Archive for settembre 2015

LIMONE, “SECONDO LIMONE” (DISCHI SOVIET STUDIO)

Uno di quei dischi strani, divertenti, che ad un certo punto fanno pure venire il dubbio: ma scherza o fa sul serio? Del resto, se sei veneto e scegli di chiamarti ‘Limone’, già l’intenzione di essere – o almeno, sembrare – originale, è manifesta.

Fatto sta che, come suggerisce il titolo, Limone (al secolo Filippo Fantinato) è giunto al secondo capitolo della propria auto-biografia sonora (senza considerare esperienze pregresse); titolo che tra l’altro tradisce già di suo il gusto del gioco di parole: ‘secondo’ ordinale, ma anche secondo come ‘punto di vista’.

Limone guarda il mondo, i rapporti interpersonali e sentimentali facendoci sempre una risata sopra (per quanto velata di disincanto o malinconia): starsi tanto a dannare l’anima non conviene, alla fine; allora, ecco questi dodici brani in cui c’è un po’ di tutto, dai gatti su Facebook alle cucine dell’Ikea, da Pasolini a D’Averio, da Socrate ad Amanda Knox.

I cantautori moderni morti di diabete a forza di scrivere canzoni d’amore; i rapporti sentimentali che diventano come scontri di super eroi o le guerre di Bush; gli intellettuali da salotto che leggono libri solo per snocciolare citazioni ‘colte’ al momento giusto; l’Italia dei talk show, dei ‘fattacci’ di cronaca, degli slogan contro le ‘streghe rosse’ e i ‘gufi comunisti’…

Filastrocche per adulti, l’attitudine surrealista dell’accostamento improbabile, vestita con gli abiti di un pop leggero dai colori pastello, solo episodicamente acceso da qualche sgargiante venatura elettrica; accompagnato da Federico Pigato al basso e Christian Pagotto alla batteria, Limone si occupa di tutto il resto – chitarre e synth oltre a cantare – costruendo un disco a tratti spiazzante: certo, il gusto per lo scherzo, il gioco di parole, la ricerca di similitudini e metafore originali non è certo una novità per la canzone italiana, anzi, ne è forse uno dei filoni principali, per quanto sottovalutati… Limone si aggiunge alla lista, con un esito forse non straordinario, ma alla fine gradevole.

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CESARE MALFATTI, “UNA CITTA’ ESPOSTA” (ADESIVA DISCOGRAFICA)

Sei capolavori (più uno) della storia dell’arte e sei luoghi scelti per la loro singolarità, o per il loro valore storico – culturale più recente, disseminati nel territorio milanese. I primi li ha scelti Alessandro Cremonesi, nell’ambito del progetto “Milano A Place To Be”, sorta di ‘braccio culturale’ dell’Expo all’interno del tessuto urbano milanese: sei opere, appunto, una per ogni mese di durata dell’Expo; poi, arriva l’idea di mettere in musica il tutto, coinvolgendo Cesare Malfatti (già compagno di avventure di Cremonesi nei La Crus), assieme ad un gruppo di eccellenze del cantautorato italiano contemporaneo.

Tredici brani, eseguiti da Cesare Malfatti partendo dai testi scritti da Paolo Benvegnù, Francesco Bianconi (Baustelle) e Kaballà, Luca Morino, Luca Gemma, Gianluca Massaroni, Luca Lezziero, Vincenzo Costantino Chinaski e lo stesso Alessandro Cremonesi; Cesare Malfatti interpreta e dà forma sonora ai pezzi.

Si potrebbe affermare che “Una città esposta” è un disco ‘discreto’: non nel senso del giudizio, ma in quello dell’approccio: del resto, quando si tratta di mettere in musica opere come il Cenacolo vinciano, la Pietà Rondinini, Il Bacio di Hayez o Il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, non si può che farlo ‘in punta di piedi’, un po’ come il visitatore che si trova di fronte a questi capolavori.

Un disco rarefatto, in cui Malfatti più che cantare ‘sussurra’, o ‘sospira’: torna il paragone con lo spettatore che di fronte alle opere non può che esprimersi con un filo di voce, per non rompere ‘l’incanto’ della magnificenza visiva cui si trova di fronte.

Suoni sospesi tra elettricità, elettronica ed acustica: chitarre che ora tessono flebili trame, ora si esprimono attraverso sferzate elettriche, tappeti sintetici minimali con qualche vaga allusione ‘rumoristica’, una sezione ritmica in alcune parentesi composta e che procede quasi per ‘sottrazione’, ma che molto più spesso si snoda flirtando con climi funkeggianti: il contraltare ad un cantato che potrebbe definirsi quasi dimesso è insomma un campionario sonoro per lo più volto al ‘movimento’ o alla luminosità dei toni, pur mantenendo un atteggiamento ‘rispettoso’ e forse un po’ di ‘soggezione’ rispetto alle opere trattate.

Nelle parole di Benvegnù, Il Quarto Stato non può che riaffermare la propria potenza nel continuare ad essere metafora del mondo del lavoro anche oggi, ad un secolo di distanza, dove allo sfruttamento si è aggiunta la dinamica del consumo a tutti i costi; lo stesso ex-Scisma scopre il mondo di passione e sensualità celato dietro al Bacio di Hayez, mentre Francesco Bianconi assieme ai Kaballa restituisce al Concetto spaziale di Fontana la sua potenza iconoclasta e libertaria, per poi viaggiare a ritroso per 2.000 anni e dare voce ai pensieri di Gesù durante l’Ultima Cena; Luca Morino esalta la tenerezza materna della Pietà Rondanini e Alessandro Cremonesi isola nello Sposalizio della Vergine di Raffaello il carattere di evento fatidico, quasi di snodo universale.

A questi sei capisaldi si aggiunge un tuffo nella contemporaneità: quello di L.O.V.E. di Cattelan, meglio conosciuto come il ‘dito che manda affanculo la Borsa”, per Luca Lezziero simbolo di una libertà di espressione – forse – tutta da riconquistare.

E poi ci sono i ‘luoghi’, caratteristici o simbolici: le strade dedicate al figlio di Mozart od Ho Chi Minh; la dedica a Bob Noorda, olandese trapiantato a Milano, quasi dimenticato autore dei marchi Coop, Feltrinelli, Mondadori, Agip, Touring Club Italiano; la memoria del Teatro Continuo di Burri, luogo di incontro e socialità restituito recentemente alla Città, e quella del Tombon de San Marc, un bacino ormai scomparso, a quanto pare luogo prediletto dei suicidi la strenua resistenza della Cascina Campazzo, simbolo di una provincia agricola che rischia di essere soffocata dal cemento (e qui in controluce si può forse leggere una critica allo stesso Expo).

Alla fine , “Una città esposta” diventa una sorta di omaggio alla Milano migliore, quella del passato più o meno remoto, quella degli anni ruggenti delle avanguardie, quella attuale che, con un’immagine un po’ scontata, si può dire rappresenti i paradossi e i controsensi dei primi decenni del millennio.

A dirla tutta, l’Expo milanese ci aveva rotto le scatole già sei mesi prima della sua inaugurazione; ha continuato a scassarci gli zebedei anche successivamente, col suo ampio campionario di ipocrisie legate all’alimentazione e al problema del nutrimento mondiale, mentre i visitatori hanno continuato a mettersi in coda per mangiare da McDonald o al padiglione Italia, come se per mangiare ‘italiano’ si avesse avuto bisogno dell’Expo e di Eataly, come se poi un bel pezzo di pizza bianca con la mortadella assemblata all’alimentari sotto casa oltre a costare di meno, non offra maggiore godimento e non sia poi così dannosa per la salute, specie se gustata dopo essersi fatti qualche chilometro camminando o di corsa).

A parziale indennizzo di questo monumentale attentato ai nostri attributi, arriva l’ultimo lavoro di Cesare Malfatti.

FANTASTICHE!!!

Non posso esimermi, anche se quasi fuori tempo massimo (questo è quello che succede quando non si ha una connessione ‘autonoma’ e quando scrivere un post dal cellulare si rivela un’impresa di ‘quelle che meglio lasciar perdere) dal celebrare l’impresa di Flavia Pennetta e Roberta Vinci.

Cosa sia successo e come sia andata a finire credo lo sappiamo più o meno tutti, visto che l’avvenimento storico è stato la notizia di apertura di quotidiani e notiziari.

GRAZIE, GRAZIE, GRAZIE a Flavia Pennetta e Roberta Vinci per le semifinali spettacolari, le emozioni di un avvenimento che anche a ripensarci ora sembra da fantascienza; GRAZIE  a Flavia per essere stata la seconda italiana a vincere un torneo dello ‘slam’, apice – e a questo punto, stando alle sue dichiarazioni, finale glorioso – di una bella carriera.

L’augurio è che l’impresa rilanci un po’ le sorti del nostro tennis femminile che a questo punto, oltre a Errani, Vinci e (forse) Giorgi, non sembra promettere un grande cambio generazionale, mentre quello maschile sembra al momento affidato al solo Fognini, grande talento offuscato da un carattere fin troppo umorale.

Quanto alle polemiche su Renzi, se è vero che c’è chi urla ai soldi buttati via (ma quando gli pare… parliamo dei soldi buttati via per finanziare i giornali che sbraitano contro Renzi brutto e cattivo che parte e va a vedere la finale?), è altrettanto vero che una presenza ‘istituzionale’, anche di grado elevato, in un’occasione del genere era quasi un atto dovuto; poi si può fare ampia dietrologia sul fatto che Renzi debba mettersi in mostra… Non escluderei, anzi mi sembra molto probabile, che la presenza di Renzi a New York sia stata un messaggio esplicito al CIO riguardo l’attenzione delle istituzioni italiane verso lo sport, con riferimento alla candidatura olimpica di Roma… Certo magari sarebbe meglio qualche pista di atletica in più…

P.S. Un doveroso ringraziamento va anche a Stefano Benzi, Eurosport e DeeJay TV per aver trasmesso in chiaro l’incontro e aver rotto lo ‘schema’ secondo cui i grandi eventi sportivi in televisione sono quasi esclusivamente disponibile a chi ha i soldi per pagarsi l’abbonamento a Sky.

BOSCO, “ERA” (AUTOPRODOTTO)

“Era”: un imperfetto, o forse un sostantivo… Ad ascoltare i dieci brani che compongono l’esordio del quartetto romano, entrambe le definizioni possono calzare: un’era, non tanto storica, quanto di vita personale, la fotografia di un momento, fatto fatalmente non solo del proprio ‘vissuto’ attuale, ma anche di ricordi… e qui si inserisce l’era all’imperfetto… ‘era’, o ‘è stato’ così, fino a più o meno poco tempo fa, ma poi alla fine viene il momento di voltare pagina…

Relazioni sentimentali che si chiudono, cercando di evitare di annegare la sofferenza nella melassa dei ricordi; si coglie l’occasione, magari, per scappare all’estero, prendendo allo stesso modo le distanze da un’Italia in cui a volte l’unico ‘modus vivendi’ sembra essere quello di costruirsi un’oasi di tranquillità fatta di libri, film e tutto ciò che si ama, magari condendo il tutto con i ricordi estivi dell’adolescenza.

Ci si rende conto, o forse semplicemente lo si ammette a sé stessi, di stare ‘crescendo’ e che forse non è più il tempo di giocare a fare gli eterni ‘giovani’ continuando a replicare gli stessi ‘riti’, magari nel corso di estati trascorse troppo in fretta…

Sullo sfondo, Roma: vissuta, come da ogni comune cittadino, col classico rapporto di ‘amore / odio’: inevitabile, a pensarci, visto che alla fine Roma letta al contrario si legge pur sempre Amor.

I Bosco rileggono tematiche tutto sommato ‘consuete’ – i ‘momenti di passaggio’, la fine di un amore, la presa di coscienza del proprio ‘essere adulti’ – in maniera tutto sommato discretamente personale, con sonorità in cui si mescolano allusioni all’elettropop degli anni ’80, alle atmosfere sognanti dei ’90 (vedi alla voce Belle & Sebastien) e magari strizzando l’occhio a più recenti esperienze ‘indie’ di casa nostra: i primi a venire in mente, specie negli episodi in cui voce maschile e femminile si affiancano efficacemente, sono i Baustelle.

Un buon disco di esordio, in cui i riferimenti sonori sono ancora abbastanza ‘scoperti’, ma in cui si avverte che la ricerca di stile e personalità più marcati è già a buon punto.

THE HANGOVERS, “DIFFERENT PLOTS” (UNHIP RECORDS)

Prendete un cantante bolognese di origini olandesi; un bassista inglese; un chitarrista ex ‘bambino prodigio’ (o meglio, piccolo fenomeno televisivo nei Latte Rock che imperversavano ai tempi della Domenica targata Mara Venier); aggiungete un percussionista a completare il lotto.

Gli Hangovers ormai da qualche anno percorrono in lungo e in largo lo Stivale e trovano finalmente tempo, modo ed occasione di mettere insieme il proprio esordio discografico.

Un lavoro in due tempi, idealmente divisi come le due facce di un vinile: in italiano la prima, in inglese la seconda, a ricalcare la diversa estrazione dei componenti del gruppo; duplice la matrice linguistica, univoca quella sonora: gli Hangovers si pongono in quel mondo ideale che già qualcuno collocò “tra la via Emilia e il West”; è un disco ‘viaggiante’, quello degli Hangovers, e forse non potrebbe essere altrimenti nel caso di una band entrata in studio di registrazione dopo anni passati ‘on the road’.

“Different plots”è un lavoro i cui brani potrebbero spuntare improvvisamente nella playlist ascoltata percorrendo la pianura padana (ma volendo, anche il pontino o il tavoliere delle Puglie), tra un pezzo dei Negrita e uno dei Lynyrd Skynyrd, Credence Clairwater Revival e REM prima maniera.

Un rock dalle tinte southern, con accenti folk e country, qualche suggestione caraibica e accenni indie, forse più efficace nella sua matrice americana, laddove mostra di aver discretamente appreso la lezione dei ‘classici’, riproponendola in maniera che, se non troppo originale, risulta almeno gradevole nella forma; forse meno convincenti gli esiti in italiano, in cui la formula un po’ troppo orientata a quel tipico ‘rock italiano’ in cui la componente di ‘pop tricolore’ finisce spesso e volentieri per essere un deterrente…

“Different plots” mostra tutti i pregi di un lavoro frutto di una band già ben rodata e matura – non da sottovalutare in un momento in cui domina il tutto e subito e spesso una band sforna il primo disco cinque minuti dopo essersi formata – pur scontando i limiti di quello che comunque resta un esordio, con le incertezze tipiche del genere.

La formula bilingue appare un elemento singolare, anche se forse tradisce ancora un po’ di indecisione sul piano stilistico.