poco.
Voto: 5,5

Alla fine risulta più intrigante la seconda storia che occupa l’albo, che segue le vicende della cacciatrice di creature soprannaturali Elsa Bloodstone proprio in terra di non morti.
Voto: 6

 

GLI INCREDIBILI X-MEN N. 308

Anche le testate mutanti sono sconvolte da Secret Wars: la serie personale di Magneto ci narra dei suoi ultimi tentativi di salvare il salvabile – voto: 6 – mentre in Anni di un Futuro Passato, i mutanti di una realtà distopica cercano di salvare la pelle. Voto: 6,5
Più interessante, specie per i disegni di Ramon Villalobos, la terza miniserie dell’albo, E come Estinzione, in cui le versioni ‘attempate’ dei mutanti storici tentano di tenere a freno l’irruenza giovanile delle nuove leve. Voto: 7

 

MR. PUNCH

I nomi di Neil Gaiman e Dave McKean basterebbero da soli a offrire la dimensione dell’opera (uscita nel 1994): un’inquietante discesa attraverso memorie infantili, sprazzi di ricordi che alzano il velo su tragedie ed efferatezze volutamente dimenticate.
La scrittura ellittica di Gaiman, nel quale prevale l’allusione, il non detto, il non spiegato, in un’atmosfera in cui non realtà, sogno e immaginazione infantile si mescolano continuamente; i disegni e le disturbanti costruzioni fotografiche di McKean. Voto: 8

 

INVINCIBLE 26

Il buon Invincible scopre di essere una pedina, e questo non gli piace per nulla; il numero 50 della serie originale apre nuovi scenari. Nonostante si tratti di storie abbastanza datate (metà 2008), lette oggi risultano ancora godibilissime, merito soprattutto della scrittura di Robert Kirkman (stesso creatore di The Walking Dead). Voto: 7

Sulla serie ‘di accompagnamento’, Wolf-Man, braccato, va in cerca di pericolosi alleati. Voto: 6,5

 

MIRACLE MAN DI GAIMAN E BUCKINGHAM 3

Prosegue la ristampa delle storie firmate da Neil Gaiman a inizio anni ’90, coadiuvato dai disegni di un Mark Buckinghm in stato di grazia, a narrare le storie di gente comune in un mondo in cui i supereroi sono diventati realtà, assurgendo al ruolo di dei o quasi e sconvolgendo la società… In questo numero il protagonista non è esattamente una ‘persona come le altre’, ma… uno dei numerosi cloni di Andy Warhol… e qui mi fermo. Voto: 7,5

 

I GRANDI CLASSICI DISNEY 2

Vagabondi, singhiozzi e scaramanzie; l’epopea del West, Beniamino Franklin e il suo topo e la Paperodissea nel post-Guerra di Secessione; Kangurpaperi e balene a pallini rosa… Il tutto firmato, da Panaro, Scarpa, Michieli, Abramo Barosso, Giampaolo Barosso, Massimo De Vita, Fraberg, Strobl, Liggera, De Connell, Hubbard, Martina, Pier Lorenzo De Vita, Bottaro, Dalmasso, Carpi.
Che dite, può bastare? Voto: 8

 

RATMAN 113

Prende il via l’ultima saga di Rat-Man: o almeno, questo è ciò che sostiene l’autore Leo Ortolani, che d’altronde aveva già assicurato di voler chiudere col n.100, salvo poi tornare sui suoi passi… Primo di dieci episodi che promettono di chiudere tutti, ma proprio tutti, i discorsi lasciati in sospeso, tra eroismo e comicità demenziale; ma da tempo Rat-Man ha perso la sua carica propulsiva.
Voto: 6

Completano l’albo il consueto raccontino della serie de I miei ragguardevoli sabato sera (di Cavalli / Ampollini) sostanzialmente inutile – Voto: 5 –  e la sventagliata finale di vignette di varia cronaca parmense degli anni ’90. Voto: 6,5

LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT

Un bagno nel Tevere già di per sé non è un’idea eccezionale… figurarsi se a quelle acque non proprio cristalline si aggiungono non meglio precisate sostanze chimiche… E’ quello che capita a Enzo Ceccotti, delinquente di mezza tacca, per salvarsi da un inseguimento.
Enzo è il classico ‘delinquente per necessità’, che si arrangia tra scippi e furti per assicurarsi la mera sopravvivenza in un buco nella periferia degradata di Tor Bellamonaca, passando il tempo a rimpinzarsi di budini e film porno in egual misura.
Succede però che quel bagno fuori programma abbia degli effetti imprevedibili, donando a Enzo una forza sovrumana e rendendolo pressoché invulnerabile: il nostro fin da subito utilizzerà le sue nuove abilità per scardinare bancomat e assaltare furgoni blindati; l’incontro con Alessia, una giovane donna che ha trovato nel mondo fantastico di Jeeg – Robot d’acciao la via di fuga da una vita che l’ha colpita troppo duramente, porterà Enzo a cambiare punto di vista, mentre all’orizzonte si staglierà la più proverbiale delle nemesi…

Attendevo questo film da mesi: da quando cominciai a leggerne in occasione della presentazione alla Festa del Cinema di Roma; per le imperscrutabili dinamiche della distribuzione, arriva nelle sale solo oggi, e…

Questo film è una bomba: uscito dal cinema non ho trovato nulla di meglio che definirlo, su Facebook, ‘una figata assurda’.

Già è abbastanza straordinario che un film come questo lo si sia riusciti a fare in Italia; ma poi, “Lo chiamavano Jeeg Robot” funziona per conto suo come ‘film di genere’: se fosse stato un film indipendente americano, sarei qui a lodarlo comunque, ma cavolo, questo film è stato fatto in Italia, girato in gran parte a Roma.

Il punto è che quando non si può ricorrere a effetti speciali a tonnellate, all’uso smodato del computer; quando non si possono mostrare costumi, mantelli, martelli, scudi, armature, auto fantascientifiche, astronavi, mostri spaziali e quant’altro, cosa resta?

Resta il realismo: non si ha altra strada se non quella di abbandonare la fantasmagoria di un ‘altro mondo’ dove gente ipermuscolata in calzamaglia si prende a mazzate e dare a un ladruncolo della periferia romana la possibilità di scardinare un bancomat a mani nude. L’uovo di Colombo? Forse… sono state ‘uova di colombo’ i ‘supereroi con superproblemi’ di Stan Lee, quelli repressi di Alan Moore; i ‘politici’ o i ‘realistici’ di Mark Millar…

“Lo chiamavano Jeeg Robot” è l’uovo di colombo dei film di supereroi: eliminiamo il contorno, togliamo i costumi, riduciamo tutto all’osso e dotiamo di facoltà inimmaginabili un poveraccio: il risultato è una versione ‘in negativo’ di Peter Parker, incrociata col protagonista di “Kick-Ass”, piazzata in un contesto a metà strada tra Romanzo Criminale, Gomorra, e i film poliziotteschi degli anni ’70, qualche esagerazione ‘tarantiniana’.
L’uovo di Colombo, certo, ma guarda caso quest’uovo nessuno l’aveva mai messo in piedi prima e a farlo è stato il regista romano Gabriele Mainetti che non ringrazierò mai abbastanza, assieme agli sceneggiatori Nicola Guaglianone e Menotti che, non a caso è uno che, prima che autore per la tv e il cinema, è un esponente della nostra ‘narrativa disegnata’.

Un film che vive su un continuo alternarsi di tensione e rilassamento: sospensione, risate, pathos, dramma: tutto attentamente mescolato, senza mai cadere nella farsa, nella barzelletta o nel melodramma, in cui sono presenti tutti i ‘topoi’ del percorso di ‘formazione’ del supereroe, nel classico percorso che va dall’uso dei superpoteri a fini egoistici, fino all’assunzione delle proverbiali ‘grandi responsabilità’ fino all’attesissimo ‘showdown’ finale, che arriva puntuale, rispondendo alle aspettative.

Claudio Santamaria è efficacissimo nel ruolo del protagonista, che gli calza alla perfezione e che con tutta probabilità gli frutta la sua migliore interpretazione: un attore che a dire il vero ho sempre sopportato poco ma che qui è perfetto.

Luca Marinelli è eccezionale nel disegnare un ‘criminale da fumetto’ che portato nel mondo reale diventa a tratti inquietante… una sorta di Joker di borgata, che a incrociarlo per strada non sai mai se ridere o cambiare strada di corsa.
Ilenia Pastorelli, fin qui nota alle cronache televisive per una sua passata partecipazione al Grande Fratello, mostra di avere tutte le carte in regola per una futura carriera cinematografica, interpretando un personaggio fragile e indifeso, che per ripararsi dai colpi della vita ha cercato rifugio in un improbabile ritorno all’infanzia.

“Lo chiamavano Jeeg Robot” è il film che aspettavano (aspettavamo) in tanti, stufi di botte da orbi tra palestrati in calzamaglia; “Lo chiamavano Jeeg Robot” è un film italiano: e allora, godiamocela!!!

Grande, grande, grande.

RUSSO AMORALE, “RUSSO AMORALE EP” (AUTOPRODOTTO / NEW MODEL LABEL)

Francese, ma di chiare origini italiane, Ugo Russo percorre a ritroso la strada che in molti italiani hanno compiuto prima di lui, andando a ‘bagnare i propri panni’ in acque francesi: nato in Lorena, Russo è giunto in Italia, in un viaggio alla ricerca delle proprie radici non solo sonore, lungo la via Emilia tra Reggio e Bologna.

Il primo esito di questo percorso sentimentale sono i cinque pezzi inseriti in questo Ep: poco più di un assaggio, che riescono a mettere in luce le possibilità del nostro.

Tutti cantati in italiano (scelta più che mai simbolica), ad eccezione dell’episodio conclusivo, in inglese, i pezzi si muovono all’insegna di un cantautorato tinteggiato di folk e blues e condito con qualche abrasione indie; chitarra e voce, l’intervento episodico di un’armonica.

Russo Amorale scrive e canta di urgenze di autoaffermazione, omaggia le proprie città ‘adottive’, Bologna e Lione, trova lo spazio e il tempo per qualche vaga escursione surrealistica in un lavoro che, per i suoni e, soprattutto, la vocalità, potrà ricordare a più di qualcuno Paolo Benvegnù.

Solo cinque brani, ma privi di cadute di tono e di passaggi a vuoto, solidi e strutturati, che ci mostrano una voce promettente, forse un prossimo esponente del cantautorato franc… scusate, italiano…

GASPARAZZO BANDA BASTARDA, “FORASTICO” (NEW MODEL LABEL)

Arrivano al disco numero sei, i Gasparazzo: segno di come, pur tra intuibili difficoltà, sia ancora possibile portare avanti una ‘carriera’ lontano dai riflettori e dagli onori delle cronache, mossi più dalla passione che dalla fama, contando su un seguito ristretto ma fedele, più che sui ‘grandi numeri’, facili all’infatuazione e altrettanto rapidi nell’allontanamento…

A sintetizzare l’idea del resto stavolta arriva lo stesso titolo del disco: ‘Forastico”: ovvero un soggetto rude, non facile ai contatti umani non tanto per ostilità quanto per la propria indole selvatica… è così che forse i Gasparazzo hanno deciso di definirsi… confermando forse quell’epiteto autoimposto di ‘Banda Bastarda’ che accompagna il proprio nome.

Un filo ‘forastici’ i Gasparazzo lo sempre stati: non tanto perché i suoni siano particolarmente ruvidi o ‘respingenti’, quanto in un modo forse più ‘ideale’: sono ‘forastici’ perché – pur dando alla propria proposta un’impronta stilistica discretamente definita – non si accontentano di affidarsi sempre alla stessa formula, né all’interno dello stesso disco, né passando da un lavoro all’altro.

In questo caso, si fa in parte il punto della situazione, con una corposa componente live, a chiusura di due anni di concerti, aggiungendovi quattro brani originali.

I Gasparazzo riprendono il discorso portato avanti nei lavori precedenti: un mix di influenze ‘globali’ e tradizione anglossassone, stavolta orientato fortemente ai Caraibi, tra influenze reggae e rock steady, accenni ska e accenti rockabilly.

Il quintetto emiliano coglie però l’occasione anche per una più marcata ricerca delle proprie origini, in particolare quelle abruzzesi (non a caso, il termine ‘forastico’ sembra risalire proprio al centro Italia), inserendo ben quattro pezzi in dialetto, dando maggiore peso a una componente folk e di tradizione popolare che comunque ha fatto sempre parte del loro campionario sonoro, specie attraverso l’inserimento della fisarmonica nella propria struttura sonora.

Forastico è dunque il lavoro, che punta a non dare all’ascoltatore punti di riferimento troppo ‘rassicuranti’, forastici sono i personaggi che lo animano, tra improbabili pistoleri, innamorati più o meno disperati, banditi ottocenteschi e operai del secolo scorso, fino ai giorni nostri, in cui il ‘forastico’, di turno è un cuoco maghrebino, indurito dalle avversità della vita. Una galleria di personaggi nella quale il gruppo finisce per inserire anche sé stesso, con un paio di brani che appaiono autobiografici senza scadere troppo nell’autoreferenzialità.

Una chiosa autoreferenziale me la permette anch’io (dopo tutto, questo è pur sempre un blog, quindi un po’ di ‘affari propri’ ci possono stare ogni tanto)… Insomma, mi viene da pensare che passa il tempo, e i Gasparazzo ogni tanto tornare a fare capolino tra le mie recensioni: a conti fatti, questo è già il loro terzo disco che mi capita di recensire e insomma: fa piacere ogni tanto notare come ogni tanto c’è qualcuno che riesce a proseguire il proprio percorso, pur continuando a sfuggire ai radar della discografia mainstream.

 

FUOCOAMMARE

La vita quotidiana a Lampedusa ai tempi delle migrazioni: da un lato l’esistenza ‘ordinaria’ degli abitanti dell’isola, che vengono seguiti nella vita di tutti i giorni, all’insegna appunto di un minimo quotidiano; su tutti, assistiamo alle vicende del piccolo Samuele, tra i giochi, i compiti a casa, i momenti famigliari, anche le visite mediche (personalmente mi sono molto immedesimato con lui quando l’oculista gli ha prescritto la ‘benda’ per stimolare l’occhio ‘pigro’… ci sono passato anche io, da bambino, esperienza ben poco piacevole).
Parentesi dedicate alla radio dell’isola che trasmette per lo più musica di altri tempi, ascoltata spesso e volentieri da attempate casalinghe intente alle faccende domestiche.

L’altra faccia è quella degli arrivi: le operazioni di soccorso, i ‘salvati’: a volte in condizioni critiche, altre sani e salvi, a raccontare col canto le vicende che li hanno portati fino lì, altre  a passare il tempo giocando a pallone in tornei ‘per squadre nazionali’; ma anche, purtroppo, i ‘sommersi’, quelli che non ce l’hanno fatta, i cadaveri a volte letteralmente ammassati.

Dopo averci mostrato la varia umanità che affolla quella sorta di moderna ‘cinta muraria’ che è il Grande Raccordo Anulare di Roma, con esiti che spesso inducevano alla risata, o magari alla scoperta incuriosita, Gianfranco Rosi cambia decisamente registro, mettendoci di fronte al dramma dell’immigrazione, senza negarci nulla: il buono, rappresentato dal classico ‘pallone’ che finisce per essere una sorta di ‘collante’ nella permanenza lampedusana di chi viene da tante terre diverse, ma anche il tragico, non risparmiandoci nemmeno lo sguardo su quei corpi senza vita, spesso accatastati alla meglio per pura mancanza di spazio, corpi che a dire la verità spesso finiscono fuori dagli obbiettivi dei telegiornali nazionali, per motivi ‘di opportunità’ facilmente immaginabili.

Allo stesso tempo, e in questo soprattutto si possono trovare dei punti di contatto col precedente lavoro, si seguono le vicende dei lampedusani, con momenti stranianti e inquietanti, come l’immersione notturna di un pescatore col mare quasi in burrasca, parentesi di ‘alleggerimento’, come il pasto di Samuele con la famiglia, dominato dal risucchio insistito col quale il bambino mangia gli spaghetti (il momento se vogliamo più divertente di tutto il film) ed episodi ‘lirici’, come l’incontro, ancora una volta notturno, dello stesso Samuele con un uccellino, per nulla intimidito dalla presenza umana, a evocare un contatto ‘primitivo’ con la natura che forse oggi è privilegio quasi esclusivo proprio degli abitanti delle isole.

Due tipi di esistenza che sembrano appartenere a dimensioni diverse, mondi diversi, distanti non pochi chilometri, ma centinaia, apparentemente indipendenti, se non fosse per la figura del medico Bartolo, che sembra essere una sorta di crocevia dimensionale, intento a prendersi cura degli abitanti dell’isola, come vorrebbe l’ordinarietà del suo mestiere, ma che nelle condizioni attuali passa gran parte del suo tempo a curare i nuovi arrivati, spesso giunti in condizioni estreme dopo aver passato giorni e giorni accalcati in una stiva ma anche, spesso e volentieri a dover redigere gli esami sulle salme di chi è arrivato qui senza vita.

Dietro alla ‘descrittività’ tipicamente documentaristica di Fuocoammare, sembra dunque intravedersi una riflessione sulla fondamentale inconciliabilità di due mondi che destinati a non toccarsi eccetto che in rare occasioni.
Quest’impressione di ‘altro mondo’ che le persone hanno guardando certe immagini riprese a centinaia di chilometri di distanza, appare ripetersi anche sulla stessa isola, dove la distanza è ridotta a poche centinaia di metri: due dimensioni che, anche così vicine, sembrano spesso e volentieri destinate a non incrociarsi, se non in rari casi, come in quello del medico; se anche sulla stessa isola la reale percezione delle dimensioni del fenomeno migratorio finisce per essere così limitata, le probabilità che lo si possa comprendere a centinaia, migliaia, di chilometri di distanza si riducono quasi a zero, finendo per impedire in tutto o in parte la ricerca di strade percorribili per affrontare il fenomeno migratorio.

Gianfranco Rosi nel giro di pochi anni è arrivato ad affermarsi come uno dei nostri cineasti di punta: allo stato dell’arte, forse il migliore: si potrebbe dibattere di se e quanto i premi nei vari Festival siano la vera misura delle dimensioni di chi fa cinema e oggetto di altrettante considerazioni potrebbe essere il confronto tra la ‘pura fiction’ cinematografica e il documentario,  ma non si può negare che aver vinto consecutivamente i premi a Venezia e a Berlino abbiano comunque un significato.

Resta il fatto che come il suo predecessore, anche “Fuocoammare” finisce per fare alzare lo spettatore dalla sedia come emozioni contrastanti, se possibile ancora più conflittuali che in GRA, perché in questo caso il confronto stridente è proprio tra la vita e la morte, la vita pacifica scandita lentamente e l’esistenza di chi parte alla volta delle nostre coste senza nemmeno sapere se vedrà sorgere il sole l’indomani.

LA PLAYLIST DI FEBBRAIO


Last Days                Endless Tapes

Inverno                   Lithio

La corriera del mattino  Gian Marco Basta

Un altro tiro           Luprano

Alice                        Michele Anelli

Tu sei pazza           Filippo Dr. Panico

Statue di vetro      Med In Itali

Metropolitana       Due Venti Contro

Taribo West             Machweo

O.A.U.           Torakiki

Bobe              Vale & The Varlet