Archive for luglio 2013

“PINELLI” HA CHIUSO

Che io ricordi, la Pasticceria Pinelli c’era da sempre… il ricordo più ‘antico’ che ne ho è di mia madre che in occasione di un mio compleanno, ordinò i gelati per la tutta la mia classe… facevo l’asilo, avrò avuto cinque anni… “Pinelli” era abbastanza conosciuto, nella zona… se non altro proprio grazie al suo essere un ‘negozio storico’ della zona, una pasticceria per la quale per svariati decenni è passato praticamente tutto il quartiere, visto poi che per anni è stata l’unica della zona… era la classica pasticceria dove la gente passava la domenica mattina, magari di ritorno dalla messa, dove si andavano puntualmente a comprare le torte per festeggiare compleanni ed altre ricorrenze; negli ultimi anni, ci sono passato soprattutto  la domenica pomeriggio, a comprare le paste,  con cui ‘condire’ la visione delle partite a casa di amici. Insomma, “Pinelli” faceva un po’ parte del ‘paesaggio’, per quello strano ‘fenomeno’, molto tipico delle periferie, dove mancando monumenti e luoghi di attrazione, sono i negozi ad assumere un’aria quasi monumentale… Quel luogo posto all’angolo di due strade, la vetrina, che più o meno ci passavi davanti ogni volta che uscivi di casa, l’occhio che anche involontariamente ti ci ‘cascava’, l’insegna blu… persino la carta, quella carta ‘solida’, leggermente ruvida, nella quale venivano incartati i dolci (anche la confezione vuole la sua parte) contribuivano a dare un’aria (mi rendo conto di esagerare) un filo ‘rituale’ al tutto.  In una quarantina d’anni di esistenza, Pinelli ha cambiato almeno un paio di gestioni, vi ci sono avvicendate varie commesse, ma meno che in altri casi, è restata comunque un ‘punto fisso’. Col tempo, nella mia zona quasi tutti gli esercizi commerciali hanno cambiato più volte gestione, o destinazione… dagli anni ’00 in poi chiusure ed aperture si sono fatte più frequenti, hanno chiuso sia l’alimentari che la macelleria dove quand’ero ragazzino mia madre mi mandava per qualche commissione , soffocati dall’invasione, sempre più prepotente, della ‘grande distribuzione’… “Pinelli” ha chiuso perché fondamentalmente faceva solo pasticceria: quella dei gelati fu una breve parentesi, surclassato da un gelataio aperto a due passi che poi col tempo è diventato esso stesso un ‘monumento’ della zona; ma soprattutto, “Pinelli” è stato progressivamente ‘estromesso’ dai numerosi bar aperti nel raggio di poche decine di metri, ognuno dei quali poi offre le sue brave torte, dolci, e quant’altro… è chiaro che se tu fai solo paste e ti ritrovi a poca distanza chi le paste le vende come ‘complemento’ alla colazione o al caffè, beh… i problemi aumentano… E così in maniera improvvisa, quasi in punta di piedi, da un giorno all’altro niente più insegna, vetrine e scaffali vuoti, un senso di abbandono che a vederlo ti mette tristezza, perché diciamocelo, vedere quelle belle sfilze di torte in vetrina a volte contribuiva pure a migliorarti l’umore… Chiude un luogo che ‘c’era da sempre’, e in fondo per quanto alla fine si tratti solo di un negozio, la cosa ti lascia un filo di amaro in bocca… specie pensando al fatto che già è stato avvistato il ‘solito’ cinese a prendere le misure, e che quindi quella che in fondo era una ‘bottega storica’ del quartiere, forse si trasformerà nell’ennesima vendita di pattume a buon mercato, nuova tappa di quella che nella mia zona sta assumendo i contorni di un’autentica ‘colonizzazione’, nei confronti della quale forse sarebbe il caso di agire per tempo, prima di ritrovarsi a vivere senza accorgersene in un quartiere cinese, in una città cinese, in una nazione cinese, dominata dalla cultura aberrante del ‘lavora finché non crepi’. Auguri a tutti.

PACIFIC RIM

Pacific Rim, ovvero: il film più atteso dell’anno, almeno per quanto mi riguardava… il film più atteso dell’anno, credo, per tutti coloro che tra la fine degli anni ’70 e la prima metà degli ’80 sono cresciuti a pane-e-robottoni, godendosi la prima e per certi versi tutt’ora insuperata, grande stagione dei cartoni giapponesi a base, appunto, di robottoni che prendono a mazzate mostri giganti.

Fin da quando sono cominciate a circolare le prime indiscrezioni, questo film è diventato subito un ‘cult’, atteso, attesissimo, per certi versi ‘agognato’: dateci Pacific Rim… e per certi versi l’uscita nel pieno dell’estate non gli rende manco completamente giustizia; del resto, diciamocela tutta: questo è più un film da ‘nerd pallidini’ che non da ‘palestrati da spiaggia’.

La trama è più o meno nota: a partire dal 2013, la Terra si trova ad affrontare l’attacco dei Kaiju, enormi mostri che portano morte e distruzione uscendo fuori da un varco dimensionale nelle profondità dell’Oceano; per affrontare la minaccia, il genere umano costruisce degli immensi robot, guidati da due piloti che devono avere particolari affinità (ed infatti sono spesso fratelli) in modo da poter ‘unire le proprie menti’ per guidare i giganteschi robot: la guerra sembra vinta, ma i Kaiju ‘imparano’ e si fanno sempre più minacciosi…

La novità, rispetto ai precedenti del ‘genere’, è che il film non ci racconta l’invasione: ci getta invece, fin da subito, all’interno della guerra, limitandosi a farci un bel riassunto di quanto già avvenuto, per non perdersi più di tanto in chiacchiere… E di chiacchiere, in effetti, in questo film ce ne sono ben poche (e a dire il vero, quelle poche sono anche discretamente apprezzabili rispetto ad altri film ‘di genere’: le ‘storie’ narrate sullo sfondo delle roboanti battaglie sono ben sviluppate, i personaggi discretamente credibili; certo non manca il ‘discorsone’ alla vigilia della battaglia finale, ma diciamocelo, quello è un elemento irrinunciabile); perché il film mantiene esattamente ciò che promette a tutti gli amanti del genere: mazzate, mazzate, e ancora mazzate; mostri a profusione ed armi insospettabili da una parte e dall’altra, distruzione ed esplosioni a raffica, e via dicendo.

Un piacere innanzitutto per gli occhi, perché del Toro, come è già stato sottolineato da altri, è riuscito a rendere intellegibile il tutto: negli scontri all’ultimo sangue tra mostri e robottoni si capisce esattamente tutto ciò che sta accadendo, evitando ad esempio l’esempio caotico dei film dedicati ai Transformers; mostri e robottoni sono immensi e vengono mostrati in tutta la loro magnificenza… e poi, certo, c’è tutto il gusto ‘allusivo’ e ‘citazionista’ di chi si è goduto quei cartoni e vuole dare ai propri più o meno coetanei uno spettacolo indimenticabile: una puntata extralong di uno di quei cartoni che aspettavamo con ansia all’ora di merenda… con la differenza… che è un film… e quindi ogni cinque minuti ti scappa un ‘mamma miaaaaa!!!!’.

Gli attori sono tutti in parte, in ruoli che rievocano efficacemente tutte le figure tipiche del ‘genere’: dagli eroi tormentati al generale tutto d’un pezzo fino agli scienziati, ovviamente venati di follia; si distinguono i principali Charlie Hunnam e Rinko Kikuchi assieme ad Idris Elba, ma non si può non citare la spassosissima interpretazione di Ron Perlman.

Se siete cresciuti a cavallo tra gli anni ’70 e gli ’80, andare a vedere Pacific Rim è un obbligo; a tutti gli altri, beh, la visione ne è caldamente consigliate, a patto, ovviamente, di essere in ancora in possesso della capacità di giocare e farsi stupire e trascinare dal ‘sense of wonder’.

AVREI TANTO DA SCRIVERE…

Su Napolitano (un quasi novantenne che ormai in Italia fa e disfa come più gli aggrada);

su Letta e il suo ‘Governo’ (virgolette volute, visto che ancora nessuno ha capito in cosa il ‘governare’ di Letta consista);

su Epifani e il PD (che fanno la ‘faccia cattiva’, ma poi usano obbedir tacendo ai desiderata di Berlusconi);

su Berlusconi e il PDL (e chi sta meglio di loro?);

su Calderoli (il problema non è ciò che ha detto – dov’è la novità? – quanto il fatto che stia dove stia e che ‘qualcuno’ ce l’abbia messo, tra cui quelli che si sono taaanto scandalizzati);

sul ‘caso kazako’ (al netto dei diritti umani, delle ‘dietrologie petrolifere’, della figuraccia internazionale, alla fine Alfano li è restato e  il PD ha rimediato l’ennesima figuraccia);

su Boldrini e Miss Italia (si vedono donne meno vestite ad agosto nel centro di Roma, e comunque le concorrenti di Miss Italia parlano eccome e il problema spesso sta proprio lì);

su Zingaretti (che come idea nuova e geniale per risanare le casse della Regione Lazio ha proposto di… aumentare le tasse);

su Marino (per il quale pedonalizzare anche solo duecento metri dei Fori Imperiali sembra sia diventato un compito improbo);

sulle finte liti tra partiti e nei partiti, sceneggiate, recite  e commedie organizzate ad uso e consumo di una popolazione narcotizzata che ormai crede a tutto (e magari chi litiga sulle pagine dei giornali e nei programmi tv poi la sera va a cena insieme o si telefona facendosi grasse risate alle spallacce nostre)

sui ‘mezzi di (dis)informazione di massa, ben contenti di proporre tutto ciò alla popolazione… tanto tra poco di un mese comincia il campionato e la vergogna di calciatori venduti per decine di milioni di euro chi se la ricorda più?’;

tanto da scrivere (credo di non aver dimenticato nulla)… ma è estate e fa caldo, non mi va  e a dirla tutta mi pare pure una cosa inutile, parole destinate a perdersi nel flusso di miliardi della rete… a che serve? Preferisco parlare di cinema, musica, libri… temi più ‘alti’, insomma, rispetto alle miserie della classe dirigente. Però una riflessione voglio mettercela: una volta lo status di quelli che ‘dirigevano’ dipendeva almeno in parte dal benessere dei cittadini: oggi tutto sembra ribaltato, come se più stessero male i cittadini, più stessero bene loro. Fatevi una domanda: perché in Italia il P.I.L. e il reddito delle persone continuano a scendere, la disoccupazione aumenta, i servizi pubblici e sociali a peggiorare (o come massimo a non migliorare?) e allo stesso tempo il debito pubblico aumenta? Perché i soldi continuano ad essere usati per mantenere lo status sociale, le rendite economiche e di potere, il benessere delle cosiddette ‘classi dirigenti’ e di tutto quel sistema di caste, potentati, cricche e conventicole parassitarie che vi prospera attorno. Certo, alcuni ‘fanno finta di’: si dimezzano magari stipendi faraonici, che poi in valore assoluto restano tali… poche eccezioni, facilmente individuabili coloro che si calano i soldi sul serio, li restituiscono o magari in Parlamento propongono a tutti di rinunciarvi, venendo puntualmente presi a pernacchie dai rappresentanti della ‘strana maggioranza’ che non sono disposti a rinunciare ad un euro… vabbé, mi fermo qui… è estate e fa caldo… e comunque tra poco più di un mese ricomincia il campionato: coraggio, Letta, Alfano, Epifani, Renzi… e tutti gli altri: un piccolo sforzo e poi il calcio, la più potente arma di distrazione di massa sganciata sul popolo italiano, ricomincerà a dare i suoi effetti…

FOREST FIELD, “PIONEERS OF THE FUTURE” (ROCK COMPANY)

Forest Field è il nuovo progetto del polistrumentista Peter Cox, secondo le intenzioni dichiarate, il tentativo di coniugare tessiture strumentali di derivazione ambient / new age con la forma  – canzone declinata su territori progressive.

Definizione intrigante e affascinante, pur non offrendo l’idea di una formula originalissima, senonché… senonché, l’ascolto di “Pioneers of The Future” appare offrire ben altro… O meglio, se per a sentire parlare di ambient e new age vi immaginate evanescenti architetture sonore, giocate magari sulla dilatazioni, beh, questo non è decisamente il caso.

Le tredici tracce presenti, giocate sulla costante e regolare alternanza tra brani cantati (durata sempre superiore ai cinque minuti, sforando anche i sette) e più brevi intermezzi musicali, appaiono piuttosto consegnarci una band che (a questo punto non si sa quanto volutamente, viste le intenzioni), appare sconfinare spesso e volentieri in territori ‘metallici’, magari quelli facenti più capo al caro vecchio hard rock di fine anni ’70 – inizio ’80, con piacevoli inclinazioni verso quello che venne definito ‘AOR’ (adult oriented rock): leggasi un rock attento magari al lato melodico della faccenda, e parimenti accorto nel voler rifuggire certe tentazioni ‘esibizionistiche’ tipiche del genere.

Quanto al prog, certo, qualche suggestione ogni tanto fa capolino, ma non aspettatevi gli interminabili assoli, o le ardite strutture sonore tipiche del genere; tipicamente ‘progressiva’, invece l’impostazione ‘ideale’ del disco: un ‘concept’ dedicato al tempo (ciascuno dei titoli dei sette intermezzi fa riferimento a un giorno della settimana)  e per quanto riguarda l’ambient e la new age, pare di intravedere qualcosa negli intermezzi strumentali, ma si tratta più che altro di echi lontani.

Nonostante i Forest Field sembrino offrire qualcosa di diverso da quanto inizialmente promesso, “Pioneers of the future” è comunque un lavoro apprezzabile, caratterizzato da un buon dinamismo, un insieme di brani tutto sommato riusciti (forse con un paio di passaggi a vuoto), un’ottima componente strumentale e un’efficace interpretazione vocale, caratterizzata dalla partecipazione di più voci tra le quali, non ce ne vogliano i maschi, la più convincente appare quella di Aukje Peeters, che forse nell’insieme del disco avrebbe meritato più spazio.

Una riuscita alternanza emozionale, tra brani arrembanti, episodi più accorati, fino ad uno stralcio di minuetto mozartiano, per un disco che si lascia ascoltare con piacere.

WORLD WAR Z

Quando un misterioso virus va rapidamente diffondendosi attraverso il mondo, trasformando le persone in zombie assetati di sangue Gerry, ex agente dell’ONU specializzato in indagini nelle zone di guerra, viene incaricato d’investigare sulla faccenda, affiancando un giovane virologo e cercando di trovare l’origine del contagio e una possibile cura… Inutile stare a raccontareil seguito: in questi casi, meno si dice, meglio è…
A qualcuno (molti?) World War Z forse non dirà un granché: in fondo è un incrocio tra film a base di morti viventi ed action movie, un crossover non nuovissimo (basti pensare a tutta la saga di Resident Evil e, in parte, a film come 28 Giorni Dopo e il sequel 28 Settimane Dopo). Eppure, WWZ sembra comunque offrire ‘qualcosa’ di nuovo: dipenderà forse dal contrasto tra la produzione, abbastanza faraonica e l’argomento, che in effetti dal ‘padre’ del genere Romero in poi è sempre stato svolto all’insegna del ‘low’ budget… ma soprattutto, dipende dal fatto che, per la prima volta (e comunque con un’idea senz’altro non abusata), il tema ‘invasione zombesca’ viene svolto all’insegna dello sguardo ‘globale’, ‘dall’alto’ – a volte nel vero senso della parola, visto che il protagonista viaggia in lungo in largo per il globo il più delle volte in aereo – come non si era mai visto prima.
Si potrebbe quasi affermare che a quarant’anni e passa dall’originale, siamo arrivati agli antipodi: basta con il solito tema dei sopravvissuti asserragliati da qualche parte (case, centri commerciali, grattacieli, basi militari e via dicendo): la piaga diventa globale e – come dice a un certo punto il protagonista – ‘la vita è movimento’: il risultato è una corsa a perdifiato che ci porta da un capo all’altro del mondo, facendo diventare il tutto una sorta di ‘caccia al tesoro’ su scala planetaria alla ricerca della soluzione…
Non mancano sequenze ad effetto (almeno un paio credo siano destinate a restare nell’immaginario degli amanti del genere), non ci risparmia – pur senza eccessive concessioni – lo splatter, ci sono ovviamente i classici momenti di ‘tensione’ col ‘mostro dietro la porta’, ma in World War Zombie si cerca, riuscendoci in buona parte, di conservare ‘tutto ciò che non può mancare’ e cestinando il più possibile i luoghi comuni del genere, regalandoci un film che di certo non può essere accusato di essere ‘il solito film di zombie’. A monte, del resto, c’è il romanzo (pur molto liberamente reinterpretato) di Max Brooks (figlio d’arte di Mel e di Ann Bancroft, che ha evitato la trappola di seguire le orme genitoriali, per applicare altrove il proprio talento), uno che con la sua opera ha contribuito a svecchiare il ‘genere’ a partire da quel “Manuale per sopravvivere agli zombie” che ancora oggi risulta un assoluto colpo di genio.
A reggere la scena sulle sue spalle per tutto il film è un Brad Pitt che riesce più o meno agilmente nel compito (si tratta del resto di un film non ‘di personaggi’, quanto di situazioni), affiancato di volta in volta da vari comprimari tra cui, a solo titolo di ‘nazionalismo’, vale la pena di ricordare Pierfrancesco Favino (in un ruolo che intendiamoci, lui o un altro era più o meno la stessa cosa).
World War Zombie è insomma un film godibile, che finirà per soddisfare gli appassionati del genere, una ‘variazione sul tema’ che tutto sommato appare offrire qualche spunto d’interesse per contribuire a rinnovare un genere che comincia a sentire il peso dell’età.

DOTVIBES, “SHINE A LIGHT” (AUTOPRODOTTO)

Gruppo proveniente dai dintorni di Torino (Biella, Pinerolo), i Dotvibes sono in circolazione dal 2005: da allora, hanno dato alle stampe un primo Ep, “Drop the love Bomb”,nel 2009, tagliando in seguito l’importante traguardo del primo lavoro sulla lunga distanza, “Inside this bubble” (che vedeva la collaborazione, tra gli altri, di Bunna degli Africa Unite e Peter Truffa dei Bluebeaters).

A qualche anno di distanza, la band piemontese torna con una nuova produzione: un Ep (scaricabile gratuitamente dal sito Internet della band: http://www.dotvibes.it) di sei tracce (quattro delle quali inedite) che prosegue il sentiero intrapreso nei precedenti lavori, all’impresa di un suono che, mantenendo le proprie solide radici in Giamaica, cerca di ‘contaminarsi’, aprendosi ad altri generi.

Il quintetto, che nel 2008 ha tra l’altro vinto l’Italian Reggae Contest, organizzato da Rototom Sunsplash, propone una formula che non può non risentire della ‘scuola torinese’, riuscendo però a darle uno stile sufficientemente autonomo: elettronica (tra accenti che sfiorano il dancefloor e più consuete suggestioni dub) e flirt con l’hip hop si alternano o si mescolano, arricchendo la base reggae, offrendo un pugno di brani che, va da sé, definire ‘solari’ ed ‘estivi’ è quasi banale, ma dopotutto in estate siamo e i suoni dei Dotvibes sono più che mai adatti al clima.

L’inglese è la lingua prediletta, ma non si disdegna l’italiano (‘Non mi volto mai’ è l’unico esempio, e finisce per essere uno degli episodi migliori del disco, assieme ad ‘I’m here’, dalle tinte vagamente cyber), affidando i testi alla vocalità femminile di Estelle che, priva di qualsivoglia ammiccamento, finisce per rivelare una sensualità tutta particolare.

Il disco, frutto dell’ormai costante collaborazione con Paolo Baldini degli Africa Unite, è stato anticipato dal singolo Now Think About It, il cui video è stato trasmesso anche da MTV.

EMPIRE STATE

Arte a New York oggi

Roma, Palazzo delle Esposizioni, fino al 21 luglio
“Se, vabbè, questo lo potevo fà pure io”: in questa frase risiede forse tutto il senso dell’arte contemporanea. Si potrà non essere d’accordo, ma è un fatto che l’arte è probabilmente morta quando Duchamp ha preso un pitale e l’ha ribaltato, affermando ‘questa è arte’… no, questo a tutti gli effetti è e resta un pitale ribaltato, spiacenti… Il concetto ce l’hanno ribadito a iosa: non è l’oggetto, ma è ‘l’intenzione artistica’… ancora di più, come suggeriscono tante delle opere in mostra al Palazzo delle Esposizioni in questa mostra dedicata al contemporaneo newyorkese (ma il dato geografico finisce per essere quasi un mero pretesto), non è tanto l’artista, quanto ‘l’occhio di chi guarda’: io, artista, vi mostro un oggetto, più o meno ‘trasformato’, poi sta al vostro gusto, alla vostra sensibilità, dargli o meno un maggiore o minore ‘contenuto’ o ‘significato artisitico’.

A voler essere cattivi, si potrebbe affermare che se poi a dargli un ‘contenuto artistico’ è un esimio gallerista che fa in modo che la tua opera non resti nel tuo giardino di casa, ma finisca esposta in una delle maggiore sedi espositive di Roma (città dove, vale a meno la pena ricordarlo, è possibile vedere gratuitamente le opere di Caravaggio, Bernini, Michelangelo e via dicendo), beh allora è anche meglio…

Se si vuole, questa “Empire State” bisogna prenderla come il solito gioco: personalmente mi sono anche divertito, assistendo tra perplessità e qualche momento di stupore a questa serie di ‘opere d’arte’: la sensazione più bella è stata manco a dirlo, quella di incrociare i sorrisi degli altri visitatori o del personale del Palazzo davanti a questi ‘capolavori’: insomma, tutto, ma non chiedetemi di prenderla sul serio, secondo me c’è da diffidare, e molto, di chi davanti a queste opere assume un atteggiamento serioso e corrucciato… maddeche???? Anzi, il consiglio è di portarci i vostri figli, a questa esposizione, che c’è da scommettere, in molti casi si divertiranno moltissimo, davanti a ‘ste cose che a definirle ‘strambe’, forse gli si fa pure un complimento.

Il catalogo delle ‘declinazioni dell’arte contemporanea’ (che più contemporanea non si può, verrebbe da dire, visto che la gran parte degli artisti esposti, è nata dopo la prima metà degli anni ’70), c’è più o meno tutto: dalla pittura ‘colata’ di Ryan Sullivan agli assemblaggi casuali di oggetti di Uri Aran, dalle video installazioni del web artist Tabor Robak alla riflessione ‘storica’ di Julian Schnabel, da un Paperino trasfigurato e inca**atissimo di Joyce Pensato alle scritte sulle lavagne modello punizione scolastica (incipit dei Simpson, per intenderci) di Adrian Piper, dagli oggetti sparsi qua e là di Darren Bader alla ripresa ‘kitsch’ dell’arte antica di Jeff Koontz, dai manichini pseudopornografici (questi magari ai vostri figli evitateglieli) di Bjarne Melgaard al ‘baldacchino ferroviario con con conchiglie applicate’ firmato Keith Emdier che campeggia nel salone centrale, dagli stendardi appesi al soffitto con stampati sopra nomi di italiani celebri (anvedi aò, ce sta pure Balotelli!!) di Renée Green, fino agli oggetti ‘di risulta’ di Virginia Overton (tra cui un’indimenticabile trave di legno con lampadina – accesa – e un’altrettanto memorabile tubatura trovata non si sa dove a Roma sud, ma non era arte newyorkese?,che riempe in diagonale un’intera parete… che diciamocela tutta, arte o no, sempre ‘na tubatura resta)… In tutto questo, si fanno almeno ricordare i dinosauri in vetroresina di Rob Pruitt e soprattutto una sala interamente arredata da Danny McDonald, in quella che tra videoinstallazioni, manichini acconciati come sciamani del terzo millennio e vari altri complementi d’arredo, sembra quasi una cappella per un qualche culto dei secoli prossimi venturi: se non altro, almeno in questo caso va premiato lo sforzo inventivo e creativo… manco comparabile a quello di andare in giro, trovare una tubatura e piazzarla lì (non me ne voglia la signora Overton, però ci penso: magari quel tubo è costato poche centinaia di euro ed è stato montato e smontato da un valente stagnaro e adesso sta in un museo solo perché una tizia ha deciso che doveva diventare un’opera d’arte: fossi lo stagnaro, un pò me girerebbero).

Alla fine ci ragiono e penso: se tutto può essere arte e se l’arte è non tanto nell’atto di chi crea, ma nell’occhio di chi guarda (ribadisco, meglio se un gallerista), ha ancora senso organizzare queste esposizioni? I Musei forse più che il ‘contemporaneo’ dovrebbero testimoniare la storia e l’evoluzione dell’arte: perché alla fine, se chiunque può decidere cosa può essere arte o meno, entrare in Museo e pagare per vedere opere ‘partorite’ nel 2013, ha poco senso, perché se giro per strada io stesso posso ‘impadronirmi’ di qualsiasi cosa e definirla arte…

L’UOMO D’ACCIAIO

Il prologo è quello che gli appassionati – e non solo – conoscono bene: il pianeta Krypton ormai condannato, il tentativo disperato dello scienziato Jor El di mettere in salvo il figlio, sperando che possa trovare una nuova ‘casa’…
Ritroviamo Kal El, cresciuto sulla Terra come Clark Kent, poco sopra la trentina, intento a vivere un’esistenza sotto traccia, usando di tanto in tanto i poteri che il nostro sole ha conferito alla sua fisiologia aliena… e a sconvolgere nuovamente la sua esistenza, arriverà una serie di eventi che lo costringerà a venire definitivamente a patti con sé stesso, scegliendo tra il retaggio della sua stirpe e il mondo che l’ha accolto, dovendosi confrontare con un gruppo di kriptoniani salvatisi dalla catastrofe perché precedentemente esiliati…

Senza girarci troppo attorno The Man of Steel (o l’Uomo d’Acciaio, come cita il titolo italiano), era uno dei film più attesi dell’anno, e sicuramente il più aspettato dagli appassionati del genere. I motivi sono molteplici: in tempi in cui i supereroi al cinema vanno per la maggiore, all’appello mancava ormai solo Superman, dopo il flop disarmante del film di qualche anno fa, poco più che un omaggio, anche abbastanza malriuscito ai film di Christopher Reeve.

Non solo: dopo il successo della trilogia batmaniana, la necessità di portare Superman sul grande schermo era ineludibile e in aggiunta a questo dall’esito di questo film dipenderà la reale possibilità di dare il via ad una serie di film con protagonisti i supereroi della casa editrice DC Comics, il cui apice dovrebbe essere un lungometraggio dedicato alla Justice League, il supergruppo che oltre a Superman e Batman, vede protagonisti Wonder Woman, Flash e Lanterna Verde tra gli altri… insomma c’è da capire se la DC possa mettere in campo un progetto paragonabile e concorrente con quello della Marvel.

“L’Uomo d’Acciaio” è un film riuscito, anche se con qualche limite: lo spirito e l’identità del personaggio sono rispettati, pur se con qualche accettabile licenza, ma con un’apprezzabile operazione di ‘svecchiamento’: privato degli accenti da ‘boyscout’ dei precedenti lungometraggi, Superman viene dipinto come un personaggio in buona parte problematico che davanti alla drastica scelta di fronte alla quale viene messo, viene per un attimo colto dal dubbio. Qualche isolata concessione all’ironia, un’adeguata dose di sentimenti, con l’immancabile Lois Lane e coinvolgimento sentimentale annesso… e tonnellate di azione, distruzione, combattimenti, esplosioni e quant’altro… pure troppi: e forse questo è uno dei limiti del film: specie nella seconda parte il ricorso all’effettaccio appare troppo insistito, si avverte un filo di compiacimento da parte del regista, Zack Snyder, che del resto la sua carriera l’ha costruita più sulla fantasmagoria visiva che sulle ‘storie’ propriamente dette. Efficace l’idea di narrare gli anni dell’infanzia e giovinezza del protagonista attraverso flashback sparsi qua e là, evitando la noia di un riassunto ‘lineare’.
Sotto il profilo della coerenza narrativa si potrebbe avere da eccepire sul fatto che Kal / Clark prima giura eterna fedeltà al genere umano, e poi non si cura del fatto che i suoi combattimenti radono al suo una media cittadina prima e una metropoli poi (a proposito: a un certo Metropolis sembra deserta, interi grattacieli vuoti, alla faccia delle procedure di evacuazione). Per finire, appare fin troppo abusato il ricorso alla situazione dell’eroe che salva la sua donzella: all’ennesima occasione c’è da domandarsi come Superman non sbottti con Lois con un bel “ma tu stai sempre trai piedi”?

Il cast è all’altezza, anche se alle prese con una sceneggiatura che non esplora chissà quali profondità dell’animo umano: Henry Cavill, al centro della scena, riesce a dare sufficiente spessore alle insicurezze del protagonista; attorno a lui Amy Adams – Lois Lane e Michael Shannon (nel ruolo di un cattivo forse non memorabile), svolgono senza troppi patemi il compito non eccessivamente gravoso assegnatogli; Russell Crowe è efficace nel ruolo (il padre ‘genetico’ di Kal-El) che fu di Marlon Brando, Kevin Costner e Diane Lane altrettanto in quelli dei genitori terrestri. Nei ruoli di contorno troviamo, tra gli altri Laurence Fishbrune e due note facce ‘televisive’: Christopher Meloni (Law & Order – Special Victims Unit) e Richard Schiff (The West Wing).

“L’Uomo d’Acciaio” riserva dunque a Superman il rilancio che meritava, gli esiti al botteghino sono stati convincenti: le seguito è annunciato e già le indiscrezioni attorno a plot e personaggi; diverso il discorso se vogliamo parlare di un più ampio progetto che coinvolga anche gli altri eroi della DC: su qesto, eccetto qualche rara allusione, il film non sembra dire ancora granché… le premesse per vederci sommersi da una gragnuola di film a base di gente con superpoteri come già successo con la Marvel non sembrano essere ancora molto concrete.

L’efficacia de “L’Uomo d’Acciao” comunque resta: non passerà alla storia del cinema in assoluto e probabilmente nemmeno a quella dei fumetti su grande schermo: ma è in fondo un film onesto, che mantiene ciò che promette offrendo oltre un paio d’ore di sano svago.