Nuova produzione per il prolifico compositore, che presenta sette nuovi pezzi interamente strumentali, nel segno della sua proposta stilistica: minimalismo, ambient, suggestioni ‘spaziali’ e atmosfere gotiche, tra tastiere, chitarre e ‘tappeti’ assortiti, con qualche spruzzata new wave.
Tinte crepuscolari ma non troppo, per un disco come al solito evocativo.
Nuovo singolo per il giovane cantautore romano, reduce dal buon riscontro ricevuto per l’EP di esordio “Io e me x sempre”, brano che anticipa il primo lavoro sulla lunga distanza, “C’eravamo quasi”.
Ordinarie traversie sentimentali – lui ‘cotto’, lei ancora ‘al dente’ – sullo sfondo di un tipico ‘quotidiano generazionale’; confezione gradevolmente pop.
Nuovo singolo della giovane cantautrice di Policoro (MT), che prosegue il suo percorso all’insegna di suggestioni soul e r’n’b’ abbinate a una scrittura che cerca comunque di non essere anonima: il brano è frutto di una collaborazione a sei mani in cui la stessa Tarsia è stata affiancata da Fernando Alba e Guido Savatteri (alias LUVESPONE).
Protagonista l’amore e le sue complicazioni, che possono produrre miscele ‘esplosive’…
Brano che si lascia ascoltare che conferma voce e personalità interessanti.
Terzo lavoro (il quarto, considerando un EP) per i liguri Dagma Sogna.
Nove pezzi all’insegna di un rock a tinte hard che non disdegna da un lato di flirtare (e forse qualcosa di più) col metal, complice il risalto dato alle chitarre, efficace accompagnamento a un cantato aggressivo, ma mai sopra le righe; la sezione ritmica chiude il cerchio con puntualità.
Non si disdegna qualche passaggio più pop, in un lavoro con più di un episodio radio – friendly.
Un lavoro sul filo della disillusione – sentimentale o generazionale – i trent’anni sono un momento di bilanci, senza cedere al pessimismo, ma trovando motivi per reagire e cercare un cambiamento, trovando anche spazio per un omaggio ai propri genitori, che nonostante tutto continuano a essere gli ‘eroi’ della propra infanzia.
Fabrizio Fusaro, cantautore poco più che ventenne originario della provincia torinese, si è già fatto conoscere e apprezzare da qualche anno, arrivando ora al traguardo del primo disco.
“Di quel che c’è non manca niente” era un modo di dire del nonno del cantautore: scelta non casuale, dato che tutto il disco è intriso di una ‘famigliarità’, dell’affetto per persone e luoghi del passato dell’artista, dell’infanzia un po’ più frequentemente, ma non solo.
C’è tutto un immaginario costruito sulla vicenda biografica dell’artista: il nonno appare tra le righe una figura importante (non solo per il titolo: uno dei brani è stato ricavato da certi suoi ritagli di giornale), ma c’è spazio per una dedica al fratello sull’onda dei ricordi d’infanzia e tutta la dimensione domestica, anche rappresentata dalla stessa casa come luogo fisico acquisisce un peso specifio decisivo lungo i nove pezzi presenti; non mancano parentesi dedicate alle relazioni sentimentali, forse (ipotizzo) viste come un percorso lungo il quale costruire una nuova ‘casa’, un nuovo luogo degli affetti.
Il tutto è proposto in uno stile comune a quello di molto giovane cantautorato degli ultimi tempi (con tutti i debiti distinguo, il rappresentante più noto del filone attualmente è forse Diodato): c’è l’amore per le parole, la scelta delle immagini, delle allegorie (non scontato il ricorso in un paio di episodi a metafore sportive che in Italia possono rischiano sempre di essere un’arma a doppio taglio, in genere evitate dai cantautori ‘seri’), in un disco dominato da un’atmosfera un po’ plumbea, a tratti quasi dolente, sul filo della nostalgia, il cantato costantemente dimesso.
Un lavoro intimo, raccolto, nel segno dell’essenzialità dei suoni, con voce e chitarra con synth percussioni e sonorità ‘d’ambiente’ a fare da sostegno, con discrezione.
Viene forse da pensare che un tantino di ‘vivacità’ in più non avrebbe guastato, ma il disco risulta comunque solido e forte comunque di una sua coerenza di carattere e umore.
Sono passati sei anni dal disco precedente dei SAS e a quanto sembra non invano.
“L’Era del Cigno Bianco”, descritta nella title track – scritta nel corso della ‘chiusura totale’ di ormai quasi un anno fa, vuole essere un messaggio di speranza verso la possibilità che, una volta finito questo difficile periodo, si possa aprire una nuova fase, più attenta alle ‘cose piccole ma importanti’.
La realtà, nel frattempo, è quella di sempre: dalla questione, ancora irrisolta, dell’ILVA, fino alle tragedie nel Mediterraneo, passando per il caporalato.
L’impegno è un marchio di fabbrica, ma c’è spazio anche per la riflessione sul proprio essere artisti, in una fase in cui il settore, tra i più colpiti dalla crisi, è stato anche tra quelli più lasciati indietro, vittima del luogo comune dell’arte come svago e ‘disimpegno’-
Accompagnati da uno stuolo di artisti (O’ Zulù, Papa Ricky, Michele Riondino ed Erica Mou, i rapper Magnitudo 12 tra gli altri), i Salento All Stars danno vita a un lavoro variegato e sgargiante, che veleggia mescolando generi e stili, tra spezie mediterranee e caraibiche, sonorità metropolitane e colori rock.
Il Fosco, alias Fosco Bugoni, piacentino della Val Tidone di nascita, attualmente di stanza a Milano, esordisce con questo EP di cinque brani: il titolo in effetti dice già molto: il nostro dopo la laurea ha trascorso un periodo in Montana, imbevendosi del folk americano e della musica di artisti come Tom Petty e Neil Young; certo, la costa nord-occidentale degli Stati Uniti non è propriamente il ‘midwest’, ma il collegamento appare comunque immediato.
Voce, chitarra, armonica: Il Fosco dimostra di aver appreso bene la lezione sonora, applicandola a una ‘poetica da minimo quotidiano’: l’esperienza dei grandi spazi americani si incontra / scontra con una realtà più ristretta ‘da paese’, si ritrova ciò che si era lasciato, inclusi amici e affetti, un mondo certo più raccolto, ma non per forza limitante, specie considerando tutto ciò che poi si è vissuto negli ultimi mesi, questi sì all’insegna di limitazioni e privazioni anche dolorose: il lavoro, non a caso, è stato composto proprio nel corso della ‘clausura’ dello scorso anno. Spicca tra gli altri, ‘Potlach’, episodio più volto alla società, riflessione amara sul mondo del lavoro.
Un disco che mescola leggerezza a riflessione, che qua e là sembra guardare il mondo e la vita un po’ a distanza, con uno sguardo stralunato che può ricordare quello di Max Gazzé.
Terzo singolo per questo progetto, animato da sei musicisti, tutti con una solida gavetta alle spalle, che anticipa la prossima uscita del primo ‘full length’, “L’Età della Rabbia”.
Un ironico campionario, anzi ‘scemenzario’ nell’età delle notizie fasulle su Internet, dall’ormai proverbiale riferimento del titolo – il Molise che potrebbe anche non esistere, visto che in pochi sembrano effettivamente avere idea di dove si collochi – all’altrettanto affermata leggenda urbana sul mancato sbarco sulla Luna.
Si riflette col sorriso su un fenomeno comunque pericoloso, attraverso un pop rock con qualche allusione elettronica agli ’80.
Il video, ricorrerà a tecnologie già affermate nel mondo dei videogiochi, ma ancora inutilizzate o quasi nel settore dei videoclip.
Cantautore e poeta per vocazione, maestro elementare di professione (o forse, viceversa) il bolognese Andrea Lorenzoni giunge al terzo lavoro solista.
Un disco su cui ‘pesano’ due circostanze: la ‘clausura forzata’ che in modo più o meno pesante abbiamo vissuto nel corso del 2020.
L’esito si dipana su otto brani, all’insegna di un rock dalla consistenza distorta, che a tratti assume qualche vaga venatura noise, con chitarre dall’attitudine quasi rabbiosa sempre in primo piano.
La scrittura va oltre il ‘consueto’: nei testi, spesso lunghi e ‘articolati’ si mescolano non solo riflessioni sulla vita amorosa, ma anche su tutto ciò che ‘gira intorno’, tra giustizia sociale, accenni a Bologna, un omaggio alla millenaria via Emilia in cui le ‘pietre miliari’ sono state sostituite dai distributori di benzina.