Archive for gennaio 2014

LE GRANDI STORIE DISNEY – L’OPERA OMNIA DI ROMANO SCARPA – VOL.1

MADAUS, “LA MACCHINA DEL TEMPO” (CENTO CANI /AUDIOGLOBE)

Madaus
La macchina del tempo
Cento Cani / Audioglobe
http://www.madaus.org

Nato dalla collaborazione di quattro musicisti dell’Accademia della Musica di Volterra, il progetto Madaus giunge al traguardo del primo lavoro sulla lunga distanza. Madaus, ovvero: mad – house, scritto come si pronuncia, riferimento esplicito all’attività portata avanti dalle due componenti femminili del gruppo, nella musicoterapia, a sostegno dei portatori di handycap e nelle carceri; e ancora il tempo, troppo frenetico, del mondo in cui viviamo e dal quale spesso si vorrebbe volentieri fuggire.

Un’esperienza che marca il disco anche in alcuni dei suoi capitoli: “La macchina del tempo” si presenta come un concept dedicato appunto al tempo: il tempo degli amori in corso, vissuto ‘in presa diretta’ e quello delle relazioni sfumate, spesso rimpianto; ma anche, e forse soprattutto, il tempo che si fa ‘spazio’, il tempo presente vissuto con l’immaginazione, all’interno delle mura di un carcere o di una struttura psichiatrica e quello futuro, dei sogni da realizzare quando certe esperienze saranno concluse.

I Madaus danno forma sonora a questi concetti dosando in maniera accorta ed efficace le proprie coordinate stilistiche: la provenienza accademica si fa evidente in episodi che raccolti in una dimensione cameristica, uniti alle salde radici nella tradizione cantautorale italiana (con esiti a volte all’insegna di un pop ‘di classe’), ma pronti ad aprirsi ad altre influenze, dalle atmosfere sinuose del tango, passando per profumi jazz, fino  a quelle allegre e sgargianti del charleston; l’impronta emotiva del disco è frutto del dialogo continuo tra la voce di Aurora Pacchi e il piano di Antonella Gualandri, sostenute dalla sezione ritmica costituita da David Dainelli e Marzio del Testa. Piano, basso e batteria costituiscono la matrice di un ensemble musicale pronto ad arricchirsi attraverso strumenti vintage o creati ad hoc (come nel caso di un ibrido tra basso e batteria).

Rilassamenti, sottile erotismo, pathos si alternano a momenti con ispirazioni da colonna sonora e parentesi in cui si fa strada una maggiore allegria in un lavoro che ci mostra una band matura sotto il profilo tecnico e a buon punto nel cammino verso il raggiungimento di un’identità stilistica compiuta.

SUPERCROOKS

Questo invece è stato il mio primo contributo al progetto:
http://superburpblog.wordpress.com/

Vite Brevi

Da oggi, potete leggermi anche qui: http://superburpblog.wordpress.com/
un piccolo ‘esperimento’, nato con l’amico Fabrizio dalla comune passione per i fumetti. Il primo contributo è il stato il suo.

SUPERBURP!

Per circa 10 anni è rimasto perfettamente allineato in uno scaffale della libreria nella camera dove vivevo con i miei genitori. Era lì, insieme agli altri dodici volumi, stipato insieme agli altri 2.000 fumetti che ho collezionato nel corso dei primi 20 anni di vita. Tra un Uomo Ragno ed un Hulk, Sandman mi aveva letteralmente stregato e motivato, facendomi intravedere il lato oscuro del medium fumetto. Le sue immense possibilità.

Poi tra i 75 numeri di Sandman c’era Vite Brevi. Una raccolta di circa 10 numeri che raccontava lo strano viaggio di Morfeo e Delirio alla ricerca del fratello scomparso Distruzione. Ero già avvezzo al fumetto d’autore e masticavo Manara, Pratt e Pazienza, ma niente era come Neil Gaiman. Forse perché questo autore inglese non ha mai fatto mistero di ammirare i grandi cartoonist europei, forse proprio per quello stile minimal lontano anni luce dal nuovo mondo, A 22…

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AMERICAN HUSTLE

Una coppia di truffatori professionisti (Bale – Adams) vengono ‘assunti’ da un ambizioso agente dell’FBI (Cooper), per smascherare un giro di politici corrotti, partendo da quello forse meno disonesto di tutti (Renner); nella vicenda in seguito entrerà, con esiti tragicomici, anche la moglie del truffatore Bale (Jennifer Lawrence).

‘L’apparenza inganna’, cita il sottotitolo italiano di “American Hustle”: scontato come solitamente avviene nelle traduzioni italiane, ma in questa sua banalità in fondo azzeccato. Definire “American Hustle” un film banale e scontato è probabilmente ingeneroso, tuttavia, alla fine, a dircela tutta: un ‘film di truffe’, in cui tutti non sono quello che sembrano, in cui a forza di truffare e fingere di essere chi non si è si finisce anche per ingannare se stessi… Non è certo la prima volta che il cinema, specie americano ci presenta un ‘canovaccio’ del genere, anzi: gli americani in questo genere sono dei ‘maestri’, i migliori del mondo a costruire meccanismi perfettamente funzionanti su storie del genere: di questo, gli si deve dare atto e il risultato è (quasi) sempre garantito.

Il risultato garantito lo è anche in questo caso, almeno in termini di svago e diverimento; tuttavia, se da questo film ci si aspetta che venga detto qualcosa di nuovo nel filone, allora è meglio restarsene a casa: la vicenda si sviluppa secondo i metodi consueti (colpi di scena telefonati inclusi) coi personaggi che nel corso della storia fanno i conti con le proprie debolezze: i due truffatori senza scrupoli che riscoprono i concetti di ‘amore’ e ‘amicizia’, lo spregiudicato agente dell’FBI che cerca di vivere un’avventura per sganciarsi dal grigiore della propria quotidianità, il politico dalle buone intenzioni che scopre come queste non sempre si accompagnino a buone azioni: complicato non parlare di stereotipi.

A salvare il film intervengono soprattutto le interpretazioni dei singoli: un Bale ancora una volta camaleontico, stavolta sfatto, debosciato e col riporto; un Cooper insopportabile nei suoi atteggiamenti da bulletto belloccio e opportuninsta; un Renner che pur negli aspetti quasi macchiettistici del personaggio (a partire dall’improbabile acconciatura in stile Elvis) riesce comunque a dare credibilità al personaggio; convince meno Amy Adams, per la quale la candidatura all’Oscar a pare un filo esagerata, mentre su tutti svetta, straripante, una Jennifer Lawrence ancora una volta in stato di grazia, nella parte di una casalinga bella e frustrata  che si infila nelle pieghe della vicenda alla ricerca del riscatto.

“American Hustle” garantisce momenti di autentico spasso, a partire proprio dalle parentesi affidate alla Lawrence, per arrivare al gustoso cameo di De Niro (per quanto nel ruolo, ancora una volta stereotipato, del mafioso italoamericano) e David O’Russell, sornione e profondo ‘conoscitore dei suoi polli’, dà al pubblico tutto ciò che spera e si aspetta, incluso il bacio tra le due protagoniste.

La messa in scena è esteticamente ineccepibile, sorretta da una colonna sonora – ovviamente anni ’70 – di prim’ordine, ma il limite di fondo del film resta però quello della sua prevedibilità: certo un pubblico meno ‘smaliziato’ se lo godrà sicuramente, ma chi è avvezzo a certi meccanismi, non potrà non alzarsi dalla poltrona con una buona dose di insoddisfazione di fondo, pensando: “beh, tutto qua?”.

 

KATYA SANNA, “LA VIA DELLE STELLE” (AUTOPRODOTTO)

Avevamo avuto modo di ascoltare Katya Sanna già qualche anno fa, col suo “Cuore di vetro”; la ritroviamo oggi con questo suo nuovo lavoro, sempre nel solco della ricerca che già allora ne distingueva l’impronta stilistica.

Il titolo è più che mai indicativo: le dodici tracce che si dipanano lungo “La via delle stelle”  – ovvero La Via Lattea –  disegnano un viaggio siderale nelle profondità cosmiche: suoni rarefatti, riverberi, tappeti elettronici dal forte sapore ambient, scarne percussioni che accompagnano un’espressione canora all’insegna di vocalizzi dal sapore quasi lirico, erigono una cattedrale sonora dagli spazi ampi e suggestivi.

Un viaggio cosmico che però in alcuni frangenti (come nel più classico dei paradossi) sembra ricondurci a spazi più vicini a noi, come quelli, appunto, di una cattedrale gotica, con suoni ed atmosfere a tratti medievaleggianti, (ed infatti l’artista ricorda come la Via Lattea indicasse il cammino ai pellegrini verso Santiago del Compostela) che possono ricordare, alla lontana, certi episodi dei Dead Can Dance; in altri frangenti, complici le percussioni, ci si trova di fronte a sonorità dai toni orientaleggianti, come se ci si trovasse nell’intimità riflessiva di un giardino zen.

“La via delle stelle” è uno di quei lavori dei quali, onestamente, si può dire che si fa prima ad ascoltarli che non a parlarne: e questo non solo e non tanto per la loro ‘complessità’, quanto perché è proprio nella loro natura il toccare le corde ‘emotive’ dell’ascoltatore, suscitando così reazioni di volta in volta diverse (estasiate, affascinate, intrigate, talvolta magari annoiate): caratteristica certo comune a tutta la musica, ma che in dischi di questo tipo assume un peso decisivo.

Importante sottolineare, per questo, come il lavoro di Katya Sanna (coadiuvata da un manipolo di ospti trai quali, per ruolo anche in fase produzione, si distingue Fabio Franchini) sia liberamente ascoltabile online sulla piattaforma Bandcamp, mentre su Youtube è visionabile la video-installazione che accompagna il lavoro.

RENZI, LA LEGGE ELETTORALE E IL ‘SOLITO’ PD

PRIMO TEMPO. Considerazioni in ordine sparso sul progetto di legge elettorale ‘Renzi – Berlusconi’:

1) Le liste ‘bloccate’ corte: non mi sembrano uno scandalo, ma una via di mezzo, tutto sommato discreta, tra il sistema delle ‘preferenze’ (che in Italia è sempre stato sinonimo di ‘feudi elettorali’ nonché di voto di scambio, malaffare e infiltrazioni malavitose assortite) e quello delle liste abnormi; più in generale, il problema non sta nella ‘scelta del menù’, ma negli ‘ingredienti’. Sia le preferenze che le liste bloccate non garantiscono la ‘trasparenza assoluta’. Il sistema migliore sarebbe stato quello di un solo candidato per ogni lista, in quel modo si avrebbe il massimo controllo possibile da parte dell’elettore… Se i candidati venissero scelti con le primarie, sarebbe un passo avanti, ma il problema di fondo rimarrebbe: se i candidati alle primarie, per dire, sono tutti analfabeti, o tutti malavitosi, il problema si riproporrebbe.

2) La possibilità data ai partiti di presentarsi in coalizioni, ripropone pari pari il problema dell’incidenza dei piccoli partiti su un eventuale Governo. I casi sono due: o si procede con le coalizioni, che negli ultimi vent’anni in Italia hanno fatto solo danni, o si va per singoli partiti: il sistema Renzi – Berlusconi non risolve il problema di fondo, checché ne dicano loro.

3) Il doppio turno, assieme alle coalizioni, appare evidentemente un sistema per sbarrare la strada al MoVimento Cinque Stelle: per prima cosa infatti il sistema favorisce la formazione di assembramenti di partiti, quando è risaputo che M5S va sempre da solo; secondo, il doppio turno favorisce l’appoggio ‘esterno’: in poche parole, nella fantascientifica ipotesi in cui M5S andasse al ballottaggio con FI-NCD-FI-LEGA e soci, o al ballottaggio con PD (solo o in compagnia), è ovvio che i partiti ‘tradizionali’ si spalleggerebbero, invitando gli elettori a turarsi il naso contro il ‘nemico comune’ rappresentato dal ‘pericoloso populismo di M5S’. Non prendiamoci in giro: i partiti tradizionali stanno insieme al Governo da due anni e passa, ormai sono pappa e ciccia…

 

SECONDO TEMPO. Il ‘solito’ PD

Il PD mette ancora una volta in scena la commedia di bassa lega cui ci ha abituato negli ultimi anni:  appena eletto un segretario, si comincia subito a brigare per liberarsene. La piazzata esibita da Cuperlo l’altro giorno è ridicola e infantile, una cosa che manco all’asilo di infanzia. Non gioco più, me ne vado. Peccato che Cuperlo sapesse benissimo ‘chi’ fosse Renzi, la sua smania accentratrice, la sua sete di potere; perché allora accettare la Presidenza? Semplice, per potere, alla prima occasione, fare la scenata plateale, mettersi in mostra, conquistarsi i titoli dei giornali. Sono le solite guerra di potere cui abbiamo assistito negli ultimi anni. Ora: a me Renzi un pò convince, un pò no. Credo che il suo dire che ‘è ora di decidere sia sacrosanto’, specie se dall’altra parte abbiamo il PD dei Cuperlo e dei Fassina che è quello del discutiamo, discutiamo, discutiamo, facciamo notte, e… alla fine non decidiamo nulla e rimandiamo. Se Renzi è accusato di essere un ‘decisionista’ (noto peraltro che la mia impressione che Renzi sia una sorta di nuovo Craxi cominci a prendere piede), è altrettanto vero che il principale limite del PD sia stato l’in-decisionismo. Non dimentichiamoci che in tutti questi anni il PD è stato impegnato a discutere, discutere, discutere al proprio interno, il più delle volte su sofismi che poco avevano a che fare con la vita quotidiana dei cittadini italiani; il PD ha passato il tempo a guardarsi le scarpe mentre il mondo intorno girava, salvo alzare improvvisamente lo sguardo e ritrovarsi Piazza San Giovanni riempita da Beppe Grillo…

Io posso capire che nel PD serpeggi il terrore che Renzi voglia un partito ‘del leader’ modello – PDL; è una paura comprensibile (poi se sia veramente dovuta alla volontà ‘di democrazia’ o piuttosto alla paura di assistere a carriere ‘sbarrate’, non saprei); però, mi dico: Renzi è segretario da nemmeno due mesi; ha senso cominciare subito con le polemiche, le scenate, la guerra interna?  Non è forse meglio ‘lasciarlo lavorare’, vedere se e quali risultati raggiunge, e piuttosto che perdere tempo con le sceneggiate e le bambinate, ricominciare a guardarsi intorno, a lavorare sul territorio, a parlare con le persone per intercettarne i malumori e malessere? L’impressione è di trovarsi di fronte ad un film (di serie – Z) già visto: il mondo va avanti, ma il PD preferisce starsi a guardare le scarpe, perché l’importante è  ‘il Partito’, mentre per le persone comuni c’è sempre tempo…

SUNTIAGO, “SPOP” (SEAHORSE RECORDINGS)

Primo lavoro sulla lunga distanza (dopo un precedente Ep) per il trio romano dei Suntiango. La band capitolina sforna tredici brani all’insegna di un rock abbastanza canonico  dalla consueta strumentazione in cui le chitarre si prendono il ruolo di tracciare le ‘coordinate emozionali’ dei brani e basso e batteria di dare al tutto maggiore solidità, coadiuvati occasionalmente dall’intervento di un piano (con effetti che evocano atmosfere da club anni ’30).

I Suntiago badano al sodo: senza andare a cercare l’originalità a tutti i costi, appaiono esprimersi in ciò che meglio sanno fare, costruendo un pugno di brani orecchiabili, cercando ove possibile di variare l’atmosfera (tra accenni seventies, retaggi gruge, spore funk, allusioni noise) e finendo per dare vita ad un disco che alla fine si lascia ascoltare abbastanza piacevolmente. Il gruppo capitolino non ha certo paura del termine ‘pop’ (inserito del resto anche nel titolo), prestando sempre attenzione al lato melodico dei brani (con più di un episodio dalla spiccata attitudine radiofonica) senza farsi mai prendere la mano da distorsioni o da una maggiore irruenza: a tratti danno quasi l’impressione di controllarsi un filino troppo, talvolta un maggior ‘lasciarsi andare’ non avrebbe guastato. Tredici brani costituiscono un pasto più che abbondante per un esordio, pur appesantendo un pò l’ascolto. Non indimenticabili i testi, tra omaggi a John Bonham, miraggi africani come ‘fuga dalla civiltà’, i soliti gettati sguardi tra il sarcastico e l’amaro sulla società.

“Spop” è insomma il disco di una band che appare già avere le idee sufficientemente chiare sul proprip per corso, ma che sconta i limiti e le incertezze tipici di ogni esordio: un buon viatico per l’auspicabile proseguimento della loro carriera.

Al di là della recensione, chi volesse farsi un’idea, può ascoltare il disco  su Soundcloud.

MARCEL DUCHAMP – RE-MADE IN ITALY

Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, fino al 9 febbraio

Giosetta Fioroni, “L’argento” – “Faience, 1993-2013”  Roma, GNAM, fino al 26 gennaio.

Marcel Duchamp è il classico artista che o lo si ama o lo si odia: con la sua famosa ‘fontana’ (leggi: un pitale rovesciato) è stato tra coloro che nel ‘900 hanno mutato radicalmente il concetto di ‘arte’, fino al punto di non ritorno. Un rivoluzionario liberatore dell’espressione artistica dalle ultime catene dell’Accademia per i suoi fa, un barbaro che ha devastato il mondo dell’arte, dando il via alla ‘degenerazione’ di cui oggi si assiste agli effetti più deleteri per i suoi detrattori.

La mostra in corso alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna vuole essere una riflessione, nemmeno totalmente esaustiva, sui rapporti di Duchamp con l’arte italiana, usando come materiale l’ampio fondo donato alla Galleria dal collezionista Arturo Schwartz; fulcro dell’esposizione sono una serie di opere appartenenti alla classica e più conosciuta produzione dell’autore, della serie degli ‘oggetti di uso comune che estrapolati dal loro contesto originario, divengono opere d’arte’, a partire, appunto da uno dei tanti e immancabili orinatoi, per passare a portabottiglie, attaccapanni e badili vari.

Il resto della mostra si articola in altre opere dell’autore, soprattutto depliant e manifesti, con qualche ‘chicca’  (ad esempio un quadro dedicato ai giocatori di scacchi – è poco conosciuto il fatto che Duchamp fosse un eccellente scacchista – appartenente alle prime opere dell’autore) e ad un’ampia sezione dedicata agli autori italiani, più o meno coevi, che hanno subito l’influenza dell’artista, talvolta allacciando con lui rapporti diretti:  si possono citare  Enrico Baj, Gianfranco Baruchello, Sergio Dangelo,  Luca Maria Patella;  in mostra anche un’opera di Man Ray, artista che ha con Duchamp collaborò spesso; ultima notazione per la possibilità di assistere alla proiezione di Verifica Incerta, film montato dello stesso Barruchello insieme ad Alberto Grifi, omaggio cinematografico alla poetica di artisti come Duchamp, Ray e Max Ernst: per chi non lo sapesse è un film che assembla, con esiti spesso comici, vari spezzoni del cinema hollywoodiano: il vero antesignano di Blob di Ghezzi e Giusti che infatti hanno sempre riconosciuto il loro debito nei confronti di quel film.

Assieme alla mostra dedicata all’artista francese, è possibile visitarne una seconda, stavolta incentrata sull’italiana Giosetta Fioroni: l’artista romana espone qui tre gruppi di opere: il primo, composto di due serie, appartiene alla sua più recente produzione in ceramica: da una parte una serie di ‘teatrini’, sul tipo di quelli delle marionette per i ragazzini, con scene ispirate a luoghi, esperienze, opere letterarie; dall’altra una serie di ‘manichini’, vestiti con varie fogge, ispirate a personaggi femminili reali o di fantasia. La seconda sezione è dedicata a una serie di quadri, paesaggi stilizzati da pochi tratti di pittura argentata; la terza è invece dedicata a quadri più canonici, ispirati dalla tv o dalla pubblicità: queste ultime due sezioni raccolgono opere un po’ più datate.

Nel complesso, le due mostre (attenzione, quella su Fioroni chiude alla fine della prossima settimana) meritano sicuramente una visita: per conto mio la più interessante è stata quella dedicata a Giosetta Fioroni, artista della quale, ammetto, ignoravo la stessa esistenza; quanto a Duchamp, finiscono per incuriosire più le opere degli italiani che le sue, specie se queste sono già state viste in altre occasioni; in tutti i casi forse una ‘personale’ dedicata a Duchamp è consigliabile solo ai veri appassionati… tutti gli altri si ritroveranno col classico ed irrisolto dubbio del ‘ma è arte?’.

CAPITAN HARLOCK

Apparentemente spinto dal sogno di una vita di avventure  e libertà, il giovane Yama riesce ad imbarcarsi sull’Arcadia, la corazzata spaziale guidata dal leggendario Capitan Harlock: siamo in un futuro (o forse in un passato) remotissimo, in cui l’umanità ha colonizzato il cosmo, e in cui è scoppiato il più classico conflitto tra gli ‘eredi’ delle colonie e la madre patria: Harlock è un generale rinnegato che combatte contro la Gaia Sanction, una sorta di governatorato terrestre;  i suoi obbiettivi – presunti e reali – diverranno noti a Yama nel corso dell’avventura, in cui fin da subito si scoprirà come anche il giovane sia mosso da ben altre – e meno nobili – motivazioni, cominciando da qui un cammino di evoluzione e cambiamento che lo porterà a  cambiare obbiettivi, fino a scontrarsi col fratello, comandante a capo della flotta terrestre…

Capitan Harlock è una di quelle ‘figure mitologiche’ rimaste impresse nell’immaginario di chi ha vissuto la prima ondata dei cartoni animati giapponesi sbarcati in Italia nella seconda metà degli anni ’70 e trasmessi dalla RAI (in tempi di celebrazioni per il sessantesimo, ci sarebbe da sottolineare come il fatto che la tv di Stato in quegli anni abbia trasmesso le avventure di questo personaggio ‘anarchico’ e ‘irregolare’ abbia quasi del miracoloso);M naturale quindi che l’arrivo di un lungometraggio sugli schemi cinematografici italiani fosse attesissimi, almeno dagli ex – ragazzini di quella generazione, ormai avviati verso gli -anta, se non già abbondantemente ‘oltre’….

Ebbene: Capitan Harlock alla fine offre un risultato ‘un pò così’: soffre, chiaramente, del limite tipico di tutte le operazioni del genere: tradurre in uno solo lungometraggio quella che in origini era una saga di ben altri respiro e proporzioni è quanto meno improponibile; anche volendo dare questo ‘beneficio del dubbio’, però, non può sfuggire come il film soffra anche di altri problemi: una storia che si snoda in modo non lineare, con uno scollamento fin troppo spiccato tra la prima e la seconda parte;  un ritmo eccessivamente spezzettato, all’insegna di un’alternanza tra velocità e rallentamenti troppo spiccata;  personaggi che, forse volendo dipingere come ‘sfaccettati’ e complessi, finiscono per mostrare comportamenti ai limiti del bipolare. Il film ‘intestato’ al ‘pirata tutto nero’, finisce effettivamente per essere la storia del percorso di cambiamento’ (maturazione?) del giovane protagonista; figure di contorno a mala pena ‘abbozzate’ e rese in qualche caso in modo alquanto fuorviante rispetto all’edizione originale….

Tutto male, quindi? Non proprio: abbastanza prevedibilmente, la migliore ‘arma’ a disposizione del film è la resa, immensa, avvolgente e spettacolare della computer grafica anche nella versione ‘2D’: un autentico trip che riempe gli occhi dall’inizio alla fine, sia nella traduzione sullo schermo delle immensità cosmiche, sia in quella iper-realistica dei personaggi umani; sotto questo profilo, “Capitan Harlock” che mantiene completamente ciò che promette, facendo dimenticare i limiti narrativi e di resa dei personaggi del film, che probabilmente finisce per essere indicato quasi esclusivamente agli appassionati del personaggio o a coloro che, ricordandone le gesta sul piccolo schermo, vogliono passare un paio d’ore ripescando a piene mani nella soffitta o nella cantina delle proprie memorie.