Archive for febbraio 2015

GOMORRA – LA SERIE

Ovvero: mamma, da grande voglio fare il camorrista.

Senza girarci troppo intorno: il problema è uno solo e si chiama ‘immedesimazione’.
La serialità televisiva, avendo raschiato il fondo del barile degli ‘eroi positivi’, divenuti materiale di pertinenza quasi esclusiva delle serie ispirate ai supereroi e ai vigilanti dei fumetti, da qualche anno ha ‘scoperto’ il ‘fascino del male’: siamo così passati dall’umanità instancabile dei protagonisti di E.R. al Dr. House, incapace di qualsiasi ipocrisia, che finiva per prendere in giro e mandare a quel paese i propri malati, perché ‘lui curava le malattie e non le persone’; dai detective alla ricerca dell’assassino al serial killer Dexter che, per quanto spinto da una sua morale, sempre un macellaio restava… per arrivare al protagonista di Breaking Bad che, schiantato da una vita ingiusta, decide di reagire dandosi al crimine… eroi negativi che stimolano la nostra parte oscura, e nella quale finiamo più o meno per immedesimarci, guardando questi personaggi fare cose che noi non ci sogneremmo (o non avremmo il coraggio) di fare.

Veniamo a Gomorra: il film aveva un senso, nel suo trasferire sullo schermo ciò che ci era stato raccontato da Saviano nel suo libro; riuscito, quel film, nel riproporre delle atmosfere squallide e dei personaggi al limite, interpretati da attori spesso presi dalla strada… Recentemente più o meno casualmente (ovvero: in mancanza d’altro) ho visto qualche episodio della serie tv, e il confronto col film è impietoso; il film faceva rabbia, perché faceva paura: i protagonisti sembravano veri, reali. La serie ti fa rodere e basta, perché i personaggi sono insopportabili: non in quanto rappresentazione della realtà, ma proprio per come sono stati delineati. Per quanto mi riguarda, siamo a poca distanza dalla macchietta o dalla comicità involontaria; la moglie del boss che va in carcere a trovare il marito e gli mostra l’album di famiglia sembra presa di sana pianta da una sceneggiata di Mario Merola; i giovani protagonisti sono tutti o quasi ‘leccati’, ‘tronisti’ più che ‘avanzi di ‘galera’; talvolta per dargli un ‘tocco di cattiveria’ gli sono state appiccicate delle acconciature demenziali.

Insomma, il paragone con la realtà è analogo a quello di “Romanzo Criminale”: confrontate le foto degli esponenti della Banda della Magliana con le ‘facce da buono’ di Rossi Stuart, Favino o dei protagonisti della serie tv e fatevi due risate…

Il film Gomorra era dominato da un’atmosfera – volutamente – squallida e decadente; la serie è patinata, plastificata; certe battute sono oltre i limiti dello scontato (“se comando io, gli ordini perché li dai tu?”). Le atmosfere ‘VIP’, il sole, le piscine, il mare, le auto, le tute griffate, i bracciali, gli anelli, le catenine, l’arredamento di lusso, gli alberghi a cinque stelle, le belle donne (con tanto di bocce al vento) offrono un’insopportabile quadro del ‘quant’è bello essere un camorrista’; in uno degli episodi, un emissario della camorra in Spagna prima viene lasciato ad affogare, ma poi si scopre che era uno ‘scherzo’, poi viene coinvolto in una ‘roulette russa’ da… mafiosi russi (e qui veramente si finisce nel trash) e ovviamente si salva: manco la soddisfazione di vederlo affogare o di assistere alle sue cervella che decorano un bel muro; nulla di tutto questo: ‘ammazza quanto gli va di c**o ai camorristi!!!

Nell’ultima puntata c’è la classica ‘mattanza d’ordinanza’, presa pari dal Padrino, peraltro con analogo effetto ‘analgesico’: non si innoridisce per il sangue che scorre a fiumi, più che altro si rimane ‘sinistramente affascinati’ dalla metodicità dell’azione.

La fiction televisiva suscita immedesimazione: mettici un poliziotto e il pubblico sognerà ad occhi aperti di avere il fegato di andare a stanare i criminali; mettici un camorrista e il pubblico immaginerà di avere il coraggio di vivere nel lusso coi soldi dello spaccio di droga; è sempre stato così e così sempre sarà: eroi ed antieroi, con poche eccezioni. Ricordo ancora il senso di rabbia ed impotenza con cui uscii dal cinema dopo la visione del film: la sensazione di non aver assistito ad un’opera di completa fantasia, ma ad uno spaccato in parte documentaristico; conclusa la visione di qualche episodio di “Gomorra – La serie”, mi è rimasta la sgradevole impressione di un prodotto che alla finisce per dare un’aura di ‘eroi’ ai protagonisti, cattivi e senza scrupoli quanto si vuole, ma in fondo quanto sò fighi; alcune sequenze ‘forti’ (rapimento, stupro e uccisione di una povera adolescente, eliminazione di un poco più che ragazzino mediante colpo in testa) sembrano essere state inserite tanto per dare un po’ di negatività in più ai protagonisti, ma questo non basta a togliere al prodotto la fastidiosa patina di ‘eroismo negativo’, il ‘fascino della dannazione’, la suggestione della ‘vita violenta’.

La visione di “Gomorra – La serie” induce peraltro qualche considerazione sulla progressiva ‘mutazione’ subita da Saviano (della quale va ringraziato soprattutto l’ineffabile Fabio Fazio), il quale ormai è diventato un ‘brand’, che passa indifferentemente dalle vesti di giornalista d’inchiesta, a quelle di tuttologo televisivo e di autore delle fiction tratte dai suoi libri, uno di quelli su cui tra l’altro in Italia è vietato eccepire in qualsiasi modo, pena essere tacciati di connivenza con la camorra da parte dell’intellighenzia sinistroide dei vari Fazio, Floris, Giannini, Gruber, De Gregorio, Gramellini, Bignardi e compagnia bella.. sia chiaro, non gli si può fare una colpa se i suoi libri vendono e le sue fiction hanno successo, ma a questo punto bisognerebbe pure smettere di dipingerlo come un mezzo martire: che bisognerebbe dire allora dei collaboratori di giustizia costretti a vivere nell’anonimato, lontani dal successo, dalle luci della ribalta, (soprattutto) dai soldi a palate?

Al netto di queste considerazioni, l’irritazione comunicata dalla visione di “Gomorra – La serie” resta: perchè alla fine, a dirla tutta, a questi antieroi patinati si fanno quasi preferire quelli più stereotipati, ma almeno detestabili, che ogni tanto vengono proposti dalla soap di RaiTre “Un posto al sole”.

EUGENIO RODONDI, “OCRA” (PHONARCHIA DISCHI – LIBELLULA MUSIC /AUDIOGLOBE)

A tre anni di distanza dall’esordio di “Labirinto”, torna il cantautore torinese Eugenio Rodondi.

Dovendo scegliere un titolo ‘evocativo’, andare sui colori diventa una scelta logica, quasi immediata: si legge “Ocra” e si pensa subito alla terra, magari a quella d’estate, screpolata dal sole… se poi in copertina, sullo sfondo di un giallo quasi accecante, si staglia la silhouette di una cicala, all’interno della quale è disegnato un cuore rosso frastagliato da crepe, le suggestioni aumentano…

“Ocra” è, in effetti, un disco estivo: sarà forse per l’andamento spesso quasi indolente, sarà per certi climi ‘blues’ accresciuti dal frequente intervento di un’armonica che evoca paesaggi assolati degli Stati Uniti del sud… in buona parte, perché l’estate viene se non altro evocata, nella rilettura della favola della cicala e la formica (‘La cicala del mondo’) in cui la prima passa il tempo a cantare perché sa che di tempo gliene rimane poco, o nelle ombre dei ‘nuovi schiavi’ del caporalato (‘La notte dei Camaleonti’): il cerchio alla fine si chiude: le piantagioni di cotone in cui si originò il blues, vengono sostituite oggi dalle coltivazioni di pomodori…

Nato dalla collaborazione tra Rodondi e Phonarchia Dischi, i suoni frutto del contributo degli Etruschi from Lakota, “Ocra” si snoda lungo dieci brani in cui Eugenio Rodondi, sospeso tra Fabrizio De André e Rino Gaetano con una spruzzata di Dalla e un pizzico di Edoardo Bennato, parla di relazioni sentimentali concluse (‘Trattamento di fini rapporti’) giunte ad una fase di stallo (nella title track) o che proseguono nonostante tutto (‘La canzone moschina’); un disco che parla di ricerca della propria identità (‘La maschera bianca’) che in ‘Horror vacui’ affronta il tema (ormai onnipresente nei cantautori dell’ultima generazione) del precariato lavorativo ed esistenziale, e quello dell’omosessualità nella cover di ‘Mariel e il Capitano’, brano degli anni’70 degli argentini Sui Generis; che parla di depressione in ‘Briciole di pane’ e che raggiunge il suo apice, commovendo, in ‘Dov’è Laura’, storia di una giovane ragazza che nel corso di una gita scolastica cede “alla smania di andare a vedere in anticipo sul nostro dovere”, lasciando chi resta a cercare il senso di una scelta tanto estrema e a fare i conti con una mancanza simboleggiata da un “telefono spento che non risponderà”: un brano che si erge una spanna al di sopra del resto del lavoro, valendone l’intero ascolto.

LINEA 77, “OH!” (INRI)

I Linea 77 sono tornati: a cinque anni di distanza dall’ultimo disco, passati attraverso un periodo complicato, all’insegna di cambi di formazione, progetti discografici saltati, un paio di Ep, quasi testimonianze isolate della propria ‘esistenza ’.

Di acqua sotto i ponti ne è passata, anche musicalmente, ma i Linea 77, che nei primi anni 2000 irruppero quali alfieri della via italiana al nu-metal, nonostante tutto restano fedeli a loro stessi, in quello che dichiaratamente è un ritorno alle origini.

La via migliore per ricominciare è insomma quella più semplice: fare ciò che si sa fare meglio, senza tanti pensieri e complicazioni: un’essenzialità che parte dallo stesso titolo, “Oh!”, semplice quanto incisiva esclamazione, sorta di dichiarazioni d’intenti e allo stesso tempo di timbro messo in calce ai dieci brani che compongono il disco, susseguirsi inesausto di ritmiche martellanti, chitarre strabordanti e il consueto ‘parlar ritmato’ (con il frequente accompagnamento di alcune ‘voci ospiti’) il più delle volte gridato, sbraitato dietro al microfono.

Un disco dall’incedere marziale e nevrotico, che parla dell’oggi e delle sue nevrosi, una società portata sull’orlo – ed oltre – la crisi di nervi, dal conflitto irrisolto tra l’identità del singolo e l’omologazione imposta dall’alto. Un malessere che trova valvole di sfogo nel ricorso agli psicofarmaci (‘Presentat-Arm!’) o nel riappropriarsi della propria singolarità (‘Io sapere poco leggere’) e nello sguardo corrosivo verso ciò che gira intorno (‘L’involuzione della specie’).

Un lavoro verace, diretto, del tutto incurante rispetto a qualsiasi pretesa di originalità, intento solo a picchiare duro sugli strumenti e sui timpani e lo stomaco dell’ascoltatore. I Linea 77 sono tornati.

PACE LENTA, GUERRA VELOCE

Soluzione diplomatica, intervento dell’ONU: queste, sinteticamente, le soluzioni che vengono prospettate dal Governo italiano (e non solo) riguardo la questione Libia – ISIS. Tutto giusto e molto di buon senso, sembrerebbe: il problema è che in questo caso col ‘buon senso’, ci si fa poco, ho paura.
Soluzione diplomatica: con chi? Non certo con quelli dell’ISIS, il cui concetto di ‘diplomazia’ consiste più o meno nello scannare o bruciare vivi i loro ‘interlocutori’: come efficacemente ha fatto notare Crozza, ma ce lo vedete Prodi parlare col ‘Califfo’? Il meno che gli potrebbe succedere sarebbe di essere messo allo spiedo e ‘cucinato’ sulla graticola…

La soluzione diplomatica, allora, risiederebbe nella creazione di un Governo ‘unico’ in Libia, in luogo dei due che attualmente rivendicano il potere, per poi pensare che questo ‘Governo unico’, sempre che riesca a ‘imporsi’ sulle centinaia di tribù in cui si articola la popolazione libica, riesca a dare assieme all’ONU un qualche tipo di risposta militare all’ISIS, il che mi pare abbastanza complicato, almeno nei tempi.

L’ONU tra l’altro non è per nulla detto che decida di intervenire: ci sono nazioni come Russia e Cina (che hanno diritto di veto) che non mi pare abbiano molto interesse a prendere una posizione dura e definitiva sulla questione; la Russia, anzi, in cambio della propria approvazione dell’intervento in Libia, potrebbe chiedere qualche tipo di contropartita … ad esempio, che la comunità internazionale si faccia gli affari propri in Ucraina; andrebbe sottolineato, tra l’altro, come anche rimanendo in Europa, come al solito, non ci sia una posizione univoca: gli unici realmente interessati ad una soluzione della questione libica alla fine siamo proprio noi italiani; anche la Francia sembra aver mostrato una qualche attenzione, ma bisognerà vedere se alle parole seguiranno i fatti.

Il limite di fondo di tutti questi discorsi è che la pace è lenta e la guerra veloce: quanto ci vorrà perché i rappresentanti dei due Governi attivi in Libia si incontrino e trovino un accordo talmente forte da poter produrre un’adeguata risposta militare all’ISIS? Quanto ci si metterà a raggiungere un accordo all’ONU (sempre considerando poi che non è che l’ONU abbia a disposizione tutti questi mezzi e questo gran spazio di autonomia, alla fine a decidere tutto sono i singoli Stati: non credo, per dirne una, che Obama abbia tutta questa voglia di mandare decine di migliaia di soldati in Africa o di farli tornare in Iraq). A me pare che gli unici ad aver capito come devono andare le cose sono la Giordania e l’Egitto: dopo i massacri del soldato giordano e dei 21 copti, le rispettive nazioni non hanno posto tempo in mezzo ed hanno subito cominciato a bombardare a tappeto, ottenendo anche qualche risultato tangibile.

La pace è lenta e la guerra è veloce: a me la guerra non piace per nulla, ma qui il rischio è che prima che si faccia ordine trai governi libici e si metta in campo l’ONU, l’ISIS abbia tutto il tempo del mondo per continuare a conquistare posizioni… d’altra parte, mi rendo conto che Giordania ed Egitto siano intervenuti reagendo, non ‘preventivamente’: non dico che l’Italia debba prendere una decisione per cavoli suoi e bombardare l’ISIS autonomamente quale guerra preventiva (peraltro credo che su questo non si riuscirebbe nemmeno a trovare un accordo in Parlamento); d’altra parte non si può certo lasciare che la situazione si incancrenisca, aspettando passivamente che pure da noi arrivi ‘il botto’ e comunque va ricordato che l’Italia è stata più volte direttamente minacciata: l’ISIS ha esplicitamente dichiarato la volontà di conquistare non Parigi, Londra o Madrid, bensì Roma: minaccia che è tutt’altro che una ‘sparata’, dato che viene da gente che non esita a scannare, amputare e bruciare vivo chiunque si azzardi anche solo a dire ‘a’ rispetto alla loro visione dell’Islam.  Forse, invece di aspettare di formare improbabili ‘governi unici in Libia’, sarebbe meglio intervenire in appoggio di chi, come Giordania ed Egitto, ha già capito che l’unico modo di trattare con l’ISIS è bombardandolo a tappeto; soluzione non priva di rischi peraltro.

E’ un nodo gordiano di difficile soluzione, causato dall’inancrenirsi di una serie di situazioni che si sono tirate avanti per troppo tempo: forse gli USA dovevano restare in Iraq per ‘sovrintenderne’ alla reale ‘democratizzazione’; forse la comunità internazionale avrebbe dovuto adottare maggiore risolutezza in Siria, invece che lasciarla nel caos; sicuramente, l’Europa avrebbe dovuto prendersi maggiori responsabilità in Libia, invece di lasciare che tutto degenerasse. Il punto è che si lasciano sempre le cose a metà:  se si decide di intervenire, allora lo si deve fare fino in fondo, altrimenti meglio evitare del tutto.

Al momento allora, più che pensare ad interventi ‘esterni’ è bene rafforzare al massimo la sicurezza interna, aumentando i controlli sui migranti in entrata, accrescendo  la tutela degli ‘obbiettivi sensibili’ e rafforzando gli sforzi di controllo e soppressione dei fenomeni di propaganda estremista su Internet; per stare sul sicuro io comincerei a dare attenzione anche a possibili attacchi dall’aria, nel caso l’ISIS riuscisse ad impadronirsi di arei militari o civili.
Insomma, cominciamo a portare al massimo la sicurezza a casa nostra, e poi pensiamo al ‘fuori’, ma evitiamo per favore, di pensare che la soluzione sia nella diplomazia o nell’ONU: soluzioni che nel caso dell’ISIS mi paiono abbastanza impraticabili.

FUORI TEMPO MASSIMO

La mia sensazione è che ormai siamo fuori tempo massimo: ciò che si poteva – che si doveva fare – doveva essere fatto non settimane, non mesi, ma anni, forse decenni fa… La nostra tanto decantata ‘civiltà occidentale’ se n’è fregata di quello che succedeva altrove, cullandosi nella presunzione della propria superiorità, radicata nella cosiddetta ‘democrazia’ che a ben vedere oggi, A.D. 2015, ha portato solo alla creazione di vari potentati sovranazionali (FMI, Banca Mondiale, Multinazionali Assortite), che prendono decisioni per tutti e che di ‘democratico’, hanno ben poco.

Succederà? Succederà, non se, ma quando… probabilmente, nel giro di due, tre, massimo cinque anni, avremo un attentato in grande stile qui da noi: per ‘grande stile’, non intendo una dozzina di morti come quelli di Charlie Hebdo, intendo qualche decina, se non centinaia di migliaia di morti: missili, probabilmente, oppure qualche arma batteriologica: se, come ritengo ormai quasi certo, l’Isis, conquisterà la Libia, allora ci sarà da preoccuparsi sul serio, spero che qualcuno si stia cominciando a chiedere che fine abbiano fatto gli arsenali di Gheddafi.

La Libia, credo, va considerata persa: l’Isis è forte, determinato, ed ha una grande capacità di fascinazione nei confronti di un mondo islamico che alla fine, se si fa così facilmente irretire dall’ideologia della conquista e dell’annichilimento del nemico, è caratterizzato dalla stessa debolezza dell’Occidente: in fondo, c’è ben poca differenza trai fedeli islamici che ingrossano volentieri le fila dell’Isis e i cittadini tedeschi che negli anni ’30 andavano volentieri appresso ad Hitler sposando in toto il suo progetto di annullamento degli ebrei.

Ormai è tardi: prima che l’Onu, la Nato, chiunque altro, decida qualcosa, l’Isis farà in tempo a prendersi tutta la Libia, temo… e allora, saranno solo ed esclusivamente ca**i nostri: non penserete mica che la Francia, la Germania o chi per loro si scomodernno a darci una mano? Non l’hanno fatto fino ad adesso, lasciando esclusivamente a noi di sobbarcarci la questione dell’immigrazione, figuriamoci se lo farebbero in condizioni peggiori. Naturalmente quando le cose si faranno veramente serie, ‘chi di dovere’ se la darà a gambe: Berlusconi per dirne una ha varie case ai Caraibi; dubito che gente come Renzi, Alfano, Salvini, Boschi, Madia, Grillo o Vendola se ne resterà qui a rischiare la pelle… scapperanno tutti, lasciando ai comuni cittadini di sbrigarsela da soli.

L’avvenire è fosco: abbiamo pensato che la ‘libertà’ risiedesse in smartphone, PC, connessioni veloci, porno su Internet a qualsiasi ora del giorno e della notte, tv satellitari, automobili, chiacchiere pallorane, etc… Abbiamo perso di vista tutto il resto, abbiamo lasciato che si creassero istituzioni sovranazionali a decidere il destino di interi popoli mentre a noi continuava ad essere raccontato che mettendo una scheda in un’urna potessimo decidere qualcosa.

Forse quando davvero cominceremo a vedere in Sicilia sventolare le bandiere nere, cominceremo a renderci conto di quanto tempo abbiamo buttato: in fondo, se dopo le ripetute minacce e dichiarazioni di guerra, si continua a parlare di Nazareno, legge elettorale e riforme fasulle, mentre Gentiloni, Alfano e compagnia rilasciano dichiarazioni e Renzi twitta, l’Isis ce lo meritiamo.

LA MONARCHIA, “PARLIAMO DIECI LINGUE E NON SAPPIAMO DIRCI ADDIO” (DISCHI SOVIET STUDIO / AUDIOGLOBE)

Esagerato parlare di ‘esordio al fulmicotone’, anche se la tentazione ci sarebbe anche; La Monarchia sono in quattro, vengono dalla Toscana e ci sanno fare, dopo tutto: autori di uno di quei dischi che la butta ‘in caciara’, nel senso migliore del termine: chitarroni a profusione e una sezione ritmica monolitica a contornare un cantato sbraitato dietro al microfono con poca cura per le conseguenze.

Non toccano certo picchi di spiazzante originalità, un po’ guardando ai ‘gloriosi’ anni ’90, tra noise, grunge ed abrasioni assortite, un po’ guardando ai giorni nostri (possono ricordare alla lontana i Marta Sui Tubi).

“Parliamo dieci lingue e non sappiamo dirci addio”: il titolo dice molto, quasi tutto, su ciò che si può ascoltare nel corso degli undici brani che si snodano lungo i quaranta minuti circa di durata complessiva: la band toscana offre la propria personale lettura dello smarrimento e delle nevrosi dell’oggi: la difficoltà delle relazioni sentimentali, l’abbandono e la solitudine, la coscienza dei propri limiti, la difficoltà dello ‘stare al mondo’ che può mutare in autoreclusione, nel rifugio nelle proprie personali ossessioni, o sfociare nella follia. Un disco per molti versi doloroso, che lascia poco spazio alla speranza, almeno nelle parole, affidando magari la forza di risollevarsi all’intensità, pienezza e solidità dei suoni, come se l’impeto strumentale fosse il mezzo con cui esorcizzare la malinconia arrabbiata e disincantata dei testi.

Un disco che prevedibilmente sconta le incertezze tipiche di ogni esordio, a partire da uno stile sonoro e di ‘scrittura’ ancora in attesa di uno sviluppo compiuto. La strada, comunque, è quella giusta.

CRANCHI, “NON CANTO PER CANTARE” (IN THE BOTTLE RECORDS / NEW MODEL LABEL)

Terzo lavoro sulla lunga distanza per il gruppo – il temine in questo caso appare più che mai indicato, dato che sono in sette – guidato da Massimiliano Cranchi. Un viaggio spazio-temporale dal nordest nostrano (buona parte dei componenti proviene da Lombardia e Veneto), quello delle ‘radici’ (‘Mariposa’) o della Milano di Giorgio Ambrosoli (‘Eroe Borghese’) al Cile del golpe di Pinochet (‘Cile 1973’), fino all’america del mito della ‘frontiera’ (‘California 1849’) e all’epopea di Umberto Nobile (‘Tenda Rossa’). La band conserva il proprio marchio di fabbrica: folk, genuinamente acustico, ma pronto talvolta a ‘colorarsi’ di elettricità, sposato con suggestioni cantautorali; atmosfere soffuse, ma non senza momenti più movimentati e ‘sgargianti’; nell’insieme strumentale, chitarre preponderanti, ma spazio anche per piano e tastiere, fiati, qualche arco; il banjo ‘americano’ assieme alle fisarmoniche e alle suggestioni ‘da banda di paese’ della canzone popolare italiana.

Domina il cantato di Massimiliano Cranchi, all’insegna di una cifra malinconica, dai toni a tratti ‘svogliati’. Tra una sorta di ‘preghiera laica’ all’insegna del disorientamento generazionale dei trentenni di oggi (‘Cantico’) e l’ispirazione del “Vangelo secondo Gesù Cristo” di Saramago (in ‘Mia madre e mio padre’), i Cranchi erigono un disco in chiaroscuro, come una di quelle giornate uggiose nel corso delle quali, di tanto in tanto, filtra qualche raggio di sole.

SANREMO VA BENE COSÌ

In fondo, Sanremo è sempre stato questo: il Festival della Canzone(tta) italiana. Nonostante tentativi, alquanto modesti, di ampliare il contesto, Sanremo non è mai stata, nelle intenzioni, una rassegna dello ‘stato dell’arte’ della musica italiana, ampliamente intesa. Lo scopo di Sanremo è sempre stato quello di produrre pezzi facili, da vendere, da mandare per radio, da essere fischiettati per strada, sotto la doccia per tre mesi e poi essere presto dimenticati. Ogni tentativo di rendere Sanremo ‘altro’ è miseramente fallito e penso soprattutto alla pretenziosità delle edizioni curate da Fazio, che animato dalla sua solita spocchia, aspetto di più deleterio di un certo pseudo-intellettualismo sinistroide, voleva ammantare Sanremo di chissà quale ‘missione’.

La storia dice che Sanremo è la ‘canzonetta’ e che con la qualità e la profondità nulla ha a che fare; basta solo pensare che quando a Sanremo si è presentato Tenco, che probabilmente sarebbe stato destinato a diventare il più grande, più grande di De André, di Conte, di Battiato, è andata a finire come sappiamo tutti: Sanremo respinge da sempre la qualità, non gli interessa e non gli serve: la rabbia, la tristezza ed all’opposto il ‘cazzeggio intelligente’ lo repellono; Sanremo deve essere sentimentalismo a buon mercato e frasi fatte; Elio e Le Storie Tese non hanno vinto Sanremo (ovvero: l’avevano vinto, ma poi non gli fu permesso nei fatti). Sanremo respinge perfino le ‘interpretazioni’: Mia Martini partecipò varie volte, sempre con esibizioni molto intense, troppo intense: venne pure lei buttata nelle retrovie.

Insomma, Sanremo è il disimpegno e la facilità: tutto il resto, fuori, please; negli anni si è cercato di dare spazio alla musica ‘altra’, a Sanremo si sono presentati Subsonica, Marlene Kuntz, Afterhours, Marta sui tubi, Perturbazione: tutti con pochi o nessun risultato, in fondo. Inutile continuare a pensare, a pretendere, che Sanremo possa o debba, essere qualcosa di diverso dalla canzonetta di sottofondo da bar, parrucchiere, o supermercato. Sanremo è sempre stato solo quello: per alcuni ‘la bella canzone italiana’, per altri, il pattume sonoro che sovrasta tutto, riducendo chi vuole fare ‘altro’ nelle riserve. Poche le eccezioni: senza scomodare il ‘solito’ Modugno (che poi oltre alle consuete lodi fu anche una prova della ‘vocazione commerciale’ della musica sanremese), ricordo la discreta ‘Uomini soli’ dei Pooh, uno dei loro punti più alti in quanto a scrittura, le vittorie degli Avion Travel e di Elisa, più recentemente quella di Vecchioni, ma poi nulla o poco altro: di pezzi veramente di peso, di valore, a Sanremo ne sono certo stati presentati, in media è forse possibile reperirne uno o due ad edizione, ma guarda caso, hanno sempre goduto di gloria postuma, non certo nell’ambito del Festival in sè, che della profondità e della qualità, se n’è sempre ampiamente fregato, dando puntualmente la precedenza alla leggerezza, alla superficialità, all’orecchiabilità fine a sé stessa.

E allora, ben venga la fine di ogni ipocrisia Faziosa, ben venga la conduzione popolare di Conti, che si tira appresso il solito codazzo di amici fiorentini, ben vengano Tiziano Ferro, Al Bano e Romina e perfino Biagio Antonacci ‘elevato’ al ruolo di ‘superospite’. Bentornato al Sanremo puro, vero, originale, fatto di paccottiglia sonora da due soldi da dare in pasto ad un pubblico di analfabeti musicali, per i quali il concetto di ‘buona musica’ viene definito dal numero di copie vendute, scaricate o di passaggi in radio. Sanremo è Sanremo: nient’altro che questo.

MA L’ITALIA DOV’È?

L’altro giorno guardavo le immagini di Merkel e Hollande a colloquio con Putin e mi chiedevo: E l’Italia?
Rapidamente, mi sono fatto un’altra domanda: ma ai tempi Renzi non aveva fatto un gran casino per avere la Mogherini ‘a capo della diplomazia europea’? Pensate a queste parole: ‘a capo della diplomazia europea’; poi la grana Ucraina va rapidamente peggiorando, e chi va ad incontrare Putin? Merkel e Hollande, ovvero: Germania e Francia. Non l’Europa. Germania e Francia.
Ora, ripetere l’ennesima pappardella sul fatto che l’Europa quando viene il momento delle ‘decisioni serie’, procede in ordine sparso e bla bla bla, sarebbe noioso e lo sappiamo tutti: è così da sempre e così sarà, chissà per quanto ancora.

Però, pensateci: ai tempi (si era, se non erro, dopo le elezioni europee, alla vigilia del semestre di Presidenza italiana UE), a sentire Renzi sembrava che dare alla Mogherini quell’incarico fosse questione di vita o di morte: in realtà poi molti osservatori già allora fecero notare come forse, anziché pretendere con tanta veemenza un ‘posto’ che – considerando lo stato della diplomazia UE – era poco più che ‘di rappresentanza’, fosse magari il caso di pretendere qualche commissario economico… ma no, Renzi pretendeva quel posto…
Bisogna dare il beneficio del dubbio a chiunque: magari la Mogherini in queste ore è attaccata al telefono escogitando una soluzione diplomatica eccezionale, ma è nei fatti che a incontrare Putin sono la Cancelliera tedesca e il Presidente francese. Non la Rappresentante (termine più che mai indicato: non ‘Ministro degli Esteri UE’, ma ‘Rappresentante’)  della politica estera UE Mogherini, che con tutto il rispetto sta assolvendo alla medesima funzione di tutti i suoi predecessori, ossia rilasciare dichiarazioni ad orolegeria all’insegna delle solite banalità.

Peraltro osserverei come l’Italia in tutta la questione ucraina stia rimediando la solita figuraccia: gran parte degli europei sono più o meno concordi sull’appoggiare l’Ucraina contro quella che a tutti gli effetti è una violazione della sua sovranità, anche fino a valutare la fornitura di armi, l’Italia è contraria… Attenzione, non in virtù di un impeto di ‘pacifismo’: i Ministri degli Esteri e della Difesa non si sono improvvisamente ammantati della bandiera arcobaleno della pace: come tutti possono immaginare, a monte ci sono interessi prettamente economici… la contiguità degli interessi economici italiani e russi non è certo venuta meno con la fine dei soggiorni di Putin nella villa di Berlusconi in Sardegna.

Sta succedendo, su scala molto più ampia, quanto già accaduto con la questione dei Marò, quando l’Italia, avendoli qui, lì rispedì prontamente in India perché c’erano in ballo ben altri interessi… a proposito dei marò: io non sono certo di quelli che dicono ‘liberate i nostri leoni’ e altre simili amenità; non sono di certo eroi, tuttavia sarebbe pure il caso che dopo tre anni si avviasse un processo e si formalizzassero delle accuse… anche in questo caso l’Italia ha accumulato figuracce a ripetizione; e il bello è che in Europa se ne fregano: approvano qualche risoluzione, ma il discorso di fondo è: vedetevela voi, sono affari vostri.

L’Italia è ridotta all’inconsistenza diplomatica internazionale; sinceramente, rimpiango il Ministro Terzi, che forse in quell’accozzaglia di tecnocrati che guidati da Monti ci ha ridotto ai minimi termini era uno dei meno peggio: almeno aveva esperienza diplomatica… attualmente l’Italia affida la propria diplomazia a Mogherini e Gentiloni: la prima, sarà pure una donna brava e intelligente, ma appare completamente priva del carisma necessario: insomma, già il ruolo di capo della diplomazia UE è una incarico più che altro di ‘rappresentanza’, di nome e di fatto; ma poi pensate alla Mogherini e subito dopo alla Merkel e giungete alle vostre conclusioni Gentiloni per carità: uno che nel corso della sua esperienza politica è passato con disinvoltura da un incarico ad un altro: ma mi spiegate che cos’hanno in comune le poltrone di vice Sindaco di Roma, di Ministro delle Comunicazioni e di Ministro degli Esteri? I risultati sono sotto gli occhi di tutti: Merkel e Hollande parlano con Putin e Obama. Mogherini e Gentiloni rilasciano dichiarazioni. Renzi twitta.

BIRDMAN

Riggan Thomson è stato una celebrità… per certi versi lo è ancora, visto che a vent’anni di distanza il pubblico continua a ricordarlo per l’intepretazione del supereroe Birdman… il tempo passa e Thomson è ancora indissolubilmente legato a quel personaggio: Thomson è ancora Birdman, nonostante cerchi di dimostrare di saper fare altro, mettendo in scena un lavoro teatrale basato sugli scritti di Raymond Carver.

Riggan Thomson vuole dimostrare di sapere fare altro: a sé stesso, in fondo in parte convinto di poter essere solo e sempre Birdman; ad una ex-famiglia (ovviamente) a pezzi, a cominciare dalla figlia (ovviamente) appena uscita da una clinica di riabilitazione; al mondo degli attori ‘seri’, incarnati nel classico ‘campione di tecnica strasberghiana’, tutto intento alla ‘veridicità’ del personaggio e della messa in scena; alla critica ‘benpensante’ che guarda sempre male chi, dal ‘cinema di botteghino’ ha la ‘pretesa’ di sbarcare nel mondo della recitazione ‘alta’…

A dirla tutta, “Birdman” è uno dei film più ‘strani’ che mi sia capitato di vedere negli ultimi tempi: girato simulando un unico, interminabile piano sequenza, con una camera ‘a mano’ quasi esclusivamente concentrata sul protagonista, è uno di quei film in cui i significati si affastellano gli uni sugli altri: negli esiti è praticamente una commedia, per quanto amara e sarcastica, perché alla fine non fa altro che mettere alla berlina una serie di temi: dal cinema che sbanca il box-office al mondo degli attori ‘impegnati’ e dei critici pretenziosi… E’ cinema che racconta il cinema ed il teatro e non è un caso, tra l’altro, che il ruolo di un attore giunto al successo coi supereroi che cerca di impegnarsi in qualcosa di più ‘serio’, sia interpretato proprio da Michael Keaton, attore giunto al successo interpretando il Batman di Tim Burton e poi progressivamente caduto in un dimenticatoio dal quale è improvvisamente emerso grazie ad Inarritu.

Al fondo, ci sono poche domande: perché un attore giunto al successo planetario dovrebbe abbandonare la celebrità per darsi al ‘cinema serio’? C’è davvero tanta vergogna nel partecipare a produzioni fracassone ed ultramilionarie? Ci si può definire ‘attori’, solo quando si calcano i palchi di Broadway? E, all’opposto: perché una celebrità planetaria non dovrebbe provare a fare altro? L’aver interpretato un supereroe costituisce davvero un ‘marchio d’infamia’ capace di impedire qualsiasi altra aspirazione? Il confronto tra il cinema d’autore e gli eroi del grande pubblico, in cui non è tanto importante il ‘vincitore’, quanto il dover fare piazza pulita di troppi pregiudizi, da una parte e dall’altra.

Domande che, in fondo, Thomson pone prima di tutto a sé stesso: in dialoghi immaginati (o no?), la sua controparte ‘in costume’ continua a mettergli il tarlo: eravamo grandi, potevamo continuare all’infinito, il pubblico vuole questo e tu invece hai mollato tutto per questa roba ‘da intellettuali’…
La risposta, offerta nel finale immaginifico è che, in fondo, è stupido anche porsi la domanda, che tante masturbazioni cerebrali sull’integrità del mestiere di attore sono inutili, che nessuna strada alla fine può essere completamente preclusa.

Inarritu mette insieme un film singolare, cui il fluire ininterrotto offre un certo ritmo costante, anche se non manca qualche tempo morto; al centro, Michael Keaton, che certo fa piacere ritrovare in forma dopo anni di quasi silenzio ma per il quale parlare di Oscar sembra un tantino eccessivo (anche se a dirla tutta: se l’alternativa devono essere le ennesime interpretazioni di personaggi vessati da tribolazioni fisiche o psicologiche, come quelle di Hawking o Toring, che tanto piacciono agli americani allora ben venga il premio a Keaton). Assieme a lui, un cast bene assemblato ma la cui cifra comune sembrano essere interpretazioni un filo troppo calligrafiche, a cominciare da Edward Norton (l’attore iprerprofessionale) col solito ghigno sardonico, Zac Galifianakis è un manager nevrotico ed Emma Stone figlia improblemata; sottotono invece Naomi Watts (compagna di lavoro del protagonista), forse anche a causa di una parte poco sviluppata. La sceneggiatura regge bene, anche se a tratti risulta un tantino prevedibile.

“Birdman” è insomma un film riuscito, molto divertente a tratti, con qualche leggero sprazzo di noia; la caterva di nomination all’Oscar – nove – che si è conquistato appare un filo esagerata, ma sicuramente gli va riconosciuto il fatto di essere comunque per molti aspetti un film inconsueto.