Archive for novembre 2015

CRNG, “542 GIORNI” (NEW MODEL LABEL)

CRNG’ sta per ‘carnage’: termine che evoca un qualcosa che evoca sangue, dolore e violenza, ma allo stesso tempo una profonda carnalità, non necessariamente volta a pulsioni distruttive; i ‘542 giorni’ del titolo sono quelli passati dal momento in cui questo quartetto fiorentino si è unito, a quando ha raggiunto il primo traguardo importante, appunto questo disco di esordio.

Un esordio ‘tipico’, si potrebbe dire, dominato dalla foga, dall’impeto di mettere subito in pratica, di dare forma concreta alle proprie aspirazioni; i CRNG non ci pensano troppo su, dando vita ad un lavoro tiratissimo, senza pause, all’insegna di un rock duro nel quale si possono trovare tante ascendenze ma forse nessuna appartenenza definita, pur se si intuisce (e forse non potrebbe essere altrimenti) il lascito della grande tradizione fiorentina di inizio anni ’80 e in generale lungo il disco ricorrono certe allusioni new wave.

I CRNG tuttavia si limitano a galleggiare, a bagnarsi nel mare sonoro di qualche decennio fa, senza immergervisi troppo, come nel caso di tanti altri gruppi degli ultimi anni: ispirati al passato senza apparire datati insomma.

Undici pezzi (inclusi breve introduzione e un altro strumentale), cantati in italiano, su cui dominano le chitarre, con synth ed elettronica fare da contorno ricorrente ed una sezione ritmica solida ma composta; i testi sono all’insegna di una tipica rabbia ed irruenza giovanile, l’osservazione di ciò che non va, la rivendicazione della propria identità, una scrittura saldamente ancorata al proprio vissuto, recriminazioni e rimpianti, disillusione e rancore, male di vivere e un filo di nichilismo; testi diretti per una scrittura tutta votata all’impatto emotivo.

Il pregio principale sta forse nell’aver corretto il proprio impeto, limitando ad una mezz’oretta la durata del disco, dotando così il disco di un’efficace compattezza; il resto, come avviene per la maggior parte degli esordi, è rivedibile e migliorabile, ma la grinta, l’attitudine ci sono, come pure sembrano esserci discrete potenzialità da sviluppare in seguito.

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GIANCARLO FRIGIERI, “TROPPO TARDI” (NEW MODEL LABEL / CONTRORECORDS)

La poetica della sconfitta, variamente declinata: accettazione quasi fatalista, occasione per mettere un punto e ricominciare da capo, annegamento in un mare di rimpianti…

“Troppo tardi” diviene così un titolo che della questione sembra guardare più le luci delle ombre, anche se affrontati con le migliori intenzioni i fallimenti delle vite di ognuno portano con se un qualcosa di ineluttabile, una componente di perdita che non si potrà recuperare.

Viene da chiedersi se e quanto ci sia di autobiografico in questo disco di Giancarlo Frigieri: di certo non è uno che si arrende, considerando che è ormai giunto al settimo lavoro rimanendo sostanzialmente sconosciuto al cosiddetto ‘grande pubblico’; molto più probabilmente, del ‘grande pubblico’ non gli importa un granché e quindi il cantautore di Sassuolo non vive il suo restare nelle ‘retrovie’ come una sconfitta… più probabilmente come una fiera affermazione di indipendenza.

Il campionario è abbastanza ampio: fallimenti sentimentali, quelli di chi mira sempre troppo in alto rischiando puntualmente di cadere, i sogni della gioventù più o meno abbandonati lungo la strada…

Frigieri sceglie di affidare gli otto pezzi presenti (una quarantina di minuti la durata complessiva) al solo abbinamento di voce e chitarra, sebbene ricorrendo ad una certa varietà di soluzione, grazie ad un’ampia versatilità stilistica e all’uso di qualche effetto.

Si passa così da una sabbiosità noise a una dimensione più raccolta, tipicamente cantautorale, da qualche ammiccamento pop (pur se non troppo sfacciato) a citazioni da musica colta.

Il risultato è un lavoro reso un po’ slegato dalla variazione continua di umori e stili, una consistenza frastagliata e ‘interrotta’ che si ritrova anche nei testi, spesso fondati sul susseguirsi e sovrapporsi di immagini, riflessioni, pensieri quasi un flusso di coscienza.

Un lavoro per certi aspetti gradevole, ma che forse trova un limite in una mancanza di ‘corpo’ e di ‘struttura’, nel complesso e a tratti anche nei singoli pezzi.

PARIGI

Qualcuno si sarà forse se chiesto se io non abbia avuto veramente nulla da dire riguardo gli attentati di Parigi e tutto ciò che ne è conseguito.
La risposta è: no. O meglio, di cose da dire ne avrei, ma stavolta di metterle per iscritto mi è mancata proprio la voglia.
Non mi pare ci sia molto altro da dire, hanno già detto tutto – e forse troppo – in tanti… alla fine, unire le mie parole alle tonnellate che ne sono già state scritte mi sembrava un esercizio inutile.
Molte considerazioni sono analoghe a quelle fatte a proposito dell’assalto a Charlie Hebdo: del resto in pochi mesi non è cambiato granché.
Ho seguito le notizie riguardo la serie di attentati come in una bolla, una strana sensazione di distacco; mi domando se non si possa cominciare a parlare di ‘assuefazione’… come se tutto quello che è successo fosse stato in fondo prevedibile, come se ce le si dovesse aspettare.
Ho provato una certa empatia per le vittime del Bataclan: non sono un fan sfegatato degli Eagles of Death Metal, ma la band è molto in sintonia con i miei gusti e di conseguenza ho provato una certa ‘vicinanza’ a chi era lì.

Ho considerato che se la Francia ha bombardato la Siria e l’Iraq e quindi si trovava in cima alla lista dei potenziali obbiettivi; ho considerato che la Francia ha questo stramaledetto problema con gli immigrati di seconda generazione che non è riuscita ad integrare, ho aggiunto la riflessione che spesso la gioventù si trova di fronte ad una vuoto di senso, che viene riempita talvolta con la droga, talvolta col gioco d’azzardo, talvolta col terrorismo: non è mischiare capra e cavoli, secondo me; il punto di partenza è comune, il problema sono se vogliamo i ‘canali di sfogo’: c’è chi entra nella sala giochi sotto casa e chi finisce su un sito estremista.

Ho considerato che certo, l’Italia ha tanti ‘simboli’ da colpire, ma che, dopo tutto, per il momento noi non abbiamo bombardato nessuno, quindi almeno viene meno il motivo della rappresaglia; ho considerato che da noi la questione degli immigrati di seconda generazione per il momento ha un impatto sociale minore, augurandomi che ‘chi di dovere’ impari la lezione francese e provveda per tempo.

E poi mi sono detto che dopo tutto la probabilità di uscire di casa e venire investiti da un auto, continua ad essere infinitamente superiore a quella di restare vittima di un attentato: non vuole essere una magra consolazione, si tratta di un semplice dato statistico; e comunque a voler restare chiusi in casa ci sono sempre gli incidenti domestici dietro l’angolo.

Rifletterei invece su come invece di ‘vaneggiare’ di bombardamenti e attacchi all’ISIS – peraltro sottolineo che chi parla di queste cose in genere poi non è che poi prenda, parta e vada in prima persona a combattere, è più il solito ‘armiamoci e partite’ – bisognerebbe veramente andare a fondo sulla questione dei rapporti coi Paesi finanziatori e delle armi.
Il Papa è l’unico che da quando è salito al soglio di Pietro ripete costantemente gli attacchi alla produzione di armi; ben pochi, nel panorama istituzionale e politico italiano hanno portato alla ribalta il tema di chi produce armi in Italia e di quali siano gli acquirenti di queste armi;
peraltro leggere quello che succede a Parigi e non solo, sembra che procurarsi delle armi, legamente o non, sia di una facilità irrisoria.

L’altra questione è quella dei rapporti con chi finanzia i terroristi: per il momento siamo solo di fronte a servizi giornalistici, ma nessuno si è sognato finora di redigere una lista dei ‘Paesi canaglia’ che finanziano il terrorismo… Forse perché fino a quando la lista – vera o presunta – includevaa Gheddafi e Saddam andava bene, ma se dovesse includere qualche emirato andrebbe molto meno bene.

Piccolo inciso, tra l’altro: per anni l’Iran ci è stato presentato come il ‘male assoluto’… eppure in Iran le donne possono frequentare l’Università, laurearsi e raggiungere anche posizioni di preminenza; per contro, l’Arabia Saudita è sempre stata proposta come ‘Paese amico’; in Arabia Saudita le donne non possono manco guidare la macchina:  sono solo io a vederci qualcosa di strano in questa situazione?

L’ultima riflessione riguarda proprio l’inondazione di parole, analisi e riflessioni che ci è stata scaricata addosso in questi giorni: la mia conclusione è stata che molti di coloro che hanno parlato e continuano a parlare lo fanno nella consapevolezza di avere le spalle coperte e di non essere a rischio.
Gli aerei bombardano nel mucchio, i terroristi sparano nel mucchio: ad andarci di mezzo è chi non c’entra niente, sia laddove non ha proprio potere decisionale perché le elezioni non sanno manco cosa siano, sia dove la democrazia esiste, ma poi chi viene eletto col voto ci fa un po’ quello che vuole.
Insomma, in tv tanti parlano perché sanno che i terroristi colpiscono ristoranti, sale da concerto, stadi e supermercati, non certo parlamenti, sedi di partito, centri finanziari fabbriche di armi…

LA PLAYLIST DI NOVEMBRE

(Anche se ormai specificare il mese è un filo superfluo, visto che ‘ste playlist le pubblico un mese si e tre no…)

Gassman Blues Junkfood + Gabrielli

The Contorsionist    Monobjo

Closer         Godblesscomputers

I’m All Right     The Hangovers

Voglia                Scimmiasaki

L’ultima cena     Cesare Malfatti

The Abacist       Suz

How to erase a plot  Armaud

Art School     Peter Truffa

Across The Universe  Joseph Martone And The Travelling Souls

Uomo con la chitarra Limone

Il Taglia teste   Lebowki

Buco Nero         Teo Manzo

Malaga (un altro Margarita) Bosco

SCIMMIASAKI, “COLLASSO” (VINA RECORDS)

Non si risparmiano, gli Scimmiasaki: senza fronzoli né perdite di tempo, all’insegna di un sound debitore di certo indie italico degli ultimi anni (leggi alla voce: Marta sui Tubi), ma anche di certe suggestioni d’oltreoceano, post-hardcore, emo e punk che dir si voglia.

Cinque brani per questo secondo EP, nel quale ha messo le mani Andrea “Giamba” di Giambattista (uno che di certe sonorità se ne intende, avendo già lavorato con Management del Dolore Post-Operatorio).

Durezza e compattezza di suoni, abrasioni e ‘muri sonori’ a go-go, ma senza disdegnare un certo appeal: per certi versi, a metà strada tra pop e punk, senza che a questo si debba dare una connotazione negativa.

Il “Collasso” del titolo – tradotto in copertina da un volto femminile che ha tutta l’aria di starsene a letto, non avendo alcuna voglia di alzarsi, per un misto di paura ed indolenza, opera di Riccardo Torti (già disegnatore di Dylan Dog) – è, forse, l’unico risultato delle contraddizioni irrisolvibili tra ciò che richiedono il ‘mondo’ e le ‘convenzioni sociali’ e le proprie emozioni, specie quelle più vive e viscerali.

Il filo conduttore che sembra apparire in controluce nello scorrere dei brani, è quello della verità, su sé stessi e sui rapporti con gli altri, spesso sepolta sotto la patina del vivere comune, magari volutamente ignorata, la cui ricerca richiede di mettersi in discussione, percorrere sentieri scabri e impervi, o che spesso ci colpisce improvvisamente, come un’illuminazione, con tutte le conseguenze positive e negative del caso.

Il trio viterbese assembla un lavoro che forse è tutto sommato troppo breve, lasciando l’idea del potenziale ancora in espresso, o comunque di essere una band pronta a mettersi alla prova sulla lunga distanza.

ARMAUD, “HOW TO ERASE A PLOT” (LADY SOMETIMES RECORDS)

Italia – Olanda e ritorno: cantante, trombettista e chitarrista di formazione jazzistica, Paola Fecarotta ha travasato i suoi studi nel progetto Armaud, esperienza inizialmente solista – chitarra e voce – successivamente ampliatasi nella forma di un trio, con la partecipazione di Marco Bonini (Mamavegas) e Federico Leo.

Il jazz in effetti con la proposta sonora degli Armaud c’entra poco, se non forse a livello di suggestioni ed allusioni, atmosfere che rimandano a certi club fumosi uniti ad una certa eleganza, compostezza di modi e suoni; ampio spazio, invece a una dimensione che potrebbe definirsi ‘trip – pop’: ascendenze al Bristol sound, mescolate al gusto per una forma canzone dalle maniere sofisticate.

Prima testimonianza discografica della band, punto di arrivo e di partenza “How to erase a plot” si snoda lungo dieci tracce il cui tratto distintivo è l’interpretazione della vocalist, nel segno di una dolezza (dai tratti in più di un’occasione quasi ‘infantili’), capace di una certa empatia con l’ascoltatore.

Voce accompagnata da tenui tessiture di chitarra, entrambe a galleggiare su una superficie liquida fatta di loop, synth, qualche effetto, nel segno di una rarefazione pronta in più di un’occasione a dare vita a momenti più sostenuti, lasciando a quale abrasione rumorisitica; una sezione ritmica composta ad incorniciare il tutto.

Li potremmo forse mettere a metà strada tra Lamb e This Mortal Coil: ascolto ideale per una giornata dal mood malinconico: il titolo fa riferimento forse al fare piazza pulita, chiudere definitivamente pagine della vita per aprirne altre, non senza il classico bagaglio di rimpianti, recriminazioni e – forse – nostalgie – che questo comporta.

Un lavoro che evoca un clima uggioso, da ascoltarsi magari sorseggiando un tè per confortarsi; disco dall’esito felice, che lascia l’augurio di un seguito.

TAVECCHIO

Considerazioni sparse rispetto all’ultimo ‘caso’ riguardante il ‘capo’ del calcio italiano, ancora una volta vittima delle sue improvvide dichiarazioni: dopo i calciatori africani, è stata la volta di ebrei ed omosessuali.
1) QUESTIONE CULTURALE

Si può fare dichiarazioni razziste od omofobe, pur non ‘sentendosi’ razzisti ed omofobi? Probabilmente, si; mi spiego: la questione è culturale, soprattutto dell’ambiente in cui si è cresciuti. Tavecchio è razzista e non sa di esserlo, probabilmente… Le sue dichiarazioni ci parlano di una persona che a cuor leggero, se ne esce con certe battute, tanto poi, come lui stesso ha spiegato, ha portato avanti opere di beneficenza per l’Africa o ha appoggiato Israele in sede internazionale; nelle sue dichiarazioni sui gay, lui dice in sintesi, ‘nulla contro di loro, ma mi stiano lontani’.
Insomma: Tavecchio sembrerebbe non essere un razzista – nazista che punta all’obliterazioni di africani, omosessuali, o ebrei… Il suo è quello che potrebbe definirsi un ‘razzismo – paternalismo’, che vede le categorie di cui sopra come inferiori, malate o semplicemente caratterizzate da comportamenti ‘censurabili’ (quando parla di ‘ebreacci’). Insomma, gli africani ‘mangiano le banane’ perché sono sottosviluppati, dai gay ‘bisogna tenersi lontani’, etc… E’ un razzismo che deriva da una certa cultura ‘provinciale’, tipica di quelle comunità locali che vivono in modo ‘autosufficiente’, poco acculturate, poco avvezze all’incontro – e alla comprensione – di tutto ciò che in qualche modo ‘esula’ da una presunta ‘norma’.
Sono sicuro che Tavecchio quando dice certe cose è in perfetta buona fede: lui non si rende conto della gravità di quello che dice, perché sostanzialmente non pensa di essere un razzista: secondo il suo modo di vedere, probabilmente (le mie sono solo congetture), è perfettamente lecito considerare gli africani inferiori o i gay ‘anormali’, non è razzismo…
2) LA QUESTIONE DELL’INCARICO

Lasciamo per un attimo Tavecchio alle sue convinzioni: il problema non è ‘Tavecchio’ in sè… Il problema è che Tavecchio è arrivato a coprire una posizione del genere: ognuno alla fine può avere le sue convinzioni, per quanto sbagliate, fin quando non nuoce al prossimo. Il problema, è del tutto evidente, è che questa persona non può coprire il massimo ruolo di dirigente del calcio italiano: le sue dichiarazioni lo rendono del tutto inadatto al ruolo, fosse anche solo per la mera questione dell’immagine del calcio italiano all’estero, questione che altrimenti sarebbe ‘di secondo piano’, ma che nel mondo iperconnesso di oggi assume un ruolo predominante.
Ora il problema è anche un altro: in qualsiasi altra Nazione del Mondo, Tavecchio sarebbe stato fatto accomodare fuori dalla porta fin dalle dichiarazioni sui calciatori africani ‘che mangiano le banane’; qui, niente di tutto questo: un polverone estivo, e chi s’è visto s’è visto.
A questo punto, il danno è già stato fatto: non ci si può lamentare ora, quando già in precedenza a Tavecchio è stata fatta passar liscia; come minimo, si può pensare che avendola sfangata una volta, Tavecchio si senta autorizzato a parlare a ruota libera; oppure, peggio, Tavecchio sa benissimo di essere un intoccabile e di poter aprire la bocca e dire tutto quello che gli passa per la testa… Insomma: se per il ruolo del massimo esponente del calcio italiano non ci sono alternative a Tavecchio, siamo veramente messi male…

3) PERO’, LE INTERCETTAZIONI…

E’ del tutto evidente che in questa occasione c’è comunque un lato obbiettivamente inaccettabile: che la registrazione di una conversazione privata finisca su un sito Internet, mi pare sia un filo aberrante… Potremmo stare qui a parlare per ore dell’opportunità, dei rilievi penali, etc… Il pubblico ha diritto di sapere? Certo, per carità… ma ormai, diciamocela tutta, chi fosse Tavecchio già lo si era capito: non ci vuole un genio per immaginare che uno che fa certe uscite contro gli africani, abbia analoghi modi di pensare nei confronti di gay, ebrei, probabilmente anche rom e via dicendo… La pubblicazione di quell’intercettazione appare a dire il vero discretamente inutile… Non siamo di fronte a una persona riconosciuta unanimente come benemerita di cui improvvisamente si scopre un lato ‘oscuro’ (a quel punto, per quanto discutibile, la pubblicazione dell’intercettazione sarebbe stata in un certo modo ‘comprensibile’), siamo di fronte a una persona di cui erano già riconosciute alcune caratteristiche…
4) CERTO CHE PURE LUI…

Il fatto è che Tavecchio non sembra aver capito una cosa: se sei un personaggio pubblico, soprattutto se hai il ruolo che hai, all’interno dell’organizzazione del calcio, e soprattutto in Italia, devi evitare… Già t’è successo una volta, insisti? Il fatto di aver detto certe cose in privato non è nemmeno una scusante: in tempi di social network, comunicazione esasperata e quant’altro, sai benissimo (o dovresti saperlo) che anche una telefonata può comprometterti. Insomma, se copri un certo ruolo certe cose ti puoi permettere di pensarle, meno che mai di dirle, non solo in occasioni pubbliche, ma nemmeno al telefono…
Si può dire che Tavecchio non sia stato nemmeno tanto furbo, forse non rendendosi conto di cosa siano oggi la Rete e la comunicazione; oltre a dire certe cose ‘a cuor leggero’ (per i motivi che ho scritto sopra) non si cura nemmeno delle occasioni in cui le dice… Apre bocca e parla a ruota libera senza capire il mondo in cui viviamo.

5) CONCLUSIONE

Alla fine quindi, Tavecchio sembra inadeguato al ruolo non solo per quello che dice e che probabilmente pensa, ma anche perché non si rende conto del fatto che al giorno d’oggi, se hai un certo incarico, anche se certe cose le pensi, non ti puoi permetterle di dirle, mai o quasi; non in pubblico, non quando c’è di mezzo uno strumento di comunicazione elettronica… Puoi dirle solo in privato, ‘de visu’ a persone di cui ti fidi. Insomma anche se sei razzista, abbi l’accortezza di non farlo capire.

La conclusione finale, però, è un’altra: alla fine il problema non è nemmeno Tavecchio; al mondo il razzismo e l’ignoranza ci sono stati, ci sono e sempre ci saranno; il problema è come e per ‘merito’ di chi Tavecchio sia finito lì; ci sono persone che hanno eletto Tavecchio a quella carica; persone che probabilmente già lo conoscevano, e sapevano che sarebbe potuto cadere in certe situazioni… ciò nonostante, lo hanno comunque nominato.

Quindi, ancora peggio di Tavecchio, sono quelli che l’hanno messo dov’è.

ROMA, IN SINTESI

Commissario Tronca: non eletto, nominato dal

Prefetto Gabrielli: non eletto, nominato  dal

Presidente del Consiglio Renzi: non eletto.

Qualcuno ha detto

DEMOCRAZIA?

TURI MANGANO ORCHESTRA, “NATURALE” EP (TU.MA RECORDS)

2011: la cantautrice Rosa Mangano vince un contest organizzato dal portale musicale PopOn; trai redattori, il poeta e autore Marco Annichiarico; nei due anni successivi, i due avviano una collaborazione musicale, coinvolgendo nel progetto tre giovani studenti del Conservatorio di Messina, che nel frattempo sono già attivi nel sottobosco musicale siciliano.

“Naturale” rappresenta quindi il primo passo importante compiuto dalla band: sette brani, poco meno di mezz’ora di durata, che per certi versi possono stupire.

A pensarci, un poeta, una cantautrice e tra studenti del Conservatorio: uno magari si aspetterebbe un disco dalla marcata impronta cantautorale, dai colori magari anche accesi, ma dai toni comunque tenui… un disco ‘composto’, ‘educato’, si potrebbe dire.

La Turi Mangano Orchestra invece non si risparmia quanto a vigore: muri sonori, elettricità vibrante, una costante ruvidità di suoni, che rimanda alla felice stagione dell’indie rock italiano degli anni ’90: a fare da contraltare, la vocalità – stavolta si dai toni dolci e sommessi – della cantante; un mix di delicatezza e aggressività che per certi versi potrebbe riportare alla memoria i primi Scisma.

Un lavoro nel segno di una scrittura che prevedibilmente risente dell’attività poetica dell’autore; il titolo del disco, così come quelli di alcuni brani (‘Geco’, ‘Pesci’) evocano un ritorno al contatto con la natura, il bisogno, forse, di meno ‘filtri’ e maggiore immediatezza; spazio anche per una parentesi sentimentale e per un omaggio a Lou Reed, nella forma di un testo composto coi titoli delle sue canzoni.

Il primo passo è stato compiuto, in maniera decisa e con un certo carattere: non resta che attendere il possibile proseguimento del cammino.

JOSEPH MARTONE AND THE TRAVELLING SOULS, “GLOWING IN THE DARK” EP (AUTOPRODOTTO)

Joseph Martone e i suoi Travelling Souls hanno cominciato il loro viaggio ormai otto anni fa, saltando da una parte e dall’altra dell’oceano, giungendo nel 2013 all’importante traguardo del primo lavoro sulla lunga distanza e segnando oggi una nuova tappa discografica del loro cammino.

Una breve sosta, potrebbe dirsi, dato che si tratta di cinque brani, una ventina di minuti la durata complessiva.

Una salda radice folk, variamente declinata: la grande tradizione americana di Dylan, Waits & co. magari quella più volta a tinte crepuscolari; le tendenze più recenti – complice l’utilizzo di archi e fiati – con risultati che possono far venire in mente esperienze come quelle di Owen Pallett e di Beirut; volando di qua dall’oceano, un omaggio alla tradizione napoletana – a Napoli il disco è stato tra l’altro registrato, e italiana è una buona metà di coloro che vi hanno suonato – e per finire una vaga e ricorrente tinteggiatura southern.

Un disco che insomma pur nella sua brevità, offre una certa varietà di stili ed atmosfere, che rendono l’ascolto ‘sveglio’ e discretamente dinamico, in attesa di un nuovo capitolo sulla lunga distanza.