Archive for gennaio 2016

MICHELE ANELLI, “GIORNI USATI” (ADESIVA DISCOGRAFICA/ LIBELLULA PRESS)

Avviene abbastanza di frequente che i dischi dei cantautori – a inizio carriera o già affermati – finiscano per essere poco ‘suonati’: talvolta alle spalle c’è una molto concreta ‘mancanza di mezzi’, in altre occasioni dipende dall’intramontabile fascino della figura idealizzata del cantautore solo contro il mondo, armato solo della propria chitarra; la maggior parte delle volte, diciamocela tutta, c’è l’obbiettivo egoismo del cantautore: il cantautore vuole stare da solo, per i fatti suoi, dire e suonare ciò che vuole senza dover scendere a patti con nessun altro. I musicisti che, specie nei casi di carriere già lanciate, lo accompagnano, sono poco più che turnisti, meri ‘esecutori’ e questo a un orecchio attento finisce per essere evidente.

Michele Anelli non è certamente un giovanotto di primo pelo (classe 1964), né un novellino sotto il profilo artistico: alle spalle una lunga e prolifica attività (per quanto non troppo illuminata dai riflettori) durata una ventina d’anni coi Groovers, proseguita con vari progetti solisti… Sarà forse proprio per questa abitudine a collaborare con altri che, per essere il lavoro il lavoro di un cantautore, “Giorni Usati” appare un disco insolitamente variegato sotto il profilo sonoro; non solo: l’ascolto dei dieci brani presenti dà l’idea che a suonare non siano arrivati dei semplici, per quanto valenti, ‘mestieranti’: si avverte un amalgama che va oltre il semplice: ‘vieni il giorno x in studio e mi suoni questo, questo e quest’altro’… O almeno, tale è la mia impressione, magari sbaglierò.

Il risultato è un disco che ricorda quegli incontri sonori tipici degli anni ’60, quando certi lavori erano magari intitolati a un cantante, ma talvolta finivano per risultare degli happening, delle riunioni in cui non tutto era programmato a tavolino, ma i pezzi finivano per prendere svolte impreviste lì, su due piedi.

Impressione accresciuta dal fatto che, in più di un episodio, il lavoro si incammina sui sentieri delle contaminazioni tra jazz e rock, ricordando (seppur alla lontana), le esperienze di Perigeo & co., ma trovando il tempo per declinazioni all’insegna dello swing, una parentesi gospel ed episodi dalla più marcata impronta cantautorale, ma in cui i suoni non sono mai un semplice contorno delle parole.

La presenza di tastiere (Andrea Lentullo) e contrabbasso (Matteo Priori) non poteva del resto non instradare il disco su territori jazz, assieme alle chitarre suonate dallo stesso Anelli e alle batterie, dietro cui si alternano Stefano Bortolotti, Sergio Qualgliarella e Nik Taccori; un ulteriore manipolo di collaboratori aggiunge, di volta in volta, fiati e archi.

I testi alternano introspezione, rapporti affettivi e dediche a chi si è incontrato lungo la strada e che alla fine della strada è giunto e uno sguardo sul mondo, tra temi sociali (la lotta delle vittime dell’amianto, la figura di Peppino Impastato), la mancanza di figure di riferimento sotto il profilo ‘ideale’, la capacità delle persone di lottare per il futuro anche quando il contesto porterebbe ad arrendersi. Un disco con tre pezzi intitolati a figure femminili, la Donna vista come simbolo della ‘resistenza’ contro le storture del mondo.

Banale, affermare che “Giorni Usati” è un disco da ‘ascoltare’: meno scontato affermare che, una volta tanto, è un lavoro in cui parole e suoni finiscono per richiedere la stessa attenzione, senza che vi siano protagonisti e ‘spalle’.

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CREED

Adonis (per gli amici Donnie) è un figlio illegittimo, nato da una relazione extraconiugale del padre, morto prima che lui nascesse; in seguito, dopo aver perso anche la madre, ha passato l’infanzia tra orfanotrofi e riformatorii, fino a quando a ‘salvarlo’ e a dargli un futuro e una vita agiata è intervenuta la moglie ‘ufficiale’ del padre.
Piccolo particolare: l’uomo in questione è Apollo Creed.

Adonis è il classico ‘ragazzo difficile’, cresciuto con un grumo di rabbia interiore, che nemmeno una promettente carriera lavorativa è riuscito a sopire: il DNA non mente, la rabbia mai sopita fa il resto, e così Donnie nel tempo libero se ne va a combattere sui ring clandestini del Messico, quando non se ne sta in salotto a rivedere – e imitare – gli epici match del padre contro Rocky Balboa… Non casuale il fatto che Donnie imiti le movenze di quest’ultimo e non del padre.

Arriva il momento delle scelte, in cui bisogna prendere il toro per le corna, e Donnie si rivolge proprio all’ex grande avversario del padre per poter definitivamente darsi al pugilato pure lui. Rocky è ormai anziano, stanco; soprattutto solo, e proprio per questo alla fine non può non accettare, e spingere il suo nuovo pupillo quando si presenterà la classica ‘grande occasione’, mentre in parallelo lo stesso Rocky si troverà a combattere una ben più importante ‘battaglia’.

Il rischio maggiore di Creed era la caduta nell’effetto – nostalgia: rischio talmente incombente da risultare evidente come si sia cercato di evitarlo a tutti i costi, tutto sommato riuscendoci.
Creed entra comunque a far parte della ‘grande saga di Rocky’ risultandone un’appendice, una sorta di postilla, la chiusura di un’epopea che allo stesso tempo ne apre un’altra.

Citazioni, allusioni, accenni, suggestioni ricorrono e si rincorrono lungo tutto il film, senza cadere nella melassa del ricordo, spargendo qua e là lungo il percorso una manciata di ‘chicche’ dedicate agli appassionati.

Se è vero che uno degli elementi che hanno costituito il mito di Rocky è la colonna sonora, in Creed è proprio questa a sintetizzare il rapporto del film coi predecessori: non sentirete, ad eccezione di un brevissimo inserto, le note strafamose di Bill Conti, ma il commento sonoro è una continua suggestione, una sorte di ‘Gonna fly now 2.0’; e Creed è un Rocky 2.0, in cui il regista Ryan Coogler (qui alla sua opera seconda, dopo “Prossima fermata Fruitvale Station” e quasi certamente incaricato di dirigere il cinefumetto dedicato a Pantera Nera, primo supereroe africano della Marvel) riesce  mettere in ombra l’apparente banalità del ‘ragazzo dal passato complicato che, apparentemente riscattatosi, cede alla necessità impellente di fare i conti con la sua rabbia interiore e con conflitto irrisolto e irrisolvibile con la pesante eredità di un padre col quale non potrà mai scendere a patti direttamente’; un mix di elementi già visti altre volte, ma che in Creed vengono declinati abbastanza efficacemente.

Il protagonista Michael B. Jordan (visto nel film che dei Fantastici 4 aveva il titolo e poco altro) ha ancora parecchia strada da fare, specie quando alla ricerca dell’intensità finisce per calcare troppo la mano, ma poi alla fine diciamocela tutta, questo film gira tutto all’equivoco voluto: Stallone – Rocky sarà pure considerato un ‘non protagonista’, ma il suo peso è talmente evidente che il film, volenti o nolenti, gira molto intorno a lui, che alla fine la candidatura all’Oscar se l’è meritata tutta.

Il resto del cast si riduce alla giovane Thessa Thompson, che porta quel tanto di cuore e sentimenti nella vita del giovane Creed e a Phylicia Rashad – che molti ricorderanno come Claire, la madre dei Robinson – qui nel ruolo della madre / matrigna del protagonista, prevedibilmente combattuta nel capire che l’unica strada di vera realizzazione del figlio acquisito è la stessa che portò il marito alla morte.

Creed è un film per ‘appassionati’ (singolare come per me, che molte battute della serie le conosco a memoria,  si sia trattato del primo film della serie visto al cinema), ma che forse dirà qualcosa anche ai non affezionati, pur non toccando certi livelli di ‘interiorità’ visti nel precedente “Rocky Balboa”, ancora dedicato al titolare della saga.

Punto di merito la veridicità dei combattimenti, grazie alle nuove possibilità di ripresa, all’insegna di un realismo sconosciuto a gran parte dei capitoli precedenti.
L’unica vera pecca del film arriva al momento del combattimento finale, quando lo spettatore viene posto di fronte alla scelta criminale del doppiatore di uno dei commentatori, che proprio all’apice della tensione conduce lo spettatore ad un roboante scoppio di risa. La fine di ogni poesia, la scelta scriteriata che in cui la tensione finale è costantemente atrofizzata dallo sghignazzo.

INCONTRI

Ieri scendo al centro per il solito giretto del sabato pomeriggio, incrocio naturalmente la manifestazione al Pantheon, poi prendo la solita via laterale, per chi conosce Roma, quella in cui c’è una celebre rivendita di caffè… Lì vicino c’è una piazzetta, per la precisione, Piazza di S.Maria in Aquiro.

E’ lì che l’occhio mi cade sul tipo: fisico mingherlino, capelli biondastri alle spalle… ma soprattutto, gli occhi: quegli occhi ‘a fessura’ che sono la caratteristica tipica del personaggio, che non ti puoi sbagliare o quasi, che ti viene da pensare che se non è lui è o un sosia, o il gemello segreto.

Il tipo stava parlando con un altro soggetto, in inglese… a un certo punto, si salutano con un abbraccio; il tipo, accompagnato da una ragazza mora, carina, mi pare, si infila in un negozio. Io resto lì, fermo, titubante. Intanto, vado su Internet per sincerarmi, guardo un po’ di foto per capire se davvero è lui, o solo uno che gli somiglia… alla fine rinuncio, perché diciamocelo a 40 suonati fare la posta a un ‘vip’ fuori da un negozio dà l’idea un po’ malata, di un personaggio uscito da un libro di Stephen King… E comunque sono timido, in questi non so mai cosa dire in italiano, figuriamoci in inglese. Vado via.

In seguito su FB contatto un paio di conoscenti che essendo più dentro al mondo della musica magari mi potrebbero informare di voci circa la presenza del tipo in questione a Roma… Una di loro mi conferma che in effetti ha letto notizie del genere.

Bene, era lui. Ho un filo di rimpianto, naturalmente: incrociare uno dei più grandi musicisti degli ultimi vent’anni e non avere la prontezza di spirito, o il coraggio, di spiccicare nemmeno una parola, bloccato dall’incertezza che sia proprio lui e dall’incapacità di ‘cogliere l’attimo’. Tipico mio, comunque, nulla di cui meravigliarsi.

Il tipo in questione, comunque, era Thom Yorke dei Radiohead.

 

 

LUPRANO, “SOGNAVO SEMPRE” (AUTOPRODOTTO / LIBELLULA PRESS)

Esordio solista per il cantante e chitarrista Ivan Luprano, non esattamente un novellino, sia dal punto di vista anagrafico (classe ’77), sia sotto il profilo artistico (un paio le esperienze pregresse all’attivo).

“Sognavo sempre”: il titolo lascia intuire una via di fuga, le difficoltà della vita reale che finiscono per indurre ad una scappatoia onirica… eppure, nonostante il titolo, gli undici brani presenti sono fermamente ancorati alla realtà, in un mix di storie di vita vissuta e considerazioni introspettive.

Si parla di fughe da gabbie esistenziali, anche portate alle estreme conseguenze, finendo per cadere nell’abisso della dipendenza; si parla di persone che cercano di riempire la propria esistenza con troppe attività, non riuscendone a portare avanti nessuna; di relazioni sentimentali complicate, che finiscono per realizzarsi solo attraverso il conflitto e di conversazioni attorno all’amore; di persone che tirano le somme della propria vita, di consapevolezza e solitudine…

Un disco che nelle parole dello stesso autore parla della difficoltà delle persone sensibili di vivere nel mondo attuale; da quella sensibilità deriva non solo la vulnerabilità nei rapporti personali, ma anche la consapevolezza di quanti dei ‘massimi sistemi’ proposti dalla società siano in fondo caratterizzati da un vuoto. Il sogno, forse, finisce per costituire l’unico ‘centro di gravità permanente’ per chi in questo mondo si sente fuori posto…

Luprano declina le proprie idee attraverso un cantautorato folk attraversato da frequenti venature abrasive, memori di certo indie anni ’90 (si sente a tratti, molto in lontananza, l’eco dei Dinosaur Jr.), conditi con una certa dose di rumorismo shoegaze e spezie dreampop.

“Sogavo sempre” appare il classico nuovo inizio di un autore che avvia la propria carriera solista, pur se – grazie alla partecipazione di un manipolo di collaboratori (si ricordano Matilde Davoli degli Studiodavoli e la giovane e promettente Lucia Manca) – si ha spesso l’impressione di trovarsi al lavoro di una band… Qualche incertezza e qualche passaggio a vuoto sono prevedibili, in quello che appare come un disco di transizione verso la definitiva maturità stilistica ed artistica.

SCOLA E GLI ALTRI

Ogni volta che negli ultimi anni se n’è andato un ‘Grande’, gli appassionati hanno tenuto una sorta di ‘contabilità’ dei sopravvissuti… l’elenco ovviamente si è progressivamente assottigliato, sempre più agevole fare il conto dei rimasti.

La morte di Ettore Scola, sembra purtroppo segnare il momento in cui il contatore arriva all’inevitabile ‘0’.
L’impressione, è che non sia rimasto più nessuno… Oddio, magari a volerlo cercare, a voler ampliare il raggio d’azione, a voler includere a voler cercare dei ‘sopravvissuti’, si potrebbero magari citare i nomi di Wertmuller o Squitieri, ma purtroppo senza girarci troppo attorno, con Scola se ne va l’ultimo rappresentante dell’età dell’oro del cinema italiano.
Scola, Monicelli, Risi, Fellini; Gassman, Sordi, Mastroianni, Manfredi; a testimoniare quell’epoca è rimasta in larga parte la cosiddetta altra metà del cielo, per quanto ormai le grandi attrici italiane dell’epoca vivano tutte più o meno ritirate dalla ribalta, facendo capolino occasionalmente (con l’unica, triste, eccezione di Monica Vitti, vittima di una malattia che lascia privi di memoria e di identità).

La dipartita di Scola dà comunque l’idea che un capitolo sia definitivamente chiuso, aprendo una riflessione su ciò che il cinema italiano è stato, è e sarà. E’ forse il caso di evitare eccessivi ‘peana’, perché forse avere troppi rimpianti è anche sbagliato: non è, probabilmente, il cinema di oggi ad essere ‘mediocre’, quanto quello di allora ad essere di un’altra categoria… E’ vero che la ‘straordinarietà’ si raggiunge grazie alla ‘selezione naturale’: ed è un fatto che in Italia tra gli anni ’50 e i ’70 si produceva un numero di film che confrontato con l’oggi appare semplicemente fantascienza; è dunque naturale pensare che da un così ampio numero di registi, attori, produttori, alla fine emergessero delle ‘eccellenze’.

Ci sarebbe da discutere del ruolo della televisione, dell’evoluzione dei costumi, del sistema dei finanziamenti pubblici al cinema, ma la banale verità è che i tempi sono semplicemente mancati e che semplicemente nel corso della storia ci sono ‘età dell’oro’ destinate prima o poi a concludersi. Il passato sembra sempre migliore del presente.
Non che poi alla fine manchi gente della quale essere felici, nel cinema italiano di oggiM a ben vedere, anzi, l’elenco dei registi che negli ultimi dieci / vent’anni hanno offerto prove di livello non è manco tanto esiguo: in ordine sparso, citerei Moretti, Virzì, Sorrentino, Garrone, Giordana, Placido, Rubini Bellocchio, Tornatore, Salvatores…
Meno folta la lista degli attori: certo, c’è il ‘solito’ Servillo (che però comincia ad essere inflazionato), c’è un Kim Rossi Stuart che per me è l’unico attore della sua generazione che può realmente aspirare ad un confronto con i grandi del passato; c’è Elio Germano,  ci sono attori secondo me sopravvalutati (Mastandrea, Santamaria, Giallini) o sottovalutati (Battiston, Popolizio) altri che forse sono troppo legati al loro ‘essere belli’ (Scamarcio), altri ancora che nelle mani del regista giusto potrebbero ‘dare di più’ (Albanese).
Attrici come Jasmine Trinca, Giovanna Mezzogiorno, Margherita Buy o Maya Sansa portano avanti sono ottime esponenti del ‘fronte femminile’.

C’è, insomma, del buono anche nel cinema italiano di oggi, e forse non è nemmeno tanto difficile da cercare… Forse non è nemmeno un problema di mancanza di ‘storie’, anche se indubbiamente esiste la tendenza a chiudersi nelle famose ‘due camere e cucina’ citate da Tarantino, forse è solo un problema di ‘mancanza di mezzi’.

E’ un fatto che di cinema in Italia se ne faccia poco: se si fanno pochi film, viene meno anche quella ‘selezione naturale’ alla quale facevo riferimento sopra, gli autori, gli attori, le opere di livello diminuiscono… La gente va poco al cinema, anche se i dati dell’ultimo anno parlano di una lieve ripresa; chiudono le piccole sale, resistono i multisala ‘Luna Park’.

La gente va al cinema a vedere Zalone… si può discutere si vuole: Zalone non è nè un genio del cinema, né il simbolo dello sprofondo, è uno che offre ai suoi spettatori sano divertimento disimpegnato; non è che si possa fare una colpa al pubblico se vuole trascorrere un pomeriggio facendosi due risate e vedendo Zalone… forse il problema è la mancanza di alternative: Zalone, come altri, ha avuto successo godendo del traino della tv: oggi qualsiasi comico che abbia successo sul piccolo schermo ha ragionevoli speranze di raccogliere un discreto gruzzolo anche trasferito nelle sale; se un produttore fiuta l’affare non gli si può certo imputare di fare il suo mestiere, che è quello di fare soldi col cinema…
Semmai, ci si dovrebbe augurare che almeno una parte della caterva di soldi che Zalone e qualche altro raccolgono al cinema siano usati per finanziare prodotti magari meno ‘di cassetta’, ma che alla fine offrano anche alternative al pubblico.

Insomma: produco Zalone, faccio un sacco di soldi, e poi grazie a Zalone finanzio anche qualche opera prima, cerco di far emergere qualche altra realtà: questo il ragionamento che dovrebbe fare un produttore che sia veramente appassionato di cinema e non solo attaccato al denaro.

Certo che se poi al pubblico non offri delle alternative tra cui scegliere, ti credo che tutti vanno a vedere Zalone… lo andrà a vedere perfino gente poco interessata che di fronte alla mancanza di alternative (mi riferisco ai film italiani) si arrende e finisce per dire: vabbé, ci vanno tutti, vediamo che roba è…

Rimpiangiamo, quindi, il passato, ma il passato era il prodotto di un complesso di fattori che oggi non sono più gli stessi… Bisogna invece chiedersi se il cinema italiano, nelle condizioni date, stia offrendo il massimo delle sue potenzialità: e purtroppo bisogna concludere che così non è; che con un po’ più di coraggio e di voglia di investire si potrebbero sfruttare potenzialità inespresse, dare occasioni a scrittori, registi, attori.

Certo, per l’Italia come per altrove, vale la considerazione che alla fine televisione ed Internet sono ottimi canali per veicolare storie, ma non si vede perché il cinema dovrebbe arrendersi, visto e considerato che all’estero sul cinema si continua a puntare.

Se quindi è vero che ‘l’età dell’oro’ del cinema italiano è una stagione con dei connotati di stra-ordinarietà difficilmente ripetibili oggi, per non avere troppi rimpianti bisognerebbe almeno fare si che il cinema italiano di oggi si esprima al massimo delle sue potenzialità.

DIPENDENTI PUBBLICI ASSENTEISTI, LAVORO, PRODUTTIVITA’…

Qualche riflessione sulla questione dei dipendenti pubblici che timbrano il cartellino e poi si fanno gli affari loro…

Il fenomeno è chiaramente odioso e segno di un malcostume e della totale mancanza di ‘senso civico’ e ‘senso del dovere’, però… Però mi viene da dire che se si dà modo alle persone di approfittare di determinate situazioni, poi non ci si può lamentare se c’è chi se ne approfitta.

Il nodo della questione sta nel fatto che non si dovrebbero creare situazioni in cui ci si affida alla buona fede del lavoratore, perché sappiamo tutti che al mondo ci sono anche le persone in malafede.

Se una persona può permettersi il lusso di timbrare il cartellino e poi andare a fare la spesa, o addirittura di dare il cartellino a un altro perché lo timbri al posto suo, è perché sa di non essere sgamata; quindi, per prima cosa, mancano i controlli.

Gli uffici, quindi, funzionano male, se non c’è un ‘responsabile’ (il superiore in grado, il capo ufficio, il capo settore, o simili) che controlli l’effettiva presenza sul posto di lavoro del lavoratore… A meno che, non siano tutti d’accordo e il capo in questione non avvalli certe abitudini, perché tanto poi capita pure a lui e tutto diventa un coprirsi a vicenda; oppure, altra possibilità, il ‘capo’ non c’è e certi uffici sono articolati in semplici gruppi di persone dove nessuno deve rendere conto a nessuno e quindi tutti si fanno i ca**i propri.

Io però ho tanto l’impressione che a monte il problema sia un altro: se in un qualsiasi ufficio c’è del lavoro – magari anche tanto – da fare, allora l’assenza di un lavoratore si fa sentire, incide sulla produzione, per esempio sul numero di pratiche evase; se c’è del lavoro da fare, è impossibile che prima o poi qualcuno, lungo la catena di comando (a forza di risalire l’organigramma, prima o poi qualcuno onesto che svolga i controlli lo si troverà, almeno spero, altrimenti dovremmo concludere che tutta la pubblica amministrazione è marcia e mi auguro che non sia così), non si accorga che un ufficio lavori meno degli altri e non scopra che questo dipende dal fatto che i lavoratori invece di lavorare vanno in palestra, a fare la spesa o se ne restano a casa.

Io quindi ho tanto l’impressione a che a monte di certi comportamenti, ci sia il fatto che certi lavoratori sul posto di lavoro non hanno un ca**o da fare: a quel punto, nel migliore dei mondi possibili, un lavoratore farebbe una segnalazione: scriverebbe a qualcuno, dicendo: guardate che qua non abbiamo un cavolo da fare dalla mattina alla sera.
Chiaramente, se un lavoratore sa che andando sul posto di lavoro non avrà niente da fare per ore, se sa che la sua presenza o meno sul luogo di lavoro non farà la minima differenza, consapevole che anche i superiori chiuderanno un occhio, sapendo quale sia la situazione, finirà prima o poi per fregarsene.

Ci si può meravigliare se quindi una persona che sa di dover passare ore in ufficio senza fare niente, finisce per impiegare il suo tempo in maniera più utile, andando a fare la spesa, o attività fisica o magari decide direttamente di starsene a casa, tanto che vada sul posto di lavoro o meno, poco cambia?

Non vuole essere una giustificazione: i furbi che non fanno niente, sapendo che c’è chi lavora al posto loro ci sono sempre, ma prima o poi sono gli stessi colleghi che si rompono le scatole e li denunciano… In molti casi in questione, mi pare che invece il problema sia ‘di massa’: ci sono interi uffici in cui i lavoratori portano avanti determinati atteggiamenti scambiandosi i favori.

Allora, il problema del dipendente truffatore smette di essere una pura questione di inciviltà, per diventare il segno di una cattiva organizzazione degli uffici e della macchina della pubblica amministrazione… del resto, a pensarci è una conseguenza prevedibile, in uno Stato dove i partiti politici hanno usato i posti del pubblico come una promessa e come un bacino elettorale: per decenni insomma, di dipendenti pubblici ne sono stati assunti troppi per poter assegnare i posti promessi in campagna elettorale, e il risultato è stata la moltiplicazione degli uffici e della spesa per gli stipendi di persone assunte per non fare nulla (esempio principe quello dei famosi ‘enti inutili’).

Non siamo nel migliore dei mondi possibili e non ci si può affidare alla buona fede delle persone: giusto e sacrosanto licenziare chi viene beccato a fare altro invece che stare sul posto di lavoro, ma a monte c’è la necessità di organizzare una pubblica amministrazione efficiente, dove le persone venga assunta per lavorare e non perché bisogna mantenere quanto promesso in campagna elettorale, dove non ci siano più uffici o enti creati ad hoc per assegnare scrivanie e poltrone.

Una pubblica amministrazione efficiente individua puntualmente i compiti e gli obbiettivi di uffici e singoli lavoratori e crea meccanismi automatici di controllo in cui la furbizia non può durare a lungo senza essere scoperta, perché l’assenza di un lavoratore dalla sua scrivania si ripercuote subito sul lavoro compiuto da un ufficio.

Una pubblica amministrazione efficiente è insomma una condizione necessaria perché certe situazioni non possano verificarsi… altrimenti non ci lamentiamo se il lavoratore che non ha nulla da fare finisce per farsi gli affari suoi: dopo tutto, se non in ufficio non c’è niente da fare, uscire per delle commissioni, o per fare attività fisica diventa una valida alternativa e un modo più costruttivo di usare il proprio tempo.

GIANMARCO BASTA, “SECONDO BASTA – 12 CANZONI TRAGICOMICHE” (FonoFabrique / Libellula Press)

Secondo Basta: ‘secondo’ come il lavoro n° 2 e secondo come ‘l’opinione di’. Le intenzioni del disco si intuiscono già dal titolo, ulteriormente chiarite dalla sua estensione: 12 canzoni tragicomiche, e infatti l’ironia, il disincanto, un filo di amarezza costituiscono la cifra emotiva, il filo conduttore dell’intero lavoro.

Fidanzate che cambiano sesso od ex che restano incinte; storie quotidiane di varia umanità che si incrociano per le strade di Bologna; l’ossessione per il denaro, che sfocia nelle (presunte) facili scorciatoie del gioco d’azzardo, o peggio in ‘fattacci’ da talk show pomeridiano, l’eterna povertà degli artisti, il male di vivere che può sconfinare nella disperazione, l’amicizia come ancora di salvezza, in alternativa alla dipendenza dai farmaci, novelle ‘ostie’ per gli adepti del ‘dio-Antidepressivo’.

Il cantautore bolognese parla di microcosmi umani e ‘massimi sistemi’ sociali, lasciando aleggiare nell’aria l’interrogativo sul se e quanto di autobiografico vi sia alla base dei suoi testi.

I suoni compongono un mosaico variegato e variopinto: blues, accenti spagnoli, la tradizione popolare, il reggae e il jazz.

Un lavoro che molto deve a una nobile e lunga tradizione, quella dei Gaber e degli Jannacci, condita per il gusto nell’uso delle parole di un Palazzeschi, nomi che lo stesso Basta cita trai propri riferimenti.

“Secondo Basta” è soprattutto un disco divertente, che nel suo snodarsi fa nascere la curiosità per cosa avrà da offrire nel prossimo pezzo, dietro la prossima curva; ma allo stesso tempo è un lavoro che lascia un che di amaro, una vaga ombra di malinconia, come quando per strada si incontrano certi casi umani che strappano una risata, ma lasciano un filo di tristezza per ciò che si potrebbe nascondere dietro alla loro apparente comicità.

 

 

DIRITTI, FIGLI, ADOZIONI E QUANT’ALTRO

Se non ci fossero di mezzo i diritti e la vita delle persone, ci sarebbe da sottolineare come tutta ‘sta storia della legge sulle coppie di fatto e sulla loro figliolanza abbia ormai sfondato i confini del ridicolo.

L’Italia è l’Italia: una Nazione in cui da svariati decenni (secoli?) vige la legge del ‘si fa ma non si dice’, dei vizi privati e delle pubbliche virtù… se ci pensiamo, in fondo qualche secolo fa i Papi non si facevano tanti problemi a fornicare e sfornare marmocchi, tanto poi quello che contava era ‘l’ufficialità’… In fondo tutto il problema dei diritti affonda le proprie radici nella Riforma e nella Controriforma: chiedetevi perché oggi le Nazioni più progredite sotto il profilo dei diritti sono proprio quelle dove nacquero e si diffusero Protestantesimo e annessi, e perché invece nelle Nazioni a maggioranza cattolica non si riescono a fare passi in avanti…

Storia a parte, il lato ridicolo di tutta questa faccenda è che anche l’introduzione della legge più largheggiante e permissiva di questo mondo, non cambierà di una virgola i ‘massimi sistemi’: diciamocela tutta, il punto è proprio questo, stiamo parlando di norme che riguardano una minoranza di persone, la cui introduzione di certo non sancirà la fine del genere umano…
Quello che dico io è: diamo a queste persone tutti i diritti che chiedono e poi continuiamo a campare tutti quanti serenamente.
Sono ormai decenni che si parla di queste cose e ogni volta qualcuno trova il pretesto per buttare tutto all’aria e far si che tutto resti com’è: a questo giro, ‘l’incaglio’ è quello dell’adozione dei figli dei conviventi, che secondo alcuni aprirebbe la porta all’utero in affitto… e allora, dico io?

Il problema dell’utero in affitto non è nella pratica in sé: secondo me ognuno dovrebbe essere libero di fare del suo corpo il ca**o che gli pare; il punto è se questo sia frutto di una libera scelta o di una costrizione sociale: il problema non è l’utero in affitto in sé, ma le possibili condizioni di povertà ed emarginazione che conducono alla scelta; il modo migliore di combattere il fenomeno è combattere la povertà.

La lotta contro i metodi diciamo ‘alternativi’ di procreazione è un’emerita scempiaggine: nel momento in cui la scienza fa delle scoperte e in forza di queste escogita delle invenzioni, la questione è chiusa: si potrà berciare quanto si vuole… Se dipendesse da tutti coloro che oggi sbraitano contro certe metodiche, oggi staremmo ancora col fuoco acceso nella caverna.

Siamo di fronte a norme che riguardano un numero esiguo di persone: anche se si introducesse una legge che permettesse alle coppie omosessuali di adottare dei figli o ricorrere alle pratiche di procreazione assistita per averne, non assisteremmo certo al crollo della società… la stragrande maggioranza delle persone continuerà a procreare col ‘metodo tradizionale’.

Il nodo vero è, certo, la tutela dei minori, ma i minori vanno tutelati a prescidere: la paura che l’introduzione di certe leggi porti alla riduzione dei bambini allo status di oggetti;  che, per dirla esplicitamente, avere un figlio diventi un capriccio, ha una sua motivazione e un suo radicamento; però allora il discorso diventa complessivo e riguarda tutti i tipi di coppie e si estende anche alla famiglia ‘tradizionale’, come tra l’altro la cronaca nera insegna; la possibilità ‘tecnica’ di procreare ha bel poco a che fare con la crescita e l’educazione dei figli. Il problema non è tanto quello di avere o no la possibilità di procreare, il problema è quello di avere la capacità di crescere un figlio: di fronte a certi ‘fattacci’, io dico spesso che non tutti possono permettersi di avere dei figli, che – paradossalmente – bisognerebbe prima superare un esame; insomma, ci sono persone che procreano essendo del tutto inadatti alla paternità / maternità e ci sono persone che per vari motivi non possono avere figli che invece sarebbero degli ottimi genitori ed educatori.

Io capirei anche certe posizioni, se fossero sincere: ma mi chiedo quanti di coloro che in Parlamento stanno conducendo certe ‘battaglie’, lo facciano per reale convinzione e quanti stiano cavalcando l’onda per puro calcolo politico: i cambi di idea dell’ultimo minuto insospettiscono; si parla genericamente di ‘cattolici del partito x o y’, ma poi la religione viene tirata in ballo solo quando fa comodo… trai difensori della ‘famiglia tradizionale’ c’è gente che di famiglie ne ha costruite due o più, avendo ogni volta figli, senza alcuna apparente preoccupazione riguardo la creazione nei fatti di famiglie ‘allargate’.

A me, più che l’ipotetico ‘mercimonio’ derivante dalla presunta apertura delle porte al cosiddetto ‘utero in affitto’ che deriverebbe dalla possibilità di una persona di adottare il figlio precedentemente avuto dal proprio compagno / a,  spaventa il mercimonio che in queste ore sta venendo praticato coi diritti delle persone.

DIO ESISTE E VIVE A BRUXELLES

Ok, le prime due notizie, buone o cattive, a seconda di come la si pensi ce le dà il titolo: dio c’è (come citano affermano certi cartelli autostradali) e ha scelto come luogo d’elezione la capitale belga.
I più saranno invece delusi o scontenti, sapendo che il dio in questione non è né quello vendicativo del Vecchio Testamento, né quello Misericordioso del nuovo… Più semplicemente, dio è una persona poco raccomandabile, iraconda, incline all’alcol, che vessa una moglie fin troppo remissiva e che passa il suo tempo davanti al computer, attraverso il quale decide le sorti dell’umanità… spesso con un atteggiamento cattivo, ai limiti del sadismo, visto che il nostro sembra aver inventato il genere umano per ammazzare il tempo, ma poi la cosa gli è sfuggita di mano, assumendo le dimensioni di un’abnorme scocciatura.

Prevedibile che uno così abbia seri problemi con la propria prole: il primo figlio, J.C., ha preso e se n’è andato tra gli uomini, cercando di riparare i torti commessi dal padre… s’è visto in seguito com’è andata finire…
La seconda, Ea, a dieci anni appena compiuti, stufa delle ingiustizie paterne, decide di andarsene pure lei, cercando di non commettere gli errori del fratello.

Così, prima di partire e di mandare in tilt il computer del padreterno invia a tutti gli uomini un messaggio via cellulare con la data della loro morte, restituendo loro la coscienza della caducità della vita e facendo così in modo che tutti vivano al meglio il tempo che gli rimane; nel contempo, si sceglie una sorta di ‘scrivano’ che dovrà aiutarla a redigere il Nuovo Nuovo Testamento, che stavolta non racconterà la sua vita, bensì quella dei suoi nuovi – sei – apostoli; nel frattempo, anche il Padreterno sarà costretto a scendere tra le sue creature, per cercare di rimediare ai – presunti – danni della figlia.

La vicenda si dipanerà raccontandoci le storie di quelle sei persone, l’impatto sulla loro esistenza dell’improvvisa coscienza dell’approssimarsi – più o meno imminente – della loro fine, che ne sancirà in varie maniere il ritorno stessso alla vita, uscendo dalle secche dell’aridità, della rassegnazione, delle ossessioni o del semplice grigiore quotidiano in modi in alcuni casi anche discretamente originali, mentre la seconda figlia di dio rivelerà le reali motivazioni e il piano più ampio, celato dietro il suo arrivo tra gli uomini…

Una commedia dai contorni favolistici, con qualche concessione all’esistenzialismo: “Dio esiste e vive a Bruxelles” è stato uno di quei ‘casi’ che, a dire il vero con una certa frequenza, ci vengono offerti dal cinema francofono: stavolta poi la pellicola è balzata agli onori delle cronache, perché, per il classico tremendo scherzo del destino, è uscita nelle sale proprio mentre nella realtà vera si scopriva che Bruxelles, più che di dio, sembra sia la città d’elezione degli jihadisti europei…

Un film in alcuni casi (leggi alla voce: Fabio Fazio) è stato osannato oltre i suoi limiti oggettivi, che lungo il suo dipanarsi si perde un po’ per strada e che a tratti risulta anche un filino lento, ma ciò non toglie che in fin dei conti lo spunto di partenza dà al film delle solide fondamentamenta su cui sostenersi; se vogliamo, il ‘secondo avvento’ non è una novità assoluta e la protagonista pur essendo una ragazzina non è l’emblema dell’innocenza e della bontà assoluta: anzi, sembra anch’essa abbastanza perplessa, forse troppo matura nella consapevolezza dei propri limiti.

Il nome di Jaco van Dormael dirà forse poco al grande pubblico italiano, ma il regista belga è da tempo entrato nelle grazie della critica e può vantare almeno un altro successo di botteghino, ormai una ventina di anni fa, con “L’ottavo giorno” (per chi se lo ricorda, una sorta di Rain Man all’europea in cui l’arido manager Daniel Auteuil ritrovava la propria umanità grazie all’incontro con un ragazzo affetto dalla Sindrome di Down); van Dormael ci racconta questa storia dal respiro ‘biblico’ con abbondanti dosi di ironia, giocando sul concetto della ‘predestinazione’: tutti sappiamo di dover morire prima o poi, ma non quando, e la mancanza di questo dettaglio finisce spesso per far perdere di vista l’obbiettivo di fando, conducendoci a vivere esistenze per lo più insensate; allo stesso tempo, buttando tutto all’aria ci mostra come, potendo sapere quanto tempo gli rimarrebbe, gli uomini butterebbero all’aria molte convenzioni sociali e perfino qualche tabù…

La giovanissima esordiente Pili Groyne come tutti – o quasi – i bambini, si trova a proprio agio davanti alla macchina da presa a dare vita al suo personaggio di messia 2.0; Benoit Poelvoorde si conferma un comico e un attore di razza, divertendosi a dare vita a un dio infame e neghittoso (la parte più spassosa del film manco a dirlo è costituita dalla esperienze terrene del padreterno); nel resto del cast si distingue – per la sola carismatica presenza – Catherine Deneuve, nel ruolo di una moglie annoiata che troverà la propria realizzazione nel modo più inaspettato…

Ho visto questo film quasi fuori tempo massimo, essendo uscito prima di Natale e che probabilmente verrà a giorni soppiantato dalla raffica di uscite post-festive: il consiglio è comunque di dargli un’occhiata in occasione di eventuali programmazioni televisive o uscite su altri supporti.

R.I.P. DAVID BOWIE (1947 – 2016)

Inopinatamente scomparso solo pochi giorni dopo la grancassa suonata per il suo ultimo disco, che ora assume il sapore di un ‘testamento’, David Bowie è stato, almeno per me, un musicista in buona parte ‘controverso’.

Una carriera durata quasi mezzo secolo, una trentina di dischi, una mezza dozzina innalzati, giustamente, al ruolo di ‘capolavori’, altri decisamente dimenticabili, Bowie è stato una grande manager e ‘venditore’ di sé stesso.

Bowie, nel bene e nel male, ha sancito quella inscindibilità tra il ‘puro fatto musicale’ e  il contorno di immagine, costruzione del (o dei) personaggi, apparenza e via dicendo che con gli anni è diventata un tratto distintivo della ‘popular music’. Indiscutibile la sua capacità di scrivere canzoni, altrettanto indiscutibile il suo aver capito di poter fare notizia anche e soprattutto con la sua immagine e le sue ‘maschere’. Positiva se vogliamo questa sua ‘crossmedialità’ ante – litteram, decisamente negative le innumerevoli imitazioni cui ha dato luogo  lungo i decenni.

Altra questione quella della sua ‘genialità’ musicale: eccezionale anticipatore per alcuni, ‘modaiolo per altri’… Su questa ‘genialità’, ho dei dubbi: se penso alla sua mitologica ‘trilogia berlinese’, penso soprattutto all’incontro con Brian Eno, uno che forse genio può essere definito più a ragion veduta… Bowie? Più che di genio, parlerei di ‘intuito’… Bowie, più che un anticipatore, ha avuto secondo me un fiuto eccezionale nell’intuire cosa, nel mare magnum di trend – sonori e non solo -nascenti stesse per trasformarsi in moda, ed è stato bravissimo a ‘scommetterci’ su, il più delle volte azzeccandoci, spesso e volentieri finendo lui stesso per passare da anticipatore, anche se su questo, ripeto, ho qualche dubbio.

Dubbi non ce ne sono, invece, sulla capacità di applicare a certe ‘idee sonore’, capacità che gli hanno spesso e volentieri permesso di dare vita a dei capolavori; la capacità, soprattutto, di circondarsi di musicisti di livello a dare forma sonora a testi che in molte occasioni resteranno – e a ragione – nella storia del rock.

Un genio? Forse no. Un grande della storia del rock, sicuramente.