È una scrittura sospesa, quella di Emiliano Mazzoni: c’è questo susseguirsi di sprazzi di ricordi, tra infanzia, adolescenza e maturità, c’è qualcosa di ancestrale: una ‘Natura’ che fa sempre da sfondo: ricorre l’erba, intesa proprio come terreno, e poi il vento, la nebbia, la Luna, la luce; del resto, Mazzoni (qui al quarto lavoro) è originario di un paese dell’Appennino modenese.
C’è un’idea dei rapporti umani, anche sentimentali, che sembra cercare essenzialità, una mancanza di filtri, un po’ come succede col contatto con la natura.
Analogo il percorso proseguito dalla proposta sonora, accompagnata da un’interpretazione costantemente sottotraccia, a tratti quasi dolente, che pur riportando qualche suggestione psichedelica e riferimenti d’oltreoceano, appare radicata nella tradizione popolare (oltre che cantautorale) delle proprie origini.
Veneziani, nati come quartetto e successivamente ampliatisi con l’arrivo di un tastierista, i The Fence raggiungono l’importante traguardo del primo disco ‘lungo’, dando seguito a un precedente EP.
Dieci brani all’insegna di un rock che non necessita di troppi aggettivi, saldamente ancorato nella ‘tradizione’, nei classici degli anni ’70, tra ‘omaggi’ (qua e là sembrano affacciarsi i Queen, i Pink Floyd, la scuola prog, italiana e non solo) tutto sommato inevitabili e tentativi di di ‘attualizzare’ certe sonorità.
Un tempo lo si sarebbe chiamato’aor’- adult oriented rock, definizione adatta a un hard rock che evita ogni ‘esagerazione’ per mantenere una certa gradevolezza d’ascolto.
Interamente cantato in inglese, “Everyday” veleggia tra momenti accesi e parentesi più tranquille, non disdegna qua e là un approccio più pop, con testi che, come suggerisce il titolo, affrontano il ‘quotidiano’ nelle sue varie sfaccettature.
Talvolta si ricorre a soluzioni un po’ troppo ‘di maniera’, pur rimanendo un ascolto nel complesso gradevole.
Terzo disco per il progetto portato avanti da Aldo Betto (chitarra), Blake C. S. Franchetto (basso) e Youssef Ait Bouazza(batteria e percussioni), con l’apporto – pur se solo in alcuni degli otto pezzi presenti – della voce di Chris Costa, ed è la novità più importante rispetto a una formula che rimane comunque saldamente ancorata alla sola espressione strumentale.
La proposta resta quella evocata dal nome del progetto: una sorta di ‘funk da spazi aperti’, che parte dal consueto inesausto pulsare del basso, accompagnato da chitarre che, conservando anch’esse un sapore tipicamente seventies, lanciano flirt con l’hard rock, a volte andando a lambire territori prog o space, accennando derive psichedeliche o escursioni in territori blues; resta costante, sotto traccia, l’attitudine jazzistica per le svolte improvvise, né si rinuncia a una corposa componente etnica, tra spezie mediterranee, africane e caraibiche, fino a sfioramenti dub.
Il pasto è insomma ottimo e abbondante, le portate dense di sapori, per un disco che sa rivelare a ogni ascolto dettagli precedentemente sfuggiti.
A circa un anno di distanza dal lavoro d’esordio, “Musica Analoga”, secondo disco per il trio capitanato da Aldo Betto, chitarrista dalla carriera ventennale.
“Savana funk” è un titolo che già di suo suggerisce qualcosa: un incontro di mondi, una mescolanza di sapori: ed è proprio questa la ‘ragion d’essere’ delle dodici composizioni – interamente strumentali – che danno vita al disco: il continuo incrociarsi e accavallarsi di suggestioni, in uno sgargiante melting pot sonoro.
Il Jazz è il punto d’incontro per i ritmi ammiccanti del funk, con tanto di chitarre con effetto wah, wah; le assolate distese desertiche, quelle della frontiera americana o degli immensi paesaggi africani; le radici del gospel e l’estro dell’avanguardia; una spruzzata di ritmi hip hop, una manciata di ambient, una passata di rock.
Guida la variegata tinta delle chitarre di Betto, pronto a passare dalla briglia sciolta delle parentesi più ‘seventies’ a momenti all’insegna di una compostezza dall’espressione quasi ‘grave’. I bassi di Franchetto elevano la temperatura, il calore avvolgente dell’ensemble, con suoni dalla corposità quasi tangibile; la batteria di Youssef Ait Bouazza è il perfetto complemento all’insieme sonoro. Un manipolo di ospiti arricchisce la pietanza, a partire dai synth, tastiere e piano di Nicola Peruch, per arrivare alle percussioni del maliano Kalifa Kone: il trio che diviene formazione aperta, gli spazi sonori che si fanno più ampi: Nord America, Europa, Africa.
Un disco che vive su una prima parte più ‘irrequieta’, mentre sul finale lascia spazio a una maggiore ‘riflessività’, reclamando fin dalle prime note l’attenzione dell’ascoltatore, distogliendolo da ogni altra occupazione.
Con un nome da duo comico e un titolo che sembra quello di una favola surreale, Cecco e Cipo, alias Simone Ceccanti e Stefano Cipollini, sono probabilmente i primi a non prendersi sul serio… del resto, il loro esordio era intitolato “Roba da maiali”, fate voi…
Eppure, avviato il lettore, si scopre come spesso e volentieri il non prendersi troppo sul serio sia il primo passo verso il raggiungimento dell’obbiettivo: gli undici pezzi che compongono il disco sono un ottimo esempio di pop cantautorale, leggero, scanzonato, disincantato; spesso sul limite del nonsense, all’insegna di una tinta vagamente surreale, continuamente all’insegna di un susseguirsi di pensieri, di riflessioni sparse.
Dediche sentimentali, uno sguardo sulla realtà ironico e disincantato che non si esprime però mai direttamente, utilizzando ad esempio domande che restano sospese nell’aria; un ricorrere spesso ai ricordi d’infanzia, che si tratti degli album di figurine, o delle celebri caramelle zigulì…
Ritmi da filastrocca o cantilena infantile, accenni funk, parentesi elettropop, momenti country in un disco dominato da voce e chitarra acustica, cui si aggiungono di volta in volta piano e synth, archi, fiati, ad opera dei collaboratori stabili dei due o dei numerosi ospiti presenti, trai quali Lodo Guenzi de Lo Stato sociale.
Un disco fresco e dolcemente malinconico, come certi pomeriggi d’estate.
Il disco d’esordio di Francesco Cerchiaro è di quelli che mettono un po’ in difficoltà: ineccepibile sotto il profilo formale, ben suonato, caratterizzato da una scrittura discreta (considerando che si tratta di un esordio), appare però mancare di qualcosa.
Gli undici brani di “A piedi nudi” si muovono nei territori della tradizione del cantautorato italiano, con una certa predilezione per sonorità folk, manifestata attraverso l’ampio ricorso ad una strumentazione tradizionale, tra mandolino, fisarmonica e, con un pizzico di esotismo, ukulele. Ricorrono le tematiche amorose / sentimentali: tra storie a distanza, o interrotte e poi riprese, abbandoni (‘Il mio cane in una stanza’ capovolge ‘Il cielo in una stanza’ di Paoli) e complicazioni sentimentali assortite; non mancano episodi all’insegna della poetica del quotidiano (‘Le bugie della domenica’) accenni alla realtà italiana (‘Diario di famiglia’ è uno sguardo gettato sul nordest) e momenti di più intima riflessione.
Predomina la lentezza, con brani dal sapore di ballata, dietro ai quali appare trasparire la lezione di autori di Fossati o Lolli. Il disco scorre tranquillo e agevole, senza apparenti passaggi a vuoto, eppure… eppure, alla fine, sembra mancare qualcosa: come se la compostezza stilistica alla fine si traducesse in una prevedibilità fin troppo spiccata. “A piedi nudi” appare insomma un buon disco di cantautorato italiano, ben inserito nella tradizione, che si lascia ascoltare ma che alla fine manca di un filo di slancio, della capacità di stupire, rischiando così di perdersi un po’
Non si può dire che sia un brutto disco, anzi, anche la durata contenuta è un ulteriore punto di merito, segno di sintesi, ma alla fine forse paga un po’ il prezzo della ricerca di una certa perfezione formale a scapito magari di una maggiore originalità.
Matteo Dainese alias Il Cane, giunge con “Boomerang” al terzo capitolo della sua biografia discografica. La formula appare ormai più o meno definitivamente codificata: un pop abbondantemente condito di elettronica – che rispetto al precedente episodio in questo caso prende decisamente il sopravvento su certe ruvidità indie – ad accompagnare testi solo apparentemente ‘leggeri’.
Il Cane continua a guardare il mondo circostante con aria disincantata e a tratti un filo cinica, prendendo appunti e riasseblandoli in testi che mescolano considerazioni varie ed eventuali su comportamenti, caratteri umani, rapporti interpersonali e affettivi. L’interpretazione è sempre leggera, come se ci fosse costantemente un sorriso (magari un filo sardonico) sulla faccia.
Gli undici brani del disco (più una ‘ghost track’ posta in chiusura, al termine di una lunga pausa silenziosa) come detto, veleggiano su un gradevole mix di pop elettronico, magari con qualche vaga ‘obliquità’; predominano colori luminosi, pur se in tonalità pastello, a dipingere atmosfere sempre un pò soffuse, quasi indolenti, anche se non mancano episodi più riflessivi e ombreggiati.
Come nel precedente disco, Dainese non è solo, ma si fa accompagnare da un numero (stavolta assai consistente), di ospiti, trai quali per brevità si possono citare Ilaria De Angelis (…A Toys Orchestra), Egle Sommacal (Massimo Volume) e Marco ‘Testa di fuoco’ (Giorgio Canali e Rossofuoco).
Un disco che si lascia piacevolmente ascoltare, forse anche grazie alla maggiore brevità e compattezza rispetto al precedente lavoro.
Nato dalla collaborazione di quattro musicisti dell’Accademia della Musica di Volterra, il progetto Madaus giunge al traguardo del primo lavoro sulla lunga distanza. Madaus, ovvero: mad – house, scritto come si pronuncia, riferimento esplicito all’attività portata avanti dalle due componenti femminili del gruppo, nella musicoterapia, a sostegno dei portatori di handycap e nelle carceri; e ancora il tempo, troppo frenetico, del mondo in cui viviamo e dal quale spesso si vorrebbe volentieri fuggire.
Un’esperienza che marca il disco anche in alcuni dei suoi capitoli: “La macchina del tempo” si presenta come un concept dedicato appunto al tempo: il tempo degli amori in corso, vissuto ‘in presa diretta’ e quello delle relazioni sfumate, spesso rimpianto; ma anche, e forse soprattutto, il tempo che si fa ‘spazio’, il tempo presente vissuto con l’immaginazione, all’interno delle mura di un carcere o di una struttura psichiatrica e quello futuro, dei sogni da realizzare quando certe esperienze saranno concluse.
I Madaus danno forma sonora a questi concetti dosando in maniera accorta ed efficace le proprie coordinate stilistiche: la provenienza accademica si fa evidente in episodi che raccolti in una dimensione cameristica, uniti alle salde radici nella tradizione cantautorale italiana (con esiti a volte all’insegna di un pop ‘di classe’), ma pronti ad aprirsi ad altre influenze, dalle atmosfere sinuose del tango, passando per profumi jazz, fino a quelle allegre e sgargianti del charleston; l’impronta emotiva del disco è frutto del dialogo continuo tra la voce di Aurora Pacchi e il piano di Antonella Gualandri, sostenute dalla sezione ritmica costituita da David Dainelli e Marzio del Testa. Piano, basso e batteria costituiscono la matrice di un ensemble musicale pronto ad arricchirsi attraverso strumenti vintage o creati ad hoc (come nel caso di un ibrido tra basso e batteria).
Rilassamenti, sottile erotismo, pathos si alternano a momenti con ispirazioni da colonna sonora e parentesi in cui si fa strada una maggiore allegria in un lavoro che ci mostra una band matura sotto il profilo tecnico e a buon punto nel cammino verso il raggiungimento di un’identità stilistica compiuta.