E’ ormai diventato abitudinario: a ogni ‘fattaccio’ di cronaca, la stessa storia: vittime e carnefici, alla tv e sulla carta stampata, chiamati col solo nome. Lucia, Carmela, Samuele sono i protagonisti dell’ultimo fatto di cronaca nera. Li conosciamo praticamente solo per nome, come se nel giro di pochi giorni alcuni perfetti sconosciuti fossero diventati parenti o amici. A me tutto questo pare tremendamente errato: mi chiedo dove sia finita la famosa ‘giusta distanza’ che qualche anno fa diede il titolo a un film, che tra l’altro ruotava proprio a un giornalista alle prese con un fatto efferato, se non erro. L’impressione è che il creare un senso di familiarità artificiosa con vittime e carnefici svii in un certo senso l’attenzione: ci troviamo davanti la cronaca, quasi in tempo reale, degli sviluppi sanitari della ragazza sopravvissuta all’aggressione, non risparmiandoci dettagli che inducono alla commozione (la ragazza che chiede notizie della sorella, non sapendo che è stata uccisa), o particolari riguardo il carnefice (il profilo Facebook in cui appariva col nomignolo di ‘tigrotto’), che a ben vedere sono del tutto inessenziali per la comprensione della vicenda. Si crea un meccanismo per cui l’informazione tratta questi casi alla stregua di un qualsiasi programma ‘salottiero’ del pomeriggio. Non ci si fanno domande, non si creano collegamenti. Solo in quest’ultima occasione si comincia a parlare di ‘femminicidio’, un brutto termine che però descrive bene una casistica allarmante; l’informazione appare interessata a cercare il ‘nocciolo della questione’ non al primo, non al decimo, non al cinquantesimo, ma al centesimo caso di una donna uccisa in Italia nel 2012, al ritmo di una ogni due giorni. Il compito dell’informazione non doveva essere anche quello di fare collegamenti, di porsi domande, di indurre alla riflessione? Possibile che oggi, nel 2012, stampa e telegiornali vadano appresso al cosiddetto ‘infotainment’ girando intorno ai fatti in maniera ossessiva, come insetti attorno a una luce accesa in agosto, senza guardare ai fatti con maggior distanza, inducendo meno ‘partecipazione emotiva’ nel pubblico, ma cercando magari di offrire una maggiore comprensione di un ‘quadro generale’? Infanticidi, femminicidi, altri fatti di cronaca assortiti: tutti trattati come casi singoli, isolati, ‘esclusivi’, dando ‘familiarità’ a vittime e carnefici e puntando tutto sull’emotività, privando le questioni di qualsiasi parvenza di razionalità. L’aggressione di un uomo a due donne, in cui una delle due perde la vita è un fatto doloroso e traumatico, ma dolore e trauma dovrebbero restare confinate nel privato della cerchia famigliare e parentale delle vittime e anche dell’assassino, visto che è un dolore avere un figlio / amico che si è macchiato di una tale delitto. Il pubblico non dovrebbe esservi coinvolto: al pubblico bisognerebbe cominciare a presentare anche altri ‘numeri’ (non solo quelli di spread, inflazione, e borsa), bisognerebbe cominciare a parlare di come i maschi, fin da ragazzini vengono educati ai rapporti sentimentali, al rispetto per il partner, a come vivere e soprattutto accettare, il più serenamente possibile, un rifiuto o la fine di un amore. Invece di tutto questo non si parla: far diventare tutti improvvisamente parenti e amici dei protagonisti, giocando tutto sull’emotività, è indubbiamente più facile.