FINALMENTE, CHE GIOIA!!!
E questo, credo sia l’omaggio più adatt0…
18 Feb
All’indomani della fine della Guerra di Secessione, otto personaggi variamente assortiti si ritrovano bloccati da una tormenta di neve in un emporio isolato tra le montagne del Nord America.
Ognuno è mosso dalle proprie personali motivazioni, a cominciare da un cacciatore di taglie che sta ‘accompagnando’ una condannata a morte nel suo viaggio verso la forca… ma ovviamente non tutti sono chi dicono di essere e la situazione non tarderà a degenare, sfociando in un prevedibile bagno di sangue.
Il nuovo film di Quentin Tarantino non è un western: del genere ha solo l’aspetto per così dire, esteriore, ma cambiate ambientazione storico / geografica, costumi e quant’altro, e il risultato non cambierebbe poi tanto; “The Hateful Eight” è un thriller perfettamente congeniato, che si inserisce in un ‘filone’ che va dall’hitchcokiano “Nodo alla gola” al più recente “Carnage” di Polanski.
Probabilmente il film più ‘teatrale’ di Tarantino, che offre un eccezionale saggio di maestria registica e di sceneggiatura, riducendo all’osso la ‘narrazione’ (lasciata in pratica solo a un paio di flashback) per concentrarsi su dialoghi e inquadrature, costruendo un meccanismo a orologeria che accompagna lo spettatore verso il classico finale ‘tarantiniano’, ampiamente atteso e telefonato, ma per nulla deludente.
Non mancano ovviamente le battute a effetto, le citazioni, le allusioni (il gioco è quello consueto, a ognuno la libertà di andare a cercare il ‘canone’ di riferimento, vero o presunto), gli ‘effettacci gore’ (il sangue scorrerà, copioso), le esagerazioni che finiscono per strappare la risata…
Eppure, forse per la prima volta con un film di Tarantino, ci si alza dalla poltrona con un senso di inquietudine: come in tanti hanno già sottolineato (e in parte anche io sono stato influenzato da queste considerazioni), i personaggi di “The Hateful Eight” sono tutti delle carogne: non se ne salva uno; rappresentanti di un’epoca storica in cui la bontà d’animo finiva per essere fatale e portare spesso a morte prematura, i protagonisti di questo film rappresentano uno schiaffo in faccia a ciò che oggi intendiamo per etica, morale, diritti umani: gente del tutto incurante per la vita umana, che all’opposto è la prima cosa con cui pulirsi il c**o se necessario; non c’è un filo di bontà, di magnanimità, di ‘pietas’, di empatia: homo homini lupus, come se ognuno fosse il solo essere umano di questo mondo, e tutti gli altri fossero me**da da scaricare nel water. Persone (personacce) mosse dall’unico principio del farsi i ca**i propri, accoppando anche per futili motivi chiunque si pari sulla propria strada; gente con dei ‘principi’? Forse, se per principi intendiamo un senso dell”onore’, del ‘rispetto’, della ‘legge’ o della ‘giustizia’, ma intesi in modo del tutto personale: se poi incidentalmente coincidono con quelli del prossimo, bene; se così non è, il prossimo lo si accoppa senza tanti complimenti.
Un’allegoria, una metafora di ciò che è diventato il mondo di oggi? Forse: in fondo se è vero che ancora oggi al mondo c’è chi per uno ‘sgarro’ è più che disposto ad accoppare il prossimo, è altrettanto vero che il ‘mors tua, vita mea’ è un principio attorno a cui continua a girare il mondo: basta pensare alla finanza che divora i risparmi delle persone, alle industrie cancerogene, ai politici che si fanno gli affari loro alle spalle dei cittadini che gli danno il voto.
Il cast: come al solito, eccezionale: una schiera di vecchie conoscenze tarantiniane, a cominciare da Tim Roth, Michael Madsen e Kurt Russell (cui si aggiungono James Parks e Zoe Bell); un carismatico Bruce Dern; un Walton Goggins in continua crescita; un Channing Tatum che (per quanto in un ruolo limitato), aggiunge al proprio curriculum una pellicola tarantiniana, rafforzando ulteriormente la sua carriera di attore… ma, su tutti, una Jennifer Jason Leigh (attrice dalle enormi potenzielità, troppo spesso sopravvalutata) in stato di grazia e che l’Oscar per il quale è candidata lo meriterebbe tutto, e soprattutto un Samuel L. Jackson che giganteggia nel suo ruolo più cattivo di sempre (e menzione d’onore per Luca Ward che gli ha dato il marchio di fabbrica vocale a casa nostra, un carattere distintivo senza il quale l’attore sui nostri schermi non sarebbe lo stesso) e che forse una nomination all’Oscar l’avrebbe pure meritata.
Eccezionale la fotografia, nelle riprese dei grandi spazi aperti, e poi… la colonna sonora di Morricone, con la lunga suite iniziale che da sola dà corpo e ‘significato’ alla lunga sequenza che apre il film.
Tarantino stavolta è stato completamente ignorato dall’Academy per gli Oscar, anche se regia e sceneggiatura avrebbero ampiamente meritato la nomination: forse perché stavolta, oltre a tutti i ‘soliti’ pregi dei suoi film, il regista più di altre volte sgombrando il campo da ogni ipocrita buonismo, mette di fronte lo spettatore a una verità scomoda: che l’uomo in fondo altro non è che una bestia e che quando si viene al dunque è più che mai disposto a sopprimere il proprio simile; e questo i ‘guardiani’ del cinema buonista che premia solo gli eroi positivi, meglio se suscitano la facile lacrima questo proprio non potevano permetterlo.
9 Feb
Riggan Thomson è stato una celebrità… per certi versi lo è ancora, visto che a vent’anni di distanza il pubblico continua a ricordarlo per l’intepretazione del supereroe Birdman… il tempo passa e Thomson è ancora indissolubilmente legato a quel personaggio: Thomson è ancora Birdman, nonostante cerchi di dimostrare di saper fare altro, mettendo in scena un lavoro teatrale basato sugli scritti di Raymond Carver.
Riggan Thomson vuole dimostrare di sapere fare altro: a sé stesso, in fondo in parte convinto di poter essere solo e sempre Birdman; ad una ex-famiglia (ovviamente) a pezzi, a cominciare dalla figlia (ovviamente) appena uscita da una clinica di riabilitazione; al mondo degli attori ‘seri’, incarnati nel classico ‘campione di tecnica strasberghiana’, tutto intento alla ‘veridicità’ del personaggio e della messa in scena; alla critica ‘benpensante’ che guarda sempre male chi, dal ‘cinema di botteghino’ ha la ‘pretesa’ di sbarcare nel mondo della recitazione ‘alta’…
A dirla tutta, “Birdman” è uno dei film più ‘strani’ che mi sia capitato di vedere negli ultimi tempi: girato simulando un unico, interminabile piano sequenza, con una camera ‘a mano’ quasi esclusivamente concentrata sul protagonista, è uno di quei film in cui i significati si affastellano gli uni sugli altri: negli esiti è praticamente una commedia, per quanto amara e sarcastica, perché alla fine non fa altro che mettere alla berlina una serie di temi: dal cinema che sbanca il box-office al mondo degli attori ‘impegnati’ e dei critici pretenziosi… E’ cinema che racconta il cinema ed il teatro e non è un caso, tra l’altro, che il ruolo di un attore giunto al successo coi supereroi che cerca di impegnarsi in qualcosa di più ‘serio’, sia interpretato proprio da Michael Keaton, attore giunto al successo interpretando il Batman di Tim Burton e poi progressivamente caduto in un dimenticatoio dal quale è improvvisamente emerso grazie ad Inarritu.
Al fondo, ci sono poche domande: perché un attore giunto al successo planetario dovrebbe abbandonare la celebrità per darsi al ‘cinema serio’? C’è davvero tanta vergogna nel partecipare a produzioni fracassone ed ultramilionarie? Ci si può definire ‘attori’, solo quando si calcano i palchi di Broadway? E, all’opposto: perché una celebrità planetaria non dovrebbe provare a fare altro? L’aver interpretato un supereroe costituisce davvero un ‘marchio d’infamia’ capace di impedire qualsiasi altra aspirazione? Il confronto tra il cinema d’autore e gli eroi del grande pubblico, in cui non è tanto importante il ‘vincitore’, quanto il dover fare piazza pulita di troppi pregiudizi, da una parte e dall’altra.
Domande che, in fondo, Thomson pone prima di tutto a sé stesso: in dialoghi immaginati (o no?), la sua controparte ‘in costume’ continua a mettergli il tarlo: eravamo grandi, potevamo continuare all’infinito, il pubblico vuole questo e tu invece hai mollato tutto per questa roba ‘da intellettuali’…
La risposta, offerta nel finale immaginifico è che, in fondo, è stupido anche porsi la domanda, che tante masturbazioni cerebrali sull’integrità del mestiere di attore sono inutili, che nessuna strada alla fine può essere completamente preclusa.
Inarritu mette insieme un film singolare, cui il fluire ininterrotto offre un certo ritmo costante, anche se non manca qualche tempo morto; al centro, Michael Keaton, che certo fa piacere ritrovare in forma dopo anni di quasi silenzio ma per il quale parlare di Oscar sembra un tantino eccessivo (anche se a dirla tutta: se l’alternativa devono essere le ennesime interpretazioni di personaggi vessati da tribolazioni fisiche o psicologiche, come quelle di Hawking o Toring, che tanto piacciono agli americani allora ben venga il premio a Keaton). Assieme a lui, un cast bene assemblato ma la cui cifra comune sembrano essere interpretazioni un filo troppo calligrafiche, a cominciare da Edward Norton (l’attore iprerprofessionale) col solito ghigno sardonico, Zac Galifianakis è un manager nevrotico ed Emma Stone figlia improblemata; sottotono invece Naomi Watts (compagna di lavoro del protagonista), forse anche a causa di una parte poco sviluppata. La sceneggiatura regge bene, anche se a tratti risulta un tantino prevedibile.
“Birdman” è insomma un film riuscito, molto divertente a tratti, con qualche leggero sprazzo di noia; la caterva di nomination all’Oscar – nove – che si è conquistato appare un filo esagerata, ma sicuramente gli va riconosciuto il fatto di essere comunque per molti aspetti un film inconsueto.
3 Mar
La Grande Bellezza è un film che non ho amato; non starò ad elencare i motivi, chi vuole può leggersi la recensione qui sul blog, basta cercarla, non è questa l’occasione. E’ invece il caso di festeggiare perché, al di là di come la si pensi, credo che un Oscar è sempre un Oscar e vincerlo fa ‘morale’, specie per il cinema italiano che da tanti anni ne era ‘a secco’. Quindi:
W LA GRANDE BELLEZZA!!!
5 Ago
Qui, la recensione di questo film del 1984, protagonista Jeff Bridges (che venne candidato all’Oscar) firmato da John Carpenter: sicuramente un ‘minore’ nella cinematografia del regista, oltre che un poco riuscito tentativo di riproporre, in chiave più ‘adulta’, le tematiche che portarono al successo planetario E.T.
4 Apr
Ora, a costo di fare la figura dei ‘bastian contrari’ (ma l’ingrato compito qualcuno se lo dovrà pur assumere, no?) c’è da chiedersi: ma si può parlare male, o meglio, si possono non tessere lodi sperticate nei confronti di “The Artist”? Cominciamo da una considerazione: “The Artist” è un film geniale: se non nei contenuti, sicuramente nell’idea. Geniale, perché un mastodontico ‘uovo di Colombo’: l’idea in sè è infatti sempliccissima: nel mondo del cinema iperprodotto in 3d, buttiamo fuori un film muto, in bianco e nero, il cui unico commento sonoro sia affidato alla musica. Idea semplice, appunto, eppure geniale, visto che nessuno ci aveva pensato prima. Dall’idea geniale poi discendono a cascata tutti i meriti – veri o presunti – attribuiti al film, premi Oscar compresi.
La storia narra di un divo o del muto che resistendo alla modernità vede la sua stella tramontare rapidamente, mentre nel frattempo splende sempre più luminosa quella di una delle prime regine del ‘sonoro’ la quale, avendo incontrato il protagonista più o meno casualmente anni prima, ne prende a cura le sorti… Il finale lo si può immaginare… chi vuole avere la conferma, vada a vedere il film (che 8 – 10 euro per questo film, a scanso equivoci, sono comunque soldi ben spesi).
Il tutto raccontato solo per immagini, espressioni, commento musicale: i protagonisti, Jean Dujardin e Berebice Bejo, assolvono egregiamente al compito, ma qui arrivano i primi problemi: perché certo Dujardin è bravo, nessuno lo nega, ma da qui a vincere l’Oscar ce ne passa, e a dirla tutta molto più efficaci di lui appaiono essere l’inseparabile maggiordomo – autista (James Cromwell) e addirittura l’ormai celeberrimo cagnolino che ci è stato mostrato in tutte le salse (in un cast nel quale fa la sua bella figura anche il ‘faccione’ di John Goddman); Dujardin, del resto, per gran parte del film si limita a reggere un bicchiere e una sigaretta con aria sempre più sofferente… ribadisco: bastava questo a conferirgli l’Oscar?
Per il resto, le scenografie, e la puntuale ricostruzione di un ambiente e di un’epoca sia ‘nel cinema’, che ‘fuori’ sono ineceppebili, così come lo è il film nella sua pura essenza ‘metacinematografica’: in questo senso i premi al miglior film e alla miglior regia risultano pienamente meritati. Si tratta comunque di un’esperienza straniante, da provare: io confesso che dopo venti minuti di film mi stavo addormentando – poi mi sono ripreso – e che alla fine quei violini di sottofondo mi avevano esasperato… L’impressione è che, passato l’effetto – novità, del film ‘muto e in bianco e nero’ a inizio del 21° secolo, “The Artist” rimarrà come una ‘curiosità cinematografica’: il tempo insomma, sembra destinato a doverne ridimensionare i meriti forse eccessivi assegnatigli.
P.S. Sono curioso di vedere se, come va sempre più di moda ultimamente per i blockbuster e i grandi successi, qualcuno proverà a farne una parodia hardcore… un film hard in bianco e nero e muto sarebbe un esperimento interessante…
27 Feb
1 – 1 e palla al centro: due nomination, una vittoria. L’Italia raccoglie agli Oscar 2012 un magro bottino, come ormai succede da anni, incapace di presentare un film veramente ‘da Oscar’ … A ben vedere, il risultato di ieri ci dice qualcosa di molto sintomatico, dell’Italia di oggi. Vince l’artigianato, perde l’innovazione, vincono (con tutto il rispetto) i ‘vecchi’, perdono i ‘giovani’. Può sembrare un quadro un pò impietoso, e pretestuoso della situazione… Però. Però, intendiamoci, massimo rispetto, onore, e gloria a Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo che arrivano al terzo Oscar in un decennio (dopo The Aviator e Sweeney Todd), ma a me sarebbe piaciuto molto di più vedere premiato il giovane Enrico Casarosa. Il cinema a ben vedere, soprattutto quando si parla di tecnologie, dice molto sul progresso di una Nazione. Gli Oscar di quest’anno ci relegano, come al solito, al ruolo di ‘Paese del buon artigianato’ e non ci propongono come ‘Paese delle nuove tecnologie’. Intendiamoci, il giovane Casarosa ha ottenuto i suoi risultati lavorando negli U.S.A., ma è nato e cresciuto qui: la passione per l’animazione l’ha vista nascere e l’ha coltivata qui da noi. Una sua vittoria ci avrebbe se non altro detto che l’Italia comincia a poter dire la sua quanto meno in fatto di ‘mentalità’ propensa all’innovazione. Invece, purtroppo, ancora una volta viene premiato il ‘solito artigianato’, per cartirà, di grande qualità, ma pur sempre qualcosa legato alle professioni tradizionali. L’Italia anche nel cinema sembra ottenere risultati solo se guarda alla tradizione, alle proprie spalle… e il futuro? Sorvoliamo, poi, sul dato anagrafico: chi lo vince l’Oscar? Dante Ferretti, che è alle soglie dei 70 (e la Lo Schiavo non è certo una ‘giovane promessa’), mentre l’under 40 Casarosa resta a bocca asciutta… e così, sconsolatamente, anche nel cinema l’Italia dà l’idea di essere ‘un Paese per vecchi’…