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THE SPELL OF DUCKS, “CI VEDIAMO A CASA” (AUTOPRODOTTO / LIBELLULA MUSIC)

La ‘banda’ degli Spell Of Ducks torna a un annetto di distanza dall’EP di esordio con un lavoro sulla lunga distanza, segnato dalla scelta di scrivere in italiano, accantonando l’inglese del primo lavoro.

La novità non può che portare importanti conseguenze sul fronte stilistico: la lingua ‘di casa’ accentua la componente cantautorale della band, con la parte cantata che tende a conquistare maggiori spazi.

Certo, trattandosi di un gruppo di sei elementi, resta quell’indole un po’ da ‘festa di paese’, rimarcata dall’uso del banjo e del violino, ma la lentezza, gli spazi in cui si fanno strada la nostalgia, a volte il rimpianto si ampliano. Amori finiti, omaggi a chi non c’è più, esortazioni ad uscire dall’immobilismo e le difficoltà di chi dall’immobilismo è costretto a uscire per necessità.

Il nuovo folk di band come Mumford & Sons e qualche citazione del Morricone western, fanno da sfondo a un disco che segna un passo deciso verso una maggiore maturità di scrittura, lasciando però l’impressione di potenzialità del variegato insieme strumentale non sfruttate pienamente.

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THE SPELL OF DUCKS, “SOUP” EP (AUTOPRODOTTO / LIBELLULA MUSIC)

Un paio di singoli all’attivo, assieme a varie apparizioni, anche televisive – MTV, Italia’s Got Talent – i The Spell Of Ducks mettono su disco altrimenti sei brani, all’insegna di un folk – rock che guarda oltreoceano.

Il gruppo del resto è strutturato come una sorta di banda da sagra di Paese: sei componenti, strumentazione che comprende banjo e archi, siamo insomma dalle parti di quelle ‘fiere della Contea’ ritratte da innumerevoli film e serie tv.

Il mood tuttavia non è poi così festoso: non mancano i momenti di allegria, ma prevalgono la riflessione, il senso di raccoglimento dato dalla dimensione acustica, con momenti d’intensità quasi dolente.

La formazione torinese offre una buona assaggio delle proprie capacità, in attesa forse di un lavoro piuttosto corposo.

CINQUE UOMINI SULLA CASSA DEL MORTO, “KAIRÒS” (AUTOPRODOTTO / LIBELLULA MUSIC)

Nell’antica Grecia, ‘Kairós’ era un particolare concetto di tempo, legato all’azione, traducibile, alla lontana, come ‘occasione’, ‘opportunità’. Concetto che sembrerebbe adattarsi bene all’idea dell’uscita, di un lavoro – il secondo, per i friulani (di Cividale) Cinque Uomini Sulla Cassa Del Morto – che assume una certa importanza.

Il quintetto ha apportato alcune correzioni alla propria formula, continuando certo a prediligere la strumentazione acustica, legata alla matrice folk, inserendo con parsimonia elementi elettronici, dando vita a un lavoro per lo più orientato a un rock la cui componente acustica riporta a vaghe ascendente country, guardando talvolta a una certa tradizione italiana, anche con qualche allusione prog, pur senza sottovalutare il lato ‘pop’ della questione, senza eccessivi ammiccamenti.

Lavoro che nasce – dichiaratamente – più che mai come disco d’insieme, in cui i cinque componenti hanno forse provato a ‘scavare’ maggiormente nel proprio vissuto, anche a seguito di certe critiche di eccessiva ‘leggerezza’; i temi sono comunque ‘canonici’: frequentemente si va a ‘sbattere’ sui sentimenti e le complicazioni annesse, con qualche parentesi dedicata all’introspezione, allo sguardo al tempo che passa, alle scelte, alle occasioni perse, alle opportunità, e qui si ritorna al titolo del disco.

Un lavoro corposo, che non si risparmia: 13 pezzi per quasi un’ora di durata non sono poi frequentissimi, per un’autoproduzione.

Un lavoro che si lascia ascoltare.

CABOOSE, “HINTERLAND BLUES” (NEW MODEL LABEL)

Esordio sulla lunga distanza (dopo un precedente EP) per gli italo-berlinesi Caboose.

Il titolo dice tutto, o almeno gran parte: il blues al centro, con la sua varietà di umori, ruotati attorno certo a quella tipica malinconia ricorrente, ma sviluppati di volta in volta in modo dolente, o più energico, col passo pesante e il fiato corto con cui si procede nei terreni paludosi o il ritmo incalzante di un treno in corsa.

Non sono più i tempi degli schiavi nelle piantagioni, ma sono tempi di diverse schiavitù e costrizioni, non fisiche (almeno non nel senso originario), ma spesso sociali, a volte ‘morali’; alla tirannia dei campi si sostituisce quella della disoccupazione che costringe spesso le persone a partire; a pratiche di sfruttamento se ne sostituiscono altre, i guadagni volti alla soddisfazione di bisogni ‘indotti’, l’onnipresenza dei social fa sentire fuori posto chi appartiene ad un’altra epoca…

La fuga, allora: reale o solo immaginata, temporanea o senza ritorno (fino all’autodistruzione), forse e soprattutto per conoscere meglio sé stessi…

I Caboose esprimono tutto questo con un disco che, pur fermamente radicato nei suoni di riferimento, cerca continuamente delle variazioni, tra ballate oscure, parentesi country, episodi più ‘virulenti’, l’armonica spesso e volentieri a prendersi la scena, lasciando alle chitarre il compito di dare corpo e solidità.

Non solo per gli amanti del genere.

KEET & MORE, “OVERALLS” (AUTOPRODOTTO / ALOHA DISCHI / LIBELLULA MUSIC)

Dopo essersi fatti le ossa nel circuito dei (pochi) locali capitolini che ancora danno spazio al ‘rock emergente’e aver pubblicato un primo singolo, i Keet & More giungono al traguardo del primo lavoro sulla lunga distanza.

Un salto nell’America profonda, quella delle grandi pianure, degli spazi aperti assolati, delle paludi, tra blue-grass, country e folk, ballate un filo oscure e cori da saloon, suggestioni western e southern rock.

L’aggettivo più calzante è ‘solare’, per undici brani con cui dichiaratamente non si vogliono mandare messaggi o riflettere sui ‘massimi sistemi’, ma che sono ‘solo’ la prova di un trio di amici che si divertono a fare musica assieme, prendendo spunto dal quotidiano e lasciando intatta una sana attitudine ‘cazzeggiona’ con cui maneggiare gli strumenti, tra cui, e non poteva essere altrimenti, armonica, banjo, violini e steel guitar.

Si batte il piede, si scuote la capoccia e tanto basta, perché ogni tanto c’è anche bisogno anche di dischi come questo.

ELLEN RIVER, “LOST SOULS” (NEW MODEL LABEL / AUDIOGLOBE)

Lei si chiama Elena Ortalli, ma ha scelto l’alias di Ellen River, quasi a voler identificarsi con quel ‘fiume’ che è uno dei classici ‘luoghi dell’anima’ della musica popolare americana, dal folk al blues fino ad arrivare al rock.

Tradizione in cui Ellen si è totalmente immersa, avviando un viaggio (o forse una navigazione) che la porta ora al secondo lavoro sulla lunga distanza.

“Lost Souls”, anime perdute: un altro topos dell’epica d’oltreoceano, che evoca locali fumosi o sperdute tavole calde lungo le ‘highways’; esistenze ai margini, solitudini urbane, i rapporti con gli altri, perdite; ma anche la natura come presenza salvatrice.

Elena / Ellen dà vita a otto pezzi intensissimi, radicati nella nobile tradizione del cantautorato d’oltreoceano, in fondo inutile citare i riferimenti, intuibili e scoperti.

La accompagna in questo viaggio una band di prim’ordine: Antonio ‘Rigo’ Righetti, Mel Previte e Roby Pellati calcano la scena rock italiana da un quarto di secolo abbondante, tra i Rocking Chairs e la lunga collaborazione con Ligabue e mettono arte ed esperienza a sostegno della più giovane, ‘Ellen’, idee chiare, sentimenti e spesso grinta per personalità e stile già ben delineati.

STATE LIQUOR STORE, “NIGHTFALL AND AURORA” (LIBELLULA DISCHI)

Nati nel 2013, gli State Liquor Store giungono al traguardo del primo disco sulla lunga distanza dopo varie vicissitudini, tra attività dal vivo, cambi di formazione e la pubblicazione di un EP.

“Nightfall and Aurora” ci porta nei territori di quella che da ormai almeno un decennio è stata battezzata ‘americana’: ovvero la rilettura, attualizzata nei suoni, dell’ampio patrimonio folk / country e popolare d’oltreoceano. Tendenza che ben presto ha varcato i confini americani, come mostrano anche gli State Liquor Store.

Le nove tracce presenti sono dominate dalla presenza piena, corposa, densa delle chitarre, con toni sgargianti e suggestioni assolate, la sezione ritmica a fare da contorno solido sullo sfondo e un cantato vivace, pur senza eccessi, che contribuisce alla grande sensazione di vitalità trasmessa nel corso di tutto il disco.

Come in certa tradizionale letteratura americana, è un disco di storie, pur se solo abbozzate, di emozioni, di personaggi, idealmente incrociati percorrendo gli spazi sconfinati come quello che domina la copertina.

Un rock che trae linfa dalla tradizione, ma non rinuncia a usare riferimenti pi recenti, tra episodi che possono ricordare i primi REM e qualche accento psichedelico, per un lavoro che a tratti assume tinte vagamente oniriche.

Un esordio efficace, per una band che può conquistare.

RIGO, “CASH MACHINE” (NEW MODEL LABEL)

Antonio ‘Rigo’ Righetti calca i palchi italiani da ormai un quarto di secolo: dai Rocking Chairs ai Gang fino ai megaconcerti di Ligabue a Campovolo: ‘una vita da mediano’, citando il rocker di Reggio Emilia: di quelli che hanno messo il proprio mestiere al servizio della ‘squadra’ restando lontano dalla luce dei riflettori.

Ogni tanto però anche chi non ha raggiunto i vertici della fama  ha l’occasione di ‘dire la sua’: ‘Rigo’ lo fa in queste undici tracce, in cui imbraccia l’acustica – e occasionalmente il basso, sua più recente ‘passionaccia’, (cui sono dedicati due strumentali) – dando vita ad un lavoro saldamente nella tradizione rock / blues d’oltreoceano: da Dylan a Waits, da Cash a Springsteen.

Un lavoro profondamente intimo, in cui Righetti parla di sé, del suo amore per la musica fuori da ogni logica commerciale, con omaggi a figure importanti, a cominciare da quella del padre, senza dimenticare l’amore.

Accompagnato da Mel Previte e Roby Pellati, sodali di una vita, con la partecipazione di ‘Don’ Antonio Gramentieri, altra figura di spicco della chitarra italiana, ‘Rigo’ Righetti inanella rock, blues, country, parentesi a tratti ‘esotiche’ con un mandolino che ricorda un ukulele, per un disco in cui, un lembo dei grandi spazi americani si trasfigura in parte nelle nostre grandi pianure: in maniera certo non nuova, ma con grande efficacia.

IL COLLE, “DALLA PARTE DELLO SCEMO” (AUTOPRODOTTO / LIBELLULA DISCHI)

“Ci siamo seduti dalla parte del torto, perché tutti gli altri posti erano occupati”, disse una volta Bertold Brecht; ai tempi di Internet e dei social network, in cui torti e ragioni si mescolano in un calderone spesso indistinto, l’unico posto disponibile è quello riservato allo ‘scemo’, a chi si sottrae al ‘dominio della tecnica’ per continuare affidarsi alla passione, all’autenticità e all’immediatezza dei rapporti umani.

Il Colle parte da qui e dalla provincia fiorentina, dove circa cinque anni fa si forma il nucleo di una band che col tempo è diventata quasi una ‘banda’: sette gli elementi che hanno partecipato alla realizzazione del disco d’esordio.
Non che “Dalla parte dello scemo” sia una lavoro di denuncia dei guasti prodotti dall’imperante presenza dei ‘social’ e di Internet, anzi: qui non se ne parla proprio; l’arma migliore, negli undici brani presenti, è proprio ‘parlare d’altro.

Una galleria di personaggi, narrati o che parlano in prima persona, ripresi di fronte all’incertezza del presente e del domani, forse alla mancanza di punti di riferimento, al ‘tirare le somme’ che inevitabilmente conduce al momento del ‘come sono arrivato qui’?; ‘donne fatali della provincia’, i buoni propositi che rimangono sulla carta, ‘Case del Popolo’ che, senza dirlo esplicitamente’, diventano forse l’alternativa concreta al ‘virtuale’; spazi riservati ai sentimenti e una semiseria provocazione dedicata alla droga…

La band toscana si inserisce per sua stessa ammissione nel prolifico filone di certo rock / folk regionale (vedi alle voci: Bandabardò, Ottavo Padiglione), con l’immancabile ombra di Piero Ciampi ad allungarsi nelle retrovie.
Ironia condita di amarezza e un certo sarcasmo, sottotraccia forse la poetica di “Amici Miei”, la vita troppo breve per essere presa troppo sul serio, una risata ad accompagnare le riflessioni più amare e nel contempo un filo di malinconia a circondare i momenti apparentemente più leggeri.

Un disco i cui suoni si mantengono in territori rock / pop, mescolati a influenze folk e ‘popolari’ (fa capolino anche un fisarmonica), parentesi quasi punk e momenti country western.
Un lavoro che convince, per i colori vividi e lo spiccato dinamismo.

KAMAL, “ABORIGENI ITALIANI” (AUTOPRODOTTO / LIBELLULA DISCHI)

Dalla Val Camonica all’Australia, passando per la Spagna e l’Inghilterra: un’esistenza decisamente movimentata, quella di Carlo Bonomelli, classe 1982, giunto al secondo capitolo lunga distanza della propria biografia musicale, a quattro anni circa dal precedente “La bacchetta magica e altre storie…”, i due lavori intervallati da un paio di EP; nel frattempo, la ‘canonica’ attività dal vivo, sul palco, tra gli altri, con Bugo, Mannarino e Marco Giuradei, qui anche co-produttore.

Una ‘raccolta’, nella quale sono stati raggruppati brani risalenti al 2007 – 2009 e pezzi più recenti, posteriori al ritorno dai tre anni trascorsi in Australia, nel 2013.
Il titolo, oltre a rimandando direttamente a quell’esperienza, sembrerebbe evocare un parallelo: come se nei complicati ‘tempi moderni’ gli italiani col loro campionario di luoghi più o meno comuni fossero condannati all’estinzione in un mondo sempre più globalizzato… intendiamoci, non siamo di fronte a rivendicazioni più o meno ‘sovraniste’ o leghiste – nulla di esplicitamente ‘politico’ – ma forse nei continui rimandi, specie sonori, al corpus tradizionale della musica popolare italiana – dalle canzoni da osteria o balera, ai cori degli alpini, passando per la canzone popolare più largamente intesa e per la sua più o meno diretta discendenza cantautorale – si avverte una sorta di malinconia, di ‘nostalgia’, in parte forse di mantenere ‘vivi’ certi riferimenti storici, anche sonori, ad esempio col frequente uso del violino e l’intervento della fisarmonica.

Kamal – nome d’arte scelto dopo un viaggio in Nepal e abbracciato definitivamente nel 2017, essendo nel frattempo diventato il suo soprannome nel quotidiano – di certo non si risparmia: 17 brani e circa 70 minuti di durata sono decisamente una rarità, specie per artisti che militano nelle retrovie, che spesso scelgono strade molto più ‘brevi’ per offrire saggi più rapidi e ‘immediati’ della propria proposta. Bonomelli / Kamal invece spariglia, offrendo un disco di durata extra – large, la cui ‘prodigalità’ è apprezzabile, ma che porta con sé il rischio del cali d’attenzione, del disorientamento: la ‘sfida’ di un disco così corposo tende a trasformarsi in una sorta di ‘prova di resistenza’.

Il disco offre comunque una certa varietà di stili e umori: oltre al campionario ‘tradizionale’ di cui sopra, la proposta sonora di Kamal / Bonomelli contiene riferimenti alla musica d’oltreoceano, dal country western al folk e suggestioni più ‘moderne’, rock e varie derivazioni, all’insegna di un variegato ensemble strumentale, cui ha contribuito il manipolo di ospiti intervenuti a sostegno del cantautore.
Varietà anche nelle tematiche affrontate: tra autobiografia e scenari immaginati, vicende sentimentali più o meno fugaci o complicate e donne fatali; riflessioni sociali, dal valore del tempo libero all’ossessione per i farmaci, i luoghi comuni legati alle ‘nazioni’ (nel caso specifico, la Svizzera)… il tutto all’insegna di un tono costantemente ironico, tra ironia e disincanto, che mostra spesso il gusto per il gioco di parole.

Diciassette brani sono certo tanti, ed è naturale che vi sia qualche passaggio a vuoto, episodi meno riusciti rispetto a brani più efficaci, col rischio che le potenzialità e le doti del cantautore ne escano in una certa misura indebolite, un filo annacquate, pur restando comunque apprezzabile lo sforzo di offrire all’ascoltatore un pasto decisamente abbondante.