Archive for gennaio 2014
31 Gen
MADAUS, “LA MACCHINA DEL TEMPO” (CENTO CANI /AUDIOGLOBE)
Madaus
La macchina del tempo
Cento Cani / Audioglobe
http://www.madaus.org
Nato dalla collaborazione di quattro musicisti dell’Accademia della Musica di Volterra, il progetto Madaus giunge al traguardo del primo lavoro sulla lunga distanza. Madaus, ovvero: mad – house, scritto come si pronuncia, riferimento esplicito all’attività portata avanti dalle due componenti femminili del gruppo, nella musicoterapia, a sostegno dei portatori di handycap e nelle carceri; e ancora il tempo, troppo frenetico, del mondo in cui viviamo e dal quale spesso si vorrebbe volentieri fuggire.
Un’esperienza che marca il disco anche in alcuni dei suoi capitoli: “La macchina del tempo” si presenta come un concept dedicato appunto al tempo: il tempo degli amori in corso, vissuto ‘in presa diretta’ e quello delle relazioni sfumate, spesso rimpianto; ma anche, e forse soprattutto, il tempo che si fa ‘spazio’, il tempo presente vissuto con l’immaginazione, all’interno delle mura di un carcere o di una struttura psichiatrica e quello futuro, dei sogni da realizzare quando certe esperienze saranno concluse.
I Madaus danno forma sonora a questi concetti dosando in maniera accorta ed efficace le proprie coordinate stilistiche: la provenienza accademica si fa evidente in episodi che raccolti in una dimensione cameristica, uniti alle salde radici nella tradizione cantautorale italiana (con esiti a volte all’insegna di un pop ‘di classe’), ma pronti ad aprirsi ad altre influenze, dalle atmosfere sinuose del tango, passando per profumi jazz, fino a quelle allegre e sgargianti del charleston; l’impronta emotiva del disco è frutto del dialogo continuo tra la voce di Aurora Pacchi e il piano di Antonella Gualandri, sostenute dalla sezione ritmica costituita da David Dainelli e Marzio del Testa. Piano, basso e batteria costituiscono la matrice di un ensemble musicale pronto ad arricchirsi attraverso strumenti vintage o creati ad hoc (come nel caso di un ibrido tra basso e batteria).
Rilassamenti, sottile erotismo, pathos si alternano a momenti con ispirazioni da colonna sonora e parentesi in cui si fa strada una maggiore allegria in un lavoro che ci mostra una band matura sotto il profilo tecnico e a buon punto nel cammino verso il raggiungimento di un’identità stilistica compiuta.
29 Gen
SUPERCROOKS
Questo invece è stato il mio primo contributo al progetto:
http://superburpblog.wordpress.com/
29 Gen
Vite Brevi
Da oggi, potete leggermi anche qui: http://superburpblog.wordpress.com/
un piccolo ‘esperimento’, nato con l’amico Fabrizio dalla comune passione per i fumetti. Il primo contributo è il stato il suo.
Per circa 10 anni è rimasto perfettamente allineato in uno scaffale della libreria nella camera dove vivevo con i miei genitori. Era lì, insieme agli altri dodici volumi, stipato insieme agli altri 2.000 fumetti che ho collezionato nel corso dei primi 20 anni di vita. Tra un Uomo Ragno ed un Hulk, Sandman mi aveva letteralmente stregato e motivato, facendomi intravedere il lato oscuro del medium fumetto. Le sue immense possibilità.
Poi tra i 75 numeri di Sandman c’era Vite Brevi. Una raccolta di circa 10 numeri che raccontava lo strano viaggio di Morfeo e Delirio alla ricerca del fratello scomparso Distruzione. Ero già avvezzo al fumetto d’autore e masticavo Manara, Pratt e Pazienza, ma niente era come Neil Gaiman. Forse perché questo autore inglese non ha mai fatto mistero di ammirare i grandi cartoonist europei, forse proprio per quello stile minimal lontano anni luce dal nuovo mondo, A 22…
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27 Gen
AMERICAN HUSTLE
Una coppia di truffatori professionisti (Bale – Adams) vengono ‘assunti’ da un ambizioso agente dell’FBI (Cooper), per smascherare un giro di politici corrotti, partendo da quello forse meno disonesto di tutti (Renner); nella vicenda in seguito entrerà, con esiti tragicomici, anche la moglie del truffatore Bale (Jennifer Lawrence).
‘L’apparenza inganna’, cita il sottotitolo italiano di “American Hustle”: scontato come solitamente avviene nelle traduzioni italiane, ma in questa sua banalità in fondo azzeccato. Definire “American Hustle” un film banale e scontato è probabilmente ingeneroso, tuttavia, alla fine, a dircela tutta: un ‘film di truffe’, in cui tutti non sono quello che sembrano, in cui a forza di truffare e fingere di essere chi non si è si finisce anche per ingannare se stessi… Non è certo la prima volta che il cinema, specie americano ci presenta un ‘canovaccio’ del genere, anzi: gli americani in questo genere sono dei ‘maestri’, i migliori del mondo a costruire meccanismi perfettamente funzionanti su storie del genere: di questo, gli si deve dare atto e il risultato è (quasi) sempre garantito.
Il risultato garantito lo è anche in questo caso, almeno in termini di svago e diverimento; tuttavia, se da questo film ci si aspetta che venga detto qualcosa di nuovo nel filone, allora è meglio restarsene a casa: la vicenda si sviluppa secondo i metodi consueti (colpi di scena telefonati inclusi) coi personaggi che nel corso della storia fanno i conti con le proprie debolezze: i due truffatori senza scrupoli che riscoprono i concetti di ‘amore’ e ‘amicizia’, lo spregiudicato agente dell’FBI che cerca di vivere un’avventura per sganciarsi dal grigiore della propria quotidianità, il politico dalle buone intenzioni che scopre come queste non sempre si accompagnino a buone azioni: complicato non parlare di stereotipi.
A salvare il film intervengono soprattutto le interpretazioni dei singoli: un Bale ancora una volta camaleontico, stavolta sfatto, debosciato e col riporto; un Cooper insopportabile nei suoi atteggiamenti da bulletto belloccio e opportuninsta; un Renner che pur negli aspetti quasi macchiettistici del personaggio (a partire dall’improbabile acconciatura in stile Elvis) riesce comunque a dare credibilità al personaggio; convince meno Amy Adams, per la quale la candidatura all’Oscar a pare un filo esagerata, mentre su tutti svetta, straripante, una Jennifer Lawrence ancora una volta in stato di grazia, nella parte di una casalinga bella e frustrata che si infila nelle pieghe della vicenda alla ricerca del riscatto.
“American Hustle” garantisce momenti di autentico spasso, a partire proprio dalle parentesi affidate alla Lawrence, per arrivare al gustoso cameo di De Niro (per quanto nel ruolo, ancora una volta stereotipato, del mafioso italoamericano) e David O’Russell, sornione e profondo ‘conoscitore dei suoi polli’, dà al pubblico tutto ciò che spera e si aspetta, incluso il bacio tra le due protagoniste.
La messa in scena è esteticamente ineccepibile, sorretta da una colonna sonora – ovviamente anni ’70 – di prim’ordine, ma il limite di fondo del film resta però quello della sua prevedibilità: certo un pubblico meno ‘smaliziato’ se lo godrà sicuramente, ma chi è avvezzo a certi meccanismi, non potrà non alzarsi dalla poltrona con una buona dose di insoddisfazione di fondo, pensando: “beh, tutto qua?”.
26 Gen
KATYA SANNA, “LA VIA DELLE STELLE” (AUTOPRODOTTO)
Avevamo avuto modo di ascoltare Katya Sanna già qualche anno fa, col suo “Cuore di vetro”; la ritroviamo oggi con questo suo nuovo lavoro, sempre nel solco della ricerca che già allora ne distingueva l’impronta stilistica.
Il titolo è più che mai indicativo: le dodici tracce che si dipanano lungo “La via delle stelle” – ovvero La Via Lattea – disegnano un viaggio siderale nelle profondità cosmiche: suoni rarefatti, riverberi, tappeti elettronici dal forte sapore ambient, scarne percussioni che accompagnano un’espressione canora all’insegna di vocalizzi dal sapore quasi lirico, erigono una cattedrale sonora dagli spazi ampi e suggestivi.
Un viaggio cosmico che però in alcuni frangenti (come nel più classico dei paradossi) sembra ricondurci a spazi più vicini a noi, come quelli, appunto, di una cattedrale gotica, con suoni ed atmosfere a tratti medievaleggianti, (ed infatti l’artista ricorda come la Via Lattea indicasse il cammino ai pellegrini verso Santiago del Compostela) che possono ricordare, alla lontana, certi episodi dei Dead Can Dance; in altri frangenti, complici le percussioni, ci si trova di fronte a sonorità dai toni orientaleggianti, come se ci si trovasse nell’intimità riflessiva di un giardino zen.
“La via delle stelle” è uno di quei lavori dei quali, onestamente, si può dire che si fa prima ad ascoltarli che non a parlarne: e questo non solo e non tanto per la loro ‘complessità’, quanto perché è proprio nella loro natura il toccare le corde ‘emotive’ dell’ascoltatore, suscitando così reazioni di volta in volta diverse (estasiate, affascinate, intrigate, talvolta magari annoiate): caratteristica certo comune a tutta la musica, ma che in dischi di questo tipo assume un peso decisivo.
Importante sottolineare, per questo, come il lavoro di Katya Sanna (coadiuvata da un manipolo di ospti trai quali, per ruolo anche in fase produzione, si distingue Fabio Franchini) sia liberamente ascoltabile online sulla piattaforma Bandcamp, mentre su Youtube è visionabile la video-installazione che accompagna il lavoro.
19 Gen
SUNTIAGO, “SPOP” (SEAHORSE RECORDINGS)
Primo lavoro sulla lunga distanza (dopo un precedente Ep) per il trio romano dei Suntiango. La band capitolina sforna tredici brani all’insegna di un rock abbastanza canonico dalla consueta strumentazione in cui le chitarre si prendono il ruolo di tracciare le ‘coordinate emozionali’ dei brani e basso e batteria di dare al tutto maggiore solidità, coadiuvati occasionalmente dall’intervento di un piano (con effetti che evocano atmosfere da club anni ’30).
I Suntiago badano al sodo: senza andare a cercare l’originalità a tutti i costi, appaiono esprimersi in ciò che meglio sanno fare, costruendo un pugno di brani orecchiabili, cercando ove possibile di variare l’atmosfera (tra accenni seventies, retaggi gruge, spore funk, allusioni noise) e finendo per dare vita ad un disco che alla fine si lascia ascoltare abbastanza piacevolmente. Il gruppo capitolino non ha certo paura del termine ‘pop’ (inserito del resto anche nel titolo), prestando sempre attenzione al lato melodico dei brani (con più di un episodio dalla spiccata attitudine radiofonica) senza farsi mai prendere la mano da distorsioni o da una maggiore irruenza: a tratti danno quasi l’impressione di controllarsi un filino troppo, talvolta un maggior ‘lasciarsi andare’ non avrebbe guastato. Tredici brani costituiscono un pasto più che abbondante per un esordio, pur appesantendo un pò l’ascolto. Non indimenticabili i testi, tra omaggi a John Bonham, miraggi africani come ‘fuga dalla civiltà’, i soliti gettati sguardi tra il sarcastico e l’amaro sulla società.
“Spop” è insomma il disco di una band che appare già avere le idee sufficientemente chiare sul proprip per corso, ma che sconta i limiti e le incertezze tipici di ogni esordio: un buon viatico per l’auspicabile proseguimento della loro carriera.
Al di là della recensione, chi volesse farsi un’idea, può ascoltare il disco su Soundcloud.
13 Gen
CAPITAN HARLOCK
Apparentemente spinto dal sogno di una vita di avventure e libertà, il giovane Yama riesce ad imbarcarsi sull’Arcadia, la corazzata spaziale guidata dal leggendario Capitan Harlock: siamo in un futuro (o forse in un passato) remotissimo, in cui l’umanità ha colonizzato il cosmo, e in cui è scoppiato il più classico conflitto tra gli ‘eredi’ delle colonie e la madre patria: Harlock è un generale rinnegato che combatte contro la Gaia Sanction, una sorta di governatorato terrestre; i suoi obbiettivi – presunti e reali – diverranno noti a Yama nel corso dell’avventura, in cui fin da subito si scoprirà come anche il giovane sia mosso da ben altre – e meno nobili – motivazioni, cominciando da qui un cammino di evoluzione e cambiamento che lo porterà a cambiare obbiettivi, fino a scontrarsi col fratello, comandante a capo della flotta terrestre…
Capitan Harlock è una di quelle ‘figure mitologiche’ rimaste impresse nell’immaginario di chi ha vissuto la prima ondata dei cartoni animati giapponesi sbarcati in Italia nella seconda metà degli anni ’70 e trasmessi dalla RAI (in tempi di celebrazioni per il sessantesimo, ci sarebbe da sottolineare come il fatto che la tv di Stato in quegli anni abbia trasmesso le avventure di questo personaggio ‘anarchico’ e ‘irregolare’ abbia quasi del miracoloso);M naturale quindi che l’arrivo di un lungometraggio sugli schemi cinematografici italiani fosse attesissimi, almeno dagli ex – ragazzini di quella generazione, ormai avviati verso gli -anta, se non già abbondantemente ‘oltre’….
Ebbene: Capitan Harlock alla fine offre un risultato ‘un pò così’: soffre, chiaramente, del limite tipico di tutte le operazioni del genere: tradurre in uno solo lungometraggio quella che in origini era una saga di ben altri respiro e proporzioni è quanto meno improponibile; anche volendo dare questo ‘beneficio del dubbio’, però, non può sfuggire come il film soffra anche di altri problemi: una storia che si snoda in modo non lineare, con uno scollamento fin troppo spiccato tra la prima e la seconda parte; un ritmo eccessivamente spezzettato, all’insegna di un’alternanza tra velocità e rallentamenti troppo spiccata; personaggi che, forse volendo dipingere come ‘sfaccettati’ e complessi, finiscono per mostrare comportamenti ai limiti del bipolare. Il film ‘intestato’ al ‘pirata tutto nero’, finisce effettivamente per essere la storia del percorso di cambiamento’ (maturazione?) del giovane protagonista; figure di contorno a mala pena ‘abbozzate’ e rese in qualche caso in modo alquanto fuorviante rispetto all’edizione originale….
Tutto male, quindi? Non proprio: abbastanza prevedibilmente, la migliore ‘arma’ a disposizione del film è la resa, immensa, avvolgente e spettacolare della computer grafica anche nella versione ‘2D’: un autentico trip che riempe gli occhi dall’inizio alla fine, sia nella traduzione sullo schermo delle immensità cosmiche, sia in quella iper-realistica dei personaggi umani; sotto questo profilo, “Capitan Harlock” che mantiene completamente ciò che promette, facendo dimenticare i limiti narrativi e di resa dei personaggi del film, che probabilmente finisce per essere indicato quasi esclusivamente agli appassionati del personaggio o a coloro che, ricordandone le gesta sul piccolo schermo, vogliono passare un paio d’ore ripescando a piene mani nella soffitta o nella cantina delle proprie memorie.