Archive for giugno 2014

OCEANS ON THE MOON, “TIDAL SONGS” (NEW MODEL LABEL)

La collaborazione tra Andrea Leone e Marco Martini dura ormai da oltre un decennio, avendo attraversato varie inclinazioni sonore fino a giungere, oggi all’attuale forma, nel progetto Oceans On The Moon, del quale (dopo un primo EP), questo è il primo disco sulla lunga distanza.

Otto tracce che superano ampiamente la mezz’ora di durata, per un lavoro dominato dall’elettronica, variamente declinata: la preferenza appare andare verso dilatazioni e rarefazioni dai contorni ‘spaziali’, a ricordare magari certi band come Explosions In The Sky, pur senza mai raggiungerne gli esiti più aggressivi: dominano infatti climi calmi, compassati, spesso disegnati dalle melodie essenziali tessute dal piano, arricchito da beats ed effetti vari e contornato da una sezione ritmica mai invasivi.

In parallelo, si percorrono sentieri più ‘agevoli’, per quanto possa definirsi agevole seguire, soprattutto negli episodi in cui alla strumentazione si aggiunge il cantato, l’esempio dei Radiohead, mentre il duo non inserisce qua e là allusioni ne wave, o parentesi più movimentate, a dare maggiore dinamismo al tutto, o qualche spezia sperimentale in salsa tedesca.

Il risultato finale è un disco che si lascia apprezzare, pur senza essere raggiungere arditi picchi di originalità, ma comunque traducendo con una certa personalità i propri modelli di riferimento.

 

NO HERO

FUORI

Scopo del gioco del calcio  è mettere la palla nella rete avversaria, evitando allo stesso tempo che l’avversario infili la palla nella tua rete.

La Nazionale italiana non si è mostrata in grado di riuscire a fare né la prima cosa – due reti segnate in tre partite – né la seconda, subendo tre reti in tre partite. Eliminazione matematicamente ineccepibile.

Ovviamente nemmeno io pensavo andasse così male, ma se non tiri in porta, non segni. Facendo i quattro punti che io avevo pronosticato, l’Italia si sarebbe qualificata: non si è riusciti a raggiungere nemmeno questo, a dire il vero abbastanza mediocre, obbiettivo.

L’Italia esce dal Mondiale al primo turno per la seconda volta consecutiva: per trovare analogo risultato bisogna risalire al 1962 – ’66: il calcio italiano sembra dunque tornato indietro di mezzo secolo.

Le avvisaglie c’erano tutte: facile fare la figura degli uccelli del malaugurio, ma io ero trai tanti a sostenere che affidare le sorti della Nazionale a Balotelli sarebbe stato un errore. Appunto; piccolo inciso: la Nazionale, nell’amichevole pre-mondiale con la Fluminense, schierando in avanti il tridente Cerci – Immobile – Insigne ha segnato cinque gol, come non accadeva da tempo; ciò avrebbe dovuto suggerire qualcosa a ‘qualcuno’… così non è stato…

Il ‘qualcuno’, naturalmente è Cesare Prandelli, che se ne torna a casa col suo calcio farraginoso, improduttivo, improntato ad unico e solo terminale offensivo, la quasi totale inaffidabilità del quale non la si scopre certo oggi. Tanti saluti a Prandelli ed al suo ‘codice etico’, e forse è una giusta legge del contrappasso, che nella partita che sancisce il suo fallimento, Prandelli abbia dovuto assistere ad uno dei suoi ‘protetti’ (quelli per il quale il ‘codice etico’ non vale) preso letteralmente a morsi da un avversario.

Assieme a Prandelli – gaudio e giubilo!!! – se ne va pure il Presidente della Federazione Abete, che per conto mio avrebbe dovuto liberare il posto già quattro anni fa, dopo il fallimento della scelta demenziale di richiamare Lippi…

Adesso speriamo in una nuova dirigenza e in un tecnico che sfrutti adeguatamente il materiale a disposizione: ce n’era – e tanto – anche trai convocati, solo che non si è stati in grado di usarlo efficientemente; il Mondiale se non altro ci ha fatto ‘scoprire’ Darmian e ci ha confermato il livello di Verratti; assieme a loro, i nomi sono tanti: Insigne, Immobile, Cerci, ma anche i non convocati Rossi, Florenzi, Destro, assieme a qualche ‘senatore’ ancora in grado di dare un contributo: Buffon finché gli andrà, De Rossi, Montolivo quando si riprenderà.  Il problema di fondo resta la scarsità di difensori, ma appunto per questo, allora è il caso di mettere su una Nazionale che sia in grado innanzitutto di segnare.

Speriamo che questo Mondiale insegni qualcosa: squadre come l’Olanda, la Francia, il Costarica, il Messico, la Germania e via discorrendo stanno lì ad insegnare, o meglio a ricordare una cosa: che nel calcio è importante, soprattutto, segnare. L’Italia non solo non ha segnato, ha pure tirato poco in porta, e questo è stato il  risultato.

Un’ultima considerazione: proprio nel giorno in cui l’Italia ha giocato il match decisivo del proprio Mondiale, in un’ospedale di Roma c’è un uomo in fin di vita per il solo fatto di essere andato a vedere una partita di calcio: la coincidenza dà da pensare, e porta a chiedersi se davvero un Paese dove il calcio porti anche  a questo meritasse di andare avanti…

CECCO E CIPO, “LO GNOMO E LO GNU” (LABELLA / AUDIOGLOBE)

Con un nome da duo comico e un titolo che sembra quello di una favola surreale, Cecco e Cipo, alias Simone Ceccanti e Stefano Cipollini, sono probabilmente i primi a non prendersi sul serio… del resto, il loro esordio era intitolato “Roba da maiali”, fate voi…

Eppure, avviato il lettore, si scopre come spesso e volentieri il non prendersi troppo sul serio sia il primo passo verso il raggiungimento dell’obbiettivo: gli undici pezzi che compongono il disco sono un ottimo esempio di pop cantautorale, leggero, scanzonato, disincantato; spesso sul limite del nonsense, all’insegna di una tinta vagamente surreale, continuamente all’insegna di un susseguirsi di pensieri, di riflessioni sparse.

Dediche sentimentali, uno sguardo sulla realtà ironico e disincantato che non si esprime però mai direttamente, utilizzando ad esempio domande che restano sospese nell’aria; un ricorrere spesso ai ricordi d’infanzia, che si tratti degli album di figurine,  o delle celebri caramelle zigulì…

Ritmi da filastrocca o cantilena infantile, accenni funk, parentesi elettropop, momenti country in un disco dominato da voce e chitarra acustica, cui si aggiungono di volta in volta piano e synth, archi, fiati, ad opera dei collaboratori stabili dei due o dei numerosi ospiti presenti, trai quali Lodo Guenzi de Lo Stato sociale.

Un disco fresco e dolcemente malinconico, come certi pomeriggi d’estate.

 

GLI ETRUSCHI E IL MEDITERRANEO

LA CITTA’ DI CERVETERI

ROMA, PALAZZO DELLE ESPOSIZIONI, FINO AL 20 LUGLIO

Il titolo dice più o meno tutto: nonostante da tempo quello sugli ‘Etruschi, popolo misterioso’ sia divenuto un luogo comune e nonostante le tante scoperte compiute negli ultimi 30 – 40 anni, il loro essere – temporalmente e geograficamente – ‘incassati’ tra la Grecia  e Roma li rende ancora oggi una civiltà sfuggente; eppure gli Etruschi non sono durati poco, anzi: una bella manciata di secoli a dire il vero, nel corso dei quali hanno assunto un ruolo centrale, appunto nei commerci sul Mediterraneo.

La mostra in questione intende proprio dare risalto a questo ruolo, in particolare concentrandosi con gli stretti rapporti che si instaurarono tra civiltà etrusca e greca, concentrandosi in particolare su Cerveteri, della quale viene raccontato lo sviluppo, dai primi insediamenti fino all’occupazione  e incorporazione da parte di Roma.

La mostra si snoda attraverso un campionario di reperti abbastanza canonico: terrecotte, anfore, monili e soprattutto, i reperti ritrovati nei sepolcri della celebre necropoli, con il Sarcofago degli Sposi a fare da pezzo forte dell’intera esposizione.

Per coloro cui piace il ‘genere’, l’esposizione offre senz’altro spunti d’interesse, anche se personalmente vi ho trovato alcuni limiti: il primo è che si tratta, se vogliamo di un’esposizione da livello un filo ‘avanzato’: chi si aspetta un classico ‘giro d’orizzonte’ sulla civiltà etrusca, per intenderci in stile Alberto Angela, con usi, costumi, abitudini alimentari, e via discorrendo, resterà deluso; la mostra in questione più che osservare il quotidiano degli etruschi è più concentrata sul loro ruolo storico – economico nel bacino del Mediterraneo.

Il secondo limite è, se vogliamo, ‘di location’: ha senso organizzare una mostra dedicata agli etruschi in una città dove c’è uno dei musei più importanti a loro dedicati, quello di Villa Giulia? Soprattutto: ha senso organizzare una mostra su Cerveteri a Roma, dalla quale la località può essere facilmente raggiunta in macchina o in treno? Vista così, la mostra assume i contorni di una sorta di ‘invito’ ad approfondire, recandosi sul posto… quasi una sorta di evento promozionale, in fondo.

I GIORNI DELL’ASSENZIO, “IMMACOLATA SOLITUDINE” (RIDENS RECORDS)

A volte nel recensire un disco si è in difficoltà: avviene  (di rado) di fronte a lavori particolarmente belli, sentendosi inadeguati a comunicarne la validità; oppure di fronte a dischi particolarmente brutti (più spesso), quando comunque nonostante tutto c’è da rispettarne il valore, nel loro essere il prodotto, pur se scadente, di un lavoro alle spalle; e poi ci sono i casi particolari: ad esempio, ritrovarsi appena superata la quarantina, davanti ad una band, a pensare che, cavolo, questi potrebbero essere i propri  figli … ecco, se si pensa questo è la fine, perché ogni obbiettività va a farsi friggere, davanti a quel filo di tenerezza che viene a trovarsi di fronte a un gruppo di giovani virgulti alle prime pagine della loro storia musicale.

E’ quello che succede di fronte a  I Giorni dell’Assenzio: sono in tre  (due maschi e una ragazza), e vengono dalla classica ‘provincia musicale’ – in questo caso, Chieti (Abruzzo) – dove spesso la musica diventa l’unica via di fuga ed evasione ad una quotidianità un filo monotona;  i tre hanno bruciato le tappe, facendosi il mazzo nella regione di appartenenza e arrivando rapidamente a farsi notare, aprendo i concerti di band come Tre Allegri Ragazzi Morti o Gazebo Penguins, fino a dare una prima forma fisica alla loro musica in questo disco di esordio.

Tenerezze anagrafiche a parte, I Giorni dell’Assenzio ci sanno fare: hanno tutta la rabbia, l’attitudine – e per certi versi, l’ingenuità – dei gruppi all’esordio, mossi da un’urgenza comunicativa che si dipana in testi che sono un continuo affastellarsi di metafore, similitudini, allegorie, stralci di flusso di coscienza, riflessioni dal sapore diaristico, tra ira contro il mondo, voglia di esprimere sé stessi, sentendosi magari ingabbiati in un contesto del quale non ci si sente parte, con spazio naturalmente ai sogni, ai sentimenti, agli affetti intesi anche come via di fuga o di riparo da un mondo che si sente più che altro come ostile. Il tipico campionario che si ritrova nei giovani gruppi agli esordi insomma, sebbene espresso con una scrittura che sembra comunque essere partita col piede giusto, alla ricerca di soluzioni non troppo banali.

La medesima urgenza espressiva la si ritrova nei suoni: un rock urticante di stampo alternativo, memore dei gloriosi anni ’90 e successivi sviluppi, talvolta colorato di accenti stoner; chitarre pesanti e sezione ritmica arrembante, un cantano in cui si affiancano e si alternano le voci di Mattia de Iure (anche alle chitarre) e Tania Gianni (che imbraccia il basso), con Mauro Bucci, silente, a martellare la batteria. Un disco tirato: otto pezzi per poco più di mezz’ora di durata, per lo più volto al muro sonoro, ma capace di trovare qualche momento di quiete, o pezzi che sembrano flirtare con una maggiore ‘condiscendenza pop’, pur senza mai abbandonare del tutto il saldo ancoraggio all’aggressione sonore.

Giovani arrabbiati, certo, ma che mostrano discrete potenzialità: al netto dei limiti classici di ogni esordio, caratterizzato più dall’immediatezza che non dalla necessità di focalizzare il proprio stile, I Giorni dell’Assenzio imbroccano l’esordio, lasciando la curiosità per gli sviluppi futuri.

 

GRAY, “SESSANTANOVEINCERCHIO” (NEW MODEL LABEL)

Fare del ‘rock’ – senza prefissi o suffissi – in Italia è una faccenda decisamente complicata; anzi,  un mestiere decisamente ingrato: se magari stai una band, te la puoi anche cavare (oddio, dipende); se sei solo, è un’altra faccenda… il motivo credo sia facilmente intuibile: pensate alla parola ‘rocker’… fatto? Bene, adesso pensate a cosa evochi il termine in Italia… non è difficile… fatto? Ok, se avete pensato a due-nomi-due, avrete anche capito perché fare rock in Italia sia improbo… non se ne esce: se non sei ‘quello di Zocca’ , o ‘quello che si chiama come il pittore’, e vuoi fare rock qui da noi, tanti auguri e buona fortuna…

Non se ne esce: è come se da noi si dicesse: beh, ma dopo tutto, due ‘rocker’ bastano, che altro volete? E’ un po’ lo stesso discorso dei gruppi: “ma insomma, abbiamo ‘quelli che hanno fatto la cover di Modugno che adesso ci deve massacrare gli zebedei ad ogni partita della Nazionale’, non vi basta? Evidentemente no: non basta al sistema discografico-radio-televisivo che, poche eccezioni a parte, ha deciso che in Italia il ‘rock’ lo possono fare solo ‘quello di Zocca’, ‘il pittore’, e quelli ‘col nome del vino’.

Tanti saluti a tutti gli altri…  trai quali, Gray, all’anagrafe Graziano Renda: mai sentito nominare? Fosse magari uno nuovo… il problema è che il rocker calabrese gira da oltre un quarto di secolo, una carriera portata avanti cercando di continuare a calcare i palchi, una biografia discografica frammentaria come tutte quelle fondate più sulla passione che sul successo.

Si arriva così a “Sessantanoveincerchio”, nuova fatica del nostro, disco dalla lunga gestazione, assemblato di qua e di là dall’oceano, in quella Portland (Oregon), che ormai da anni è diventato uno dei centri di gravità permanente del mondo musicale italiano e non solo. Undici brani,  in cui l’autore conferma la scelta per la lingua italiana,  ma soprattutto undici brani di ‘rock’: di quello che per una volta tanto non ha bisogno di suffissi, non necessita di tirare in ballo suggestioni, contaminazione, derive e quant’altro. Nulla di tutto questo: voce e chitarra, con contorno di basso e batteria: Gray al timone, contornato da un agguerrito gruppo di collaboratori.

Rock. Immediato e viscerale: chitarre arrembanti che fanno da contorno ad un cantato in bilico tra rabbia e sofferenza, diretto, mai accondiscendente: arrabbiato col mondo e dolente per i sentimenti, o viceversa, in cui si fa spazio anche qualche ballatona dal mood più malinconico, un disco che guarda con un filo di cinismo la realtà circostante, e che trova il tempo anche per riflettere sulla realtà e le aspirazioni del mestiere di rocker.

Un disco che – come dichiarato nello stesso booklet – ancor prima che suonato e prodotto è stato Desiderato e Voluto: Volontà e Desiderio: ciò che sopra ogni cosa, è necessario per fare rock in Italia, oggi.

 

 

AA.VV. “VOCI PER LA LIBERTA'” (MEI – ASSOCIAZIONE CULTURALE VOCI PER LA LIBERTA’)

16° FESTIVAL MUSICALE NAZIONALE DAL VIVO – UNA CANZONE PER AMNESTY

Ormai quello che con “Voci per la Libertà” è diventato un appuntamento fisso, che unisce impegno – con la premiazione dei migliori italiani dedicati ai diritti umani – alla musica indipendente italiana, puntando alla scoperta di nuovi talenti.

L’edizione 2014 di Voci per la Libertà si terrà dal 17 al 20 luglio prossimi nella consueta location di Rosolina Mare: in quell’occasione verranno assegnati i vari premi Amnesty, a partire dal principale, che quest’anno verrà assegnato a Francesco e Max Gazzè per il brano ‘Atto di Forza’.

Nell’attesa, ecco uscire puntualmente la compilation dedicata ai vincitori e finalisti dell’edizione dell’anno precedente; la struttura della selezione non cambia: il brano vincitore dell’edizione 2013, ‘Gerardo nuvola ‘e povere’ di Enzo Avitabile e Francesco Guccini, dedicato alle morti sul lavoro, affianca gli esordienti, cinque, ognuno con due brani e i contributi di alcuni illustri ospiti. Il piatto è vario: si va dal cantato dagli accenti dialettali di Leo Miglioranza (oltre che dello stesso Avitabile), alle suggestioni dei Syncage, che sembrano arrivati direttamente dalla felice stagione del folk britannico dagli accenti prog degli anni ’60 e ’70; dal cantautorato classico di Andrea Dodicianni all’eleganza jazz degli Shapes of  Sound, fino ai Durden and The Catering, tra pop – rock venato di funk e una ballata dai risvolti ludici.

Completano il disco le partecipazioni di tre grossi calibri della scena ‘indie’: italiana: Marta sui Tubi, Paolo Benvegnù e Mario Venuti, la cui ‘Addio alle armi’ è trai brani che più si fanno ricordare nell’intero lotto.

Le tematiche toccano trasversalmente i vari aspetti dei diritti umani nei tempi attuali: dalle morti sul lavoro ai bambini soldato, dalla violenza delle ‘forze dell’ordine’ all’emigrazione, per una compilation che rinnova come al solito il connubio tra impegno e musica di qualità.

 

DAGOMAGO, “EVVIVA LA DERIVA” (VINA RECORDS)

Sono tre, arrivano dal Piemonte (Biella e Torino) e si presentano con questo esordio, con tutta l’energia, la rabbia e l’incoscienza di un gruppo alle prime armi. Un disco dal titolo ironico e un filo cinico, che inneggia alla ‘deriva’ cui, tra crisi economica ed esistenziale sembra sia essersi allegramente abbandonata la società, in cui vengono messe alla berlina modi e abitudini, tra domeniche annoiate passate nei centri commerciali e le notti insonni passate ad ammazzare il tempo nelle grandi città; dal mondo del lavoro che propone apprendistati che diventano eterni, ai rapporti sentimentali ed interpersonali; dai commercialisti, assurti ad indovini ed aruspici, all’onnipresenza invasiva di calcio e televisione… Un mondo guardato con un occhio disincantato, amaro e a tratti quasi annoiato, nel quale si cercano oasi di serenità nel calore dei sentimenti.

I fratellli Buranello a voce, chitarra batteria e varie percussioni, assieme ad Andrea Pizzato, ad occuparsi del lato tastieristico / sintetico della questione, per un disco che ondeggia continuamente tra un’abrasa visceralità elettrica ed un’elettronica sorniona, a tratti ammiccante, per undici brani sospesi tra rock e pop entrambi virati verso l’indie-rock, che a tratti ricordano band come i Velvet. Un pizzico di new wave, qualche stridore, appena accennato, per un lavoro che certo, punta a piacere, ma senza cadere nelle secche della ‘facilità’.

Alti e bassi, come in ogni esordio: episodi più riusciti, altri molto meno, parentesi coinvolgenti affiancate a segmenti un filo noiosi e ripetitivi, ma nel complesso comunque un lavoro equilibrato, che anche grazie alla sua brevità (poco più di mezz’ora) riesce a non stancare. La band piemontese appare avere le carte in regola per proseguire efficacemente la strada: correggendo il tiro, anche e soprattutto grazie all’esperienza, ne potremo probabilmente sentire riparlare.

 

 

MONDIALI IN ARRIVO

Beh, insomma, quasi ci siamo: da domani partirà una mesata in cui non si parlerà d’altro che di calcio (nel frattempo il mio televisore si è scassato…); si parlerà di calcio per la gioia dei pallonari e magari di Matteo Renzi & soci, che nel disinteresse generale potranno far passare di sottecchi qualche provvedimento poco gradito all’opinione pubblica… si parlerà solo di calcio anche per la ‘gioia’ di chi il calcio non lo sopporta… per tutti, facciamo un po’ d’ordine.

 

IL MONDIALE LO VINCIAMO NOI…

I Campionati partono con una sola, grande favorita: il Brasile gioca in casa, può contare su una rosa di prim’ordine e dovrà portare a termine la ‘sacra missione’ di vendicare l’onta subita 64 anni fa, quando il Mondiale in Brasile lo vinse l’Uruguay; due le controindicazioni: la possibilità che la troppa attesa e l’essere obbligati a vincere giochi qualche brutto scherzo ai campioni brasiliani, e la proverbiale insofferenza tattica di giocatori che, spesso costretti a limitare il proprio estro nelle formazioni europee in cui giocano, quando sono in nazionale puntano al divertimento e talvolta ad un cazzeggio un tantino supponente, che spesso gli ha giocato brutti scherzi.

A rompere le uova nel paniere ai padroni di casa ci proveranno i cugini argentini, guidati da un Messi che, rimasto a bocca asciutta nel Barcellona, punta finalmente a dare la propria impronta alla Nazionale e la Spagna, che punta ad una stratosferico poker Europeo – Mondiale – Europeo – Mondiale. Il gruppo delle pretendenti potrebbe essere completato dalla Germania, a patto che oltre alle indubbie capacità tecniche, mostri finalmente una solidità psicologica, spesso e volentieri venuta a mancare nei momenti topici degli ultimi anni (specie contro l’Italia).

 

NON SUCCEDE, MA SE SUCCEDE…

Il Mondiale è sempre stato vinto da una delle favorite della vigilia: tuttavia per la legge dei grandi numeri prima o poi dovrebbe arrivare una sorpresa; candidate a poter arrivare fino in fondo, o almeno a conquistarsi un posto tra le prime quattro, magari grazie ad incroci favorevoli negli ottavi e nei quarti possono essere: il Portogallo, nonostante un Cristiano Ronaldo un po’ acciaccato; l’Uruguay, già quarto quattro anni fa; il Belgio, che dopo anni di oblio sembra aver trovato una nuova generazione di campioni; la Svizzera, che ha giocato un girone eliminatorio di prim’ordine; a questo gruppo si potrebbe aggiungere la Colombia, se non fosse che nelle ultime settimane è stata falcidiata dagli infortuni, che l’hanno privata di alcuni dei suoi migliori giocatori.

 

…VEDIAMO CHE SUCCEDE…

Ci sono poi quelle formazioni che per un verso o per un altro non possono essere ignorate, ma le cui prospettive appaiono un tantino nebulose: l’Olanda sembra aver avuto la grande occasione quattro anni fa, arrivando in finale con la Spagna e stavolta non sembrerebbe in grado di ripetere l’impresa; la Francia è ampiamente rinnovata, all’inizio di quello che sembra un progetto destinato a produrre risultati sul più lungo termine; l’Inghilterra è la solita squadra che si cita sempre, ma su cui nessuno giocherebbe un euro.

 

LE SORPRESE

Personalmente terrei d’occhio la Bosnia-Erzegovina: una nazione che ha più o meno gli abitanti di Roma, con una storia drammatica e complicata, che arriva al Mondiale all’indomani di alluvioni che hanno ulteriormente fiaccato un sistema economico già precario…  insomma, la nazionale ha un’occasione storica per poter contribuire a rasserenare  e pacificare gli animi; oltretutto, può contare su giocatori di primo livello (Dzeko, Pjanic, Lulic)… il suo girone peraltro non appare complicato  (Argentina a parte, Iran e Nigeria sono avversari non proibitivi). Guardo con attenzione e simpatia al Giappone (che per la mia generazione è sempre sinonimo di “Arrivano i Superboys” e “Holly e Benji”), allenato dall’italiano Zaccheroni, che potrebbe non sfigurare. Il calcio africano è l’eterna promessa del futuro del pallone, ma finora ha mantenuto poco:  qualcosa potrebbe dirla la Costa d’Avorio di Drogba e Gervinho, (nel girone con la menomata Colombia, la Grecia e proprio il Giappone), ma butterei un occhio anche all’Algeria, anche se passare il turno alle spese di due  tra Belgio, Russia e Corea del Sud appare abbastanza improbabile.

 

NOI

L’Italia – ne ho già parlato qualche post addietro – ha limiti di gioco e caratteriali; abbiamo vinto dopo mesi quando – guarda caso – Balotelli non ha giocato (e questo dovrebbe dire qualcosa); siamo nel girone più ostico, con l’Inghilterra che sembra fin troppo snobbata e  con l’Uruguay di Cavani e soci che desta più di una preoccupazione;  per finire, la Costarica. Prevedo una vittoria, un pareggio e una sconfitta: quattro punti potrebbero non bastare per approdare agli ottavi; secondo me sarebbe già un successo superare il girone; tutto ciò che verrebbe dopo, visto anche il materiale a disposizione, è più che benvenuto.