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AVENGERS ENDGAME

ATTENZIONE: chi ancora non ha visto il film, potrebbe trovare in questo articolo anticipazioni ‘non gradite’; ho cercato di evitare spoiler e spiegazioni troppo esplicite, ma comunque tra le righe è possibile si possano intuire gli sviluppi; chi non ne vuole sapere nulla, è il caso che non legga.
Dopo un decennio e passa e una ventina (21?) di film, la prima, grande era dei ‘cinecomics’ della Marvel – nel frattempo radunati sotto la denominazione di ‘Marvel Cinematic Universe’ – giunge al capitolo finale.

Una conclusione che proverbialmente non può essere definita che ‘cataclismatica’, in cui i nostri eroi, sfiancati e depressi per non essere riusciti a impedire l’ecatombe voluta da Thanos, si trovano improvvisamente (grazie, guarda caso a… Topolino, in quella che chi ha visto e vedrà il film potrebbe leggere come un omaggio alla Disney, attuale proprietaria dei supereroi marvelliani) di fronte a un cunicolo, per quanto stretto, verso una possibile salvezza.

Senza spoilerare troppo (che poi, ‘sta fissazione di alcuni per gli spoiler ha decisamente rotto, e finisce per stimolare l’istinto str***o e un po’ sadico di spiattellare tutto), lo spettatore viene catapultato in una gimcana spazio – temporale che è un riuscito e coinvolgente omaggio a tutto ciò che abbiamo visto finora, per poi tornare nel presente e sfociare nel più classico degli scontri conclusivi in puro stile ‘arrivano i nostri’, in cui ritroveremo tutti (o quasi) i compagni di strada del decennio uniti contro il cattivo e le sue schiere…

Così tutto si conclude, stavolta non senza lasciare vittime sul campo, dando proprio l’idea della fine di un’era e lasciando gli appassionati nell’incertezza riguardo il futuro dei supereroi Marvel al cinema.
Qua e là (e ovviamente nel lungo finale che sistema i destini dei ‘tre grandi’ Capitan America, Thor, Iron Man) si intuisce quali potrebbero essere i progetti futuri: non è certo un segreto che questa è l’ultima volta che abbiamo visto questo cast: Downey Jr. e Ruffalo ormai brizzolati e Jeremy Renner stempiato danno l’idea di quel passare del tempo che sui fumetti cartacei si riesce a imbrogliare ma con cui al cinema non si può barare; in aggiunta, Scarlett Johansson (che per l’occasione ha almeno accettato di ri-tingersi qualche ciocca di rosso, rievocando gli inizi), è ancora in predicato di tornare con un’avventura ‘a sé’ della Vedova Nera, anche se il futuro sembra abbastanza incerto.

Vedremo se la Marvel azzarderà certi passi già compiuti sui fumetti riguardo certi personaggi, o se qui tutto si è limitato a una citazione dei fumetti (a proposito, per chi segue anche il cartaceo, il film include qualche gustosa allusione, soprattutto una… ancora una volta, qui mi fermo).

Il ‘giocattolone’, insomma, funziona: certo tre ore e passa forse sono un tantino troppe, anche se tutto sommato la lunga prima parte, molto ‘citazionista’ offre una grandinata di spunti, oltre che la partecipazione – gustosa – di gran parte dei comprimari ‘di nome’ visti nei film precedenti: i cameo non si contano o quasi, ivi incluso l’inevitabile omaggio a Stan Lee.
Un film che offre esattamente quello che si aspetta, e forse un tantino di più, che trova la sua degna conclusione in una fantasmagorica battaglia finale, che a dire il vero diventa a tratti confusionaria e che io avrei perfino fatto durare di più per dare veramente a tutti i personaggi la possibilità di farsi vedere un’ultima (non per tutti) volta.

Ovviamente non mancano le gag, nei confronti delle quali ormai anche lo spettatore più ‘restio’ finisce per essere ‘vaccinato’ eppure anche in questo caso in determinati frangenti hanno dovuto esagerare; ci si esalta – a me poi vedere certe sequenze in stile ‘siamo qui insieme, diamo addosso al cattivo’ commuovono puntualmente – e sul finale i più emotivi potrebbero farsi scappare una lacrima.

Non sarà forse il migliore film del lotto: il primo Avengers resta irraggiungibile, non solo perché il primo a vedere gli eroi insieme, ma perché dovendo gestire meno personaggi risulta ancora oggi più efficace, così come certi tentativi di introdurre una maggiore ‘complessità’ – il film che viene sempre citato in proposito è “Winter Soldier” – andando oltre le semplici ‘botte tra gente in costume’, sono stati poi decisamente stoppati quando a monte è arrivata la Disney, stabilendo che coi film di supereroi si doveva restare entro i rigidi steccati del ‘cinema d’evasione’, e che laddove si era tentato di suscitare qualche riflessione in più, era invece il caso di buttarla sulla comicità spicciola, ai limiti della torta in faccia… vabbè.

“Avengers Endgame” insomma, conferma un efficace paralleo che altri hanno fatto: il cinema di supereroi è oggi ciò ciò che fino agli anni ’60 fu il western; buoni contro cattivi e lì finisce, con poche eccezioni.
L’avvento di un Peckinpah o anche di un Leone, che cambino la prospettiva, appare ancora al di là da venire.

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CAPTAIN MARVEL

‘Arruolata dai Kree nella loro infinita guerra con gli Skrull, ‘Vers’ arriverà sulla Terra per una missione legata al suo passato, che le restituirà la propria identità – Carol Danvers – e le darà piena coscienza dei propri poteri, da usare col nome di battaglia di Captain Marvel (io ‘sta storia del ‘Captain’ al posto del ‘Capitan’ non l’ho mai digerita, ma vabbé).
Primo film Marvel dedicato ad un’eroina femminile, e per questo subito derubricato come ‘femminista’, anche se non credo basti una protagonista volitiva e che pensa di non dover dimostrare nulla a nessuno a giustificare le lodi o le critiche sollevate su questo aspetto del film: il messaggio è insomma trasversale e non sono certo solo le donne a doversi rialzare dopo ogni caduta o a dover dimostrare qualcosa agli altri se sono sicure di sé stesse.
Sbrigata questa faccenda, resta il film, discreto esempio del genere, una classica storia di (ri)scoperta delle proprie origini, con momenti gloriosi, le immancabili gag (prevedibili per chi già conosceva i fumetti) – stavolta incentrate su un ‘gatto’ decisamente ‘particolare’ – e l’altrettanto immancabile travisamento di un personaggio storico, che ha suscitato l’ira dei lettori storici e le consuete polemiche (a questo punto c’è da pensare che il tutto sia voluto).
A lasciare il segno è però soprattutto la colonna sonora: il film è ambientato nei ’90, e questo ha permesso agli autori di sbizzarrirsi, arrivando a ‘rispolverare’ le Elastica e i No Doubt, senza farci rinunciare ai Nirvana.
Gli attori se la cavano: Brie Larson è credibile, Samuel L. Jackson è un’ottima spalla per tutto il film, Jude Law e Annette Bening svolgono agevolmente il compito, Clark Gregg torna a vestire i panni dell’agente Coulson.
Un film che sembra dare nuova linfa a un universo cinematografico Marvel un po’ in affanno e un ottimo antipasto in attesa del fragoroso “Avengers Endgame” del mese prossimo in cui Captain Marvel sembra destinata a un ruolo di primo piano.

IL PRIMO RE

Tremate. Questa è Roma.
Due fratelli guidano la fuga di un branco di disperati dalla prigionia ad Alba, prima di uno scontro che segnerà il primo passo verso la creazione di una città che segnerà la storia… un destino che potrà nascere solo dal sangue di un fratricidio…

Il Primo Re è un film ambizioso e per molti versi ‘difficile’: evitate di dare ascolto a chi sostiene che questo è un film italiano fatto ‘come un film americano’, o altre semplificazioni del genere: non siamo di fronte, per esempio, al “questa è Sparta” di “300”: non andate, insomma, a vedere questo film aspettandovi uno pseudo colossal targato Italia con l’ambizione di imitare quanto succede oltreoceano…

Intendiamoci, ci sono elementi tecnici (il montaggio, le scene di lotta e battaglia) che riecheggiano certi prodotti (potrebbe forse venire in mente, molto alla lontana, “Spartacus”), ma il punto centrale è che Matteo Rovere (che già aveva ottenuto un ottimo riscontro con “Veloce come il vento”) certe cose le conosce, probabilmente le ha pure studiate negli anni della scuola e le ha maneggiate con il rigore di chi ha la piena coscienza di stare parlando della leggenda della nascita della città più importante della Storia, non di chi, con tutto il rispetto, pensa che l’antichità classica sia fatta di corpi scultorei e donne scollacciate.

Nulla di tutto questo: piuttosto, una sorta di tentativo di ‘ricostruzione storica credibile’ di ciò che per molti versi è destinato a restare avvolto nella leggenda, nonostante decenni di studi approfonditi sulle origini di Roma; una ricostruzione storica, sulla quale sono inseriti elementi quasi ultraterreni, e forti rimandi alla tragedia greca.

“Il Primo Re” ci butta in un mondo arcaico, in cui l’uomo sta cercando una via di mezzo tra il lasciarsi governare dagli elementi e imporre su di essi il proprio dominio: è Remo che, protagonista di gran parte del film, si assume il compito e arroga il diritto di essere “Il Primo Re”, ma facendo questo, giunge all’eccesso di negare la presenza di qualsiasi ‘potere superiore’, sfociando in quella ‘ubris’ (l’arroganza contro gli dei) che è uno dei grandi fili conduttori dei miti e delle tragedie classiche; dall’altro lato, è Romolo invece che basa il suo potere anche sul rispertto e l’investitura ‘dall’alto’; e ancora: da una parte la pura forza bruta e militaresca di Remo, volta all’annientamento del nemico; dall’altra, l’atteggiamento già ‘politico’ di Romolo, il qualche intuisce la necessità di incorporare gli sconfitti per aumentare la forza del gruppo, in quella che sarà una delle ragioni del trionfo e della durata millenaria dell’impero romano.
Tutto questo in scenari sospesi, con ambientazioni e panorami che ancora oggi nonostante tutto è possibile andare a cercare e trovare attorno al Tevere e in giro per il Lazio, non lontano dalla metropoli che in duemila e passa anni è sorta attorno a un villaggio di capanne nato per accogliere fuggiaschi, esuli e gente in cerca di un riscatto e forse di una ‘missione’ più grande.

Tutto questo fa di “Il Primo Re” un film ambizioso, ribadisco: non nel senso dell’imitazione dei film americani, ma di una narrazione che finalmente nasca dalla voce di chi per certi versi ha più diritto di altri di raccontare certe vicende; insomma: ma perché noi italiani che ancora oggi studiamo il latino, possiamo aggirarci tra le rovine di Roma e sentire ‘nostre’ certe leggende, dobbiamo farcele sempre raccontare da altri?
Tanto ambizioso il film, da poter risultare in effetti difficile: “Il Primo Re” è un film ‘lento’, come lenti erano i ritmi di quell’epoca arcaica, strettamente legati ai cicli della natura e del clima, spesso scanditi da ritualità anche complesse e spesso spezzati da lotte e scontri ai limiti dell’animalesco (niente o quasi ci viene risparmiato: non sono duelli da ‘cappa e spada’ ma autentiche risse, con tanto di bastonate, occhi cavati e carne strappata a morsi); e soprattutto, la maggiore avvertenza: il film è interamente parlato in una sorta di latino arcaico, con tanto di sottotitoli. Sono due elementi che vanno tenuti ben presenti se si decide di andarlo a vedere, perché in più di due ore di durata potrebbero diventare pesanti, ma sono l’ulteriore segno del fatto che Matteo Rovere non ha ceduto compromessi portando fino in fondo l’idea di un film ambientato in un passato pre-storico, e se penso che a tanti la scelta sembrerà pesante, in fondo il tutto può risultare affascinante e rende ancora più credibile la costruzione.

Le ultime parole sono per i protagonisti: Alessandro Borghi è un Remo che se da un lato rappresenta la forma della pura violenza, dall’altro si pone come una sorta di Prometeo, non più ‘schiavo del fuoco’ ma suo dominatore, che vorrebbe affrancare gli uomini dalla tirannia degli elementi e quindi degli dei; Alessio Lapice è Remo, che invece porta l’idea della necessità di tenere presente un potere superiore e forse, più in fondo, quella che proprio nel rispetto delle ‘usanze’ e delle ‘tradizioni’ si può trovare un ‘terreno comune’, superando il conflitto e aggregandosi per essere più.
Meritevoli di citazione, infine, le musiche di Andrea Ferri, spesso un ‘qualcosa in più’ in quanto a epicità.

VICE

Dick Cheney è un attaccabrighe semialcolizzato espulso dall’Università quando, grazie al ‘pungolo’ di una moglie determinata e ambiziosa, arriverà a percorrere i corridoi di Washington, cominciando una scalata al potere che sembrerà interrompersi solo quando il nostro deciderà di rinunciare alle proprie ambizioni presidenziali per risparmiare la propria figlia omosessuale dal prevedibile massacro mediatico.

Le porte del Potere, ai massimi livelli, si riapriranno inaspettatamente per Cheney nel 2000, quando George W. Bush gli proporrà la vicepresidenza: incarico che verrà accettato, in cambio di un accordo che darà al protagonista mani libere su una serie di settori tutt’altro che secondari (esteri, difesa, energia, etc…); compiti che, nel post 11.9.2001, renderanno Cheney sostanzialmente un Presidente – ombra, con più potere decisionale dello stesso Bush, anche attraverso il posizionamento dei suoi uomini nei gangli principali del potere governativo a discapito di quelli del Presidente.

Adam McKay, che già un paio di anni fa con “La grande scommessa” aveva portato sugli schermi la storia americana recente, raccontando la genesi della crisi finanziaria mondiale della seconda metà dello scorso decennio, si concentra stavolta su una delle figure più controverse degli ultimi decenni e non solo, definito da molti come il Vicepresidente americano più potente della storia.
Al centro, la capacità di Cheney di ‘guardare oltre’, un freddo calcolatore che prima e meglio di altri riesce a individuare ‘opportunità’ perfino nei concitati momenti successivi agli attacchi dell’11 settembre; un uomo che capisce la vera portata del ‘Potere’ quando nel momento in cui si trova davanti a una porta chiusa oltre la quale Nixon e Kissinger stanno decidendo il bombardamento della Cambogia, e che proprio quel potere riuscirà a raggiungere quel potere, sostanzialmente ‘costruendo’ la guerra contro l’Iraq.

A dominare la scena è ovviamente il protagonista, interpretato da un Christian Bale che ‘occupa’ la scena, proprio dal punto di vista ‘fisico’, grazie all’ennesima trasformazione a base di chili messi su per poter calarsi nel ruolo; un’interpretazione che raggiunge il culmine nel finale, in cui Cheney si rivolge direttamente allo spettatore, ribadendo la convinzione in tutto ciò che ha fatto; una scena che ricorda molto da vicino il monologo di Andreotti – Servillo ne “Il Divo”, reminiscenza non casuale, dato che lo stesso McKay ha dichiarato esplicitamente di aver avuto il film di Sorrentino tra le proprie fonti di ispirazione.

La forza di “Vice”, però, risiede in buona parte anche nel manipolo di comprimari che affiancano e sostengono la performance del protagonista: raramente si è visto un gruppo di attori così ‘forte’ in una serie di ruoli di ‘sostegno’: Amy Adams è la volitiva moglie Lynne; Steve Carell, Donald Rumsfeld (Segretario dalla Difesa con Bush Jr, ma la cui carriera, da un certo punto in poi, si è svolta in modo parallelo a quella di Cheney); Sam Rockwell un eccezionale George W. Bush; si segnalano alcuni camei, tra cui quelli di Naomi Watts e Alfred Molina.

“Vice” è un saggio sul Potere, sulla determinazione necessaria per raggiungerlo, sulla freddezza necessaria per gestirlo: è certo un film per chi segue la politica internazionale (dubito che chiedendo alle prime dieci persone incontrate per strada chi sia stato Dick Cheney, sappiano rispondere più di una o due, almeno qui in Italia, ma temo che negli Stati Uniti il dato non sia più elevato di molto), che riporta l’attenzione su fatti avvenuti ormai quasi vent’anni fa (ma le conseguenze della guerra all’Iraq le abbiamo continuate a vedere anche in tempi recenti, con l’avvento dell’Isis, gli attentati in giro per l’Europa, il caos siriano e quant’altro) e che, per chi ha tempo e voglia, invita a riflettere ancora una volta su come dietro ai momenti topici della storia ci siano quasi sempre uomini singoli, con la loro personalità e la loro decisione: lo scopo del potere è null’altro che arrivare ad essere quegli uomini, con buona pace di quei presunti ‘ideali’ di fronte ai quali, all’inizio del film, Rumsfeld / Carell si fa una grassa risata.

BOHEMIAN RHAPSODY

Ascesa, trionfo e caduta di Freddie Mercury, seguendo la parallela parabola dei Queen.
Dai palchi di piccoli club ai trionfi negli stadi, dal rapporto complicato con la famiglia, fino a rinnegare le proprie origini, a una vita sentimentale travagliata, caratterizzata da un perenne vuoto riempito da abitudini sessuali fin troppo disinvolte, che finiranno per essergli fatali.

I film biografici (anche se in questo caso è più corretto definirlo come ‘molto liberamente ispirato alla vita di’) vivono quasi esclusivamente sull’identificazione tra il protagonista e il suo interprete: un buon film può essere completamente depotenziato dalla mancata corrispondenza; un film ‘ordinario’ può assurgere a capolavoro grazie a una perfetta imitazione.

“Bohemian Rhapsody” è in sé un film ordinario, che segue senza rilevanti deviazioni il ‘canovaccio’ tipico delle biografie, in un susseguirsi di episodi e aneddoti, spesso romanzati e con più di una ‘forzatura’ narrativa.
“Bohemian Rhapsody” è un capolavoro del genere, reso tale dall’interpretazione memorabile di Rami Malek (fin qui noto al grande pubblico soprattutto per le apparizioni nella saga di “Twilight” o per la serie tv “Mr. Robot”).
Si può dire che alla fine tutto il film, praticamente un musical, scandito dai brani della band, vive nell’attesa dei venti minuti finali, in cui Malek riproduce la memorabile esibizione di Mercury sul palco del “Live Aid”: lì, l’identificazione raggiunge il vertice, in un climax di fronte al quale i più emotivi si preparino a prendere i fazzoletti (io, ex adolescente ‘in fissa’ coi Queen del fazzoletto non ho avuto bisogno, ma gli occhi lucidi avoglia se ci sono stati e la lacrima è venuta giù).

Il resto, come detto, è fatto di musica – tanta, bella e potente – e aneddotica con varie imprecisioni (con due click potete trovare ampi articoli al riguardo), dalla quale esce il ritratto di un Freddie Mercury che finisce per condurre una vita sregolata per colmare il vuoto causato dalla propria incapacità di gestire fino in fondo la propria sessualità.

Sì, quindi, va bene: non posso dare torto a chi sottolinea come l’accuratezza storica del film si sia andata a far benedire fin dalle prime battute; ha ragione chi scrive che in fondo Freddie Mercury si divertiva pure e che descrivere tutto il campionario di feste, frequentazioni di locali ‘equivoci’ e orge come il segno di un vuoto interiore alla fine è riduttivo e sa molto di luogo comune (come se in fondo volersi ‘divertire’ sia una colpa e sia sempre il sintomo di un male più profondo).

Comprendo che sì, è vero, i comprimari si limitano alla ‘somiglianza’ agli originali (a parte Roger Taylor, che c’entra pochino); accetto pure certi pareri, secondo me abbastanza ingenerosi, all’insegna del ‘risparmiatevi i soldi e andatevi a vedere i video originali su Youtube’ o ‘se urlate al capolavoro, allora per coerenza non dovete perdervi una puntata di “Tale e quale show”‘.

Tutto giusto, corretto, comprensibile: però resta il fatto che a me alla fine la lacrima è scesa: e forse ok, dipende dal fatto che coi sentimenti e coi ricordi adolescenziali il gioco è facile e forse in fondo sentirsi sparare la musica dei Queen a tutto volume dentro un cinema evoca alla lontana cosa sarebbe potuto essere vederli dal vivo e ti fa sorgere un filo di rimpianto (io poi al cinema mi emoziono spesso) però boh, nonostante tutto, sì, nel suo genere per me “Bohemian Rhapsody” è un film destinato a farsi ricordare.

DOGMAN

Marcello è il proprietario di un piccolo negozio di toelettatura cani, nella periferia degradata di una grande città: si arrangia, arrotodando con lo spaccio di piccole dosi di cocaina e partecipando a qualche furtarello: a comprargli la droga e a ‘precettarlo’ per le proprie attività criminose è Simone, un bullo che tiene in scacco l’intera zona, una bestia che impone la sua legge a forza di pugni.
Marcello ne è succube, in un modo che va oltre il classico rapporto vittima – carnefice: qualcuno potrebbe definirlo ‘malato’; nella sua remissività, che arriva fino alle più estreme conseguenze, c’è la paura delle conseguenze di una ribellione, ma anche la speranza che da quel rapporto si possano raccogliere delle ‘briciole’ che gli consentano di vivere con maggiore tranquillità, magari potendosi permettere di pagarsi una vacanza assieme alla figlia, intuiamo tra l’altro che il protagonista è separato dalla moglie.
Marcello pensa forse di poter controllare e ‘ammansire’ Simone come fa coi suoi cani, in fondo si tratta pur sempre di bestie…
Le cose però prenderanno una piega ben diversa e dopo aver pagato un prezzo troppo alto, Marcello troverà finalmente la forza di ribellarsi, risolvendo ‘definitivamente’ il problema…

Quella del ‘Canaro della Magliana’ è una delle vicende di cronaca nera che resta ancora oggi scolpita nell’immaginario degli abitanti della Capitale; chi, come me, all’epoca tredicenne, ricorda ancora oggi come nei giorni successivi al ‘fattaccio’ coi compagni di classe ci si scambiassero particolari – più o meno veritieri – sulle efferatezze compiute dal protagonista… nel mio caso in aggiunta c’è il dato puramente biografico di chi abita in una zona continua allo stesso quartiere della Magliana: tutta quella storia successe a meno di due chilometri da dove abito, il cadavere della vittima venne ritrovato qui dietro, a dieci minuti di strada.
Quell’avvenimento resta ancora oggi velato da un alone quasi ‘mitologico’ perché in fondo nonostante la violenza dell’esecuzione e allo scempio del cadavere non si più non guardare al ‘Canaro’ non dico con simpatia, ma almeno con un filo di comprensione, essendo diventato un po’ il simbolo di chi alla fine si stufa di essere vittima di soprusi e finisce per ribellarsi; va comunque sottolineato che il ‘Canaro’ non era certo un stinco di santo e che tutta la vicenda si svolse in un contesto ampiamente degradato.

Matteo Garrone, che ha sottolineato di aver solo preso spunto da quell’episodio, mette in scena un climax di prepotenza e soprusi di fronte ai quali il povero protagonista finisce sempre per essere sottomesso, tanto da risultare quasi irritante, fino a quando – e viene da dire: “finalmente”” – finisce di accettare tutto e si ribella: un archetipo a metà tra il ‘borghese piccolo piccolo’ di Sordi e il ‘cane di paglia’ di Peckinpah, sullo sfondo di una periferia scialba, dai colori lividi – tutta la storia si snoda praticamente nell’ambito di un solo isolato – il cui unico contraltare sono i fondali marini che fanno da scenario ai momenti di serenità del protagonista assieme alla figlia.
Garrone racconta il tutto in maniera secca, essenziale, non evitando un finale per forza di cose violento, ma senza nulla concedere all’effettaccio o allo scorrimento di sangue fine a sé stesso.

A dare corpo e volto a Marcello è l’omonimo Marcello Fonte, che offre un’interpretazione intensa e sofferta, e col quale da parte mia c’è stato un supplemento di immedesimazione, visto che Marcello mi chiamo anche io e che come lui sono quello che si dice a Roma ‘un du’ soldi de cacio’ (insomma: piccoletto, mingherlino); devo dire in aggiunta che anche io, senza ovviamente agli estremi del protagonista, da ragazzino in qualche episodio ho provato la stessa sensazione di impotenza di fronte a certi prepotenti; gli fa da contraltare Edoardo Pesce – Simone: interpretazione altrettanto – e forse addirittura qualcosina di più – riuscita, nel suo dare vita a un personaggio odioso, per il quale alla fine non si prova alcuna pietà, pensando anzi che si merita quanto accaduto. Francesco Acquaroli e Adamo Dionisi sono due validi esempi di quelli che una volta venivano chiamati ‘caratteristi’.

P.S. Doverosa postilla, perché nel frattempo è giunta la notizia dell’assegnazione a Marcello Fonte del premio come miglior attore a Cannes: strameritato e del quale sono stato contentissimo.

LORO 2

Sconfitto (per poco) alle elezioni, Berlusconi è sul punto di cedere, ma ritrovato lo smalto del venditore dei tempi migliori, rieccolo sulla breccia: via con la compravendita dei Senatori, con ‘favori’ annessi, coinvolgendo anche giovani ragazze da ‘sistemare’,  magari nelle fiction delle sue tv, e si continua con le feste in Sardegna, le ‘cene eleganti’ e quant’alto, con adeguata esposizione di corpi femminili (nulla a che vedere con la prima parte, però), mentre si conclude con poca gloria la parabola dell’arrivista Sergio Morra, fino a quando proprio una di queste giovani ragazze ha il coraggio di mettere ‘lui’ di fronte al suo essere patetico. Eppure, ‘lui’ continua a essere convinto di sé stesso e delle sue capacità, una testa ‘piena di progetti’ anche a 80 anni.
Torna al Governo, la moglie lo pianta con una piazzata che manco Travaglio e nel frattempo il terremoto de L’Aquila sembra aprire – forse – una voragine incolmabile tra ‘Lui’ e ‘noi’ gente ‘normale’.
Come si sperava, e si poteva prevedere, in questa seconda parte Sorrentino si concentra soprattutto su di ‘lui’, senza fare sconti, ma cercando di tratteggiare il lato ‘umano’ di una persona alla quale in fondo piace ‘divertirsi’ e che fa tutto ciò che i soldi gli permettono, senza riuscire ad accettare il fatto che una persona con un ruolo pubblico deve giocoforza porsi dei limiti anche nel privato. Una persona che alla fine, costruisce delle verità di comodo destinate non tanto agli altri, quanto innanzitutto a sé stesso, per evitare di ammettere le proprie debolezze.
La potenza dell’uomo sta nel fallimento di chi ogni volta ha cercato di accelerarne la fine politica e di chi ha cercato di ‘sfruttarlo’, cercando di ottenere più di quanto lui non  abbia voluto concedere.
Dopo aver visto tanti ‘Loro’ e tanto ‘Lui’, il finale sembra dedicato a ‘noi’, gente ‘normale’ coi propri problemi e a volte tragedie, lontanissimi da certo ‘mondi’… eppure, viene da pensare che proprio ‘noi’ abbiamo alla fine contribuito al suo successo, guardando le sue televisioni, comprando i suoi prodotti e alla fine votandolo.
Servillo (quasi) magistrale è al centro della scena; Elena Sofia Ricci, una Veronica Lario credibile (e che si spoglia pure lei) e poi tutto il resto della ciurma, tra la giovanissima Alice Pagani (una ‘promessa’?) e uno Scamarcio di fronte al quale per l’ennesima volta ci si chiede quali doti abbia a parte la bellezza donatagli da Madre Natura.
Certo, resta comunque l’idea di un film che non dice nulla di nuovo, perché alla fine in vent’anni e passa un’idea sul Berlusconi pubblico e privato ce la siamo fatta tutti; né abbiamo avuto chissà quali rilevazioni riguardo quanto poteva succedere in certe occasioni, o quali fossero e siano ancora le dinamiche di certi ambienti: il caro, vecchio detto sul ‘pelo di f*** e il carro di buoi’ non tramonta mai.
L’impressione finale, allora, è che di questo film resti soprattutto la ‘carne’ esposta ampiamente nella prima parte e in misura minore nella seconda: un’esposizione di nudi femminili e situazioni ‘al limite’ come raramente si è vista nel cinema italiano ‘serio’; certo funzionale alla storia, ma per certi versi eccessiva e a un certo punto noiosa. Io comunque se fossi in quelli di Pornhub a Sorrentino un film hard glielo proporrei…

LORO 1

Sergio Morra (Riccardo Scamarcio) ambizioso e spregiudicato trafficone tarantino, giunge a Roma con l’avvenente moglie, mosso dall’obbiettivo di incontrare ‘lui’…
‘Lui’ nel frattempo è in Sardegna, momentaneamente escluso dal Governo, impegnato a cercare di tenere in piedi ciò che resta del suo matrimonio.
La prima parte del nuovo film di Sorrentino si divide in due ‘sezioni’: la prima, ci mostra un mondo decadente, con giovani donne disposte a usare senza tanti complimenti il proprio corpo per fare strada…
Siamo a due passi dalla Roma de “La Grande Bellezza”: lì la protagonista era la noia di una generazione di intellettuali falliti sotto il profilo ideale, qui quel divertimento ‘obbligato’ che rappresenta il raggiungimento del successo nel mondo politico ed economico.
Mi scuso per i ‘francesismi’, ma in sintesi ci viene presentata un’ora di troie, cocaina, tette, culi, strusciamenti (etero e lesbo).

Poi, negli ultimi 40 minuti, arriva Servillo – Berlusconi (così così il milanese, ottima la mimica) e il clima si rasserena, pur non tacendone l’arroganza, ignoranza e grettezza. L’idea di fondo è forse quella di presentare il mondo dei ‘loro’ che gli girano intorno come peggiore di ‘lui’ stesso, come le cronache tutto sommato ci hanno mostrato.
Resta comunque il dubbio di trovarsi davanti a una grande paraculata di Sorrentino che per oltre mezzo film non fa vedere altro che donne mezze (o tutte) nude, Kasia Smutniak inclusa (applausi).
Il prossimo, suggerirei direttamente un porno.
A restare su tutto è la prova di
Bentivoglio – Bondi: grandissimo.
Appuntamento a “Loro 2” per una più completa e corretta opinione.

AVENGERS INFINITY WAR

Quando Thanos – già artefice della prima invasione aliena di New York – decide di impadronirsi delle sei ‘Gemme dell’Infinito’ (potentissimi oggetti capaci di controllare i vari aspetti della realtà, due delle quali sono sulla Terra, in possesso del Dr. Strange e Visione), al fine di ‘risolvere’ il problema del sovrappopolamento universale facendo piazza pulita della metà dei suoi abitanti – gli Avengers dovranno ‘ritrovarsi’ e unire le forze coi ‘nuovi arrivati’ della comunità dei supereroi… ma basterà?

Finalmente, quello che tutti gli appassionati di fumetti attendevano dalla famosa scena ‘post credit’ del primo Avengers; finalmente, tutto quello che gli appassionati del filone cinematografico aspettavano.
“Avengers Infinity War” arriva e (in larga parte) non delude: un gigante ipertrofico, sviluppato tra lo spazio e la Terra, pianeti devastati e New York, l’Africa e stelle morenti; gli Avengers si riuniscono per una battaglia campale nel Wakanda; Iron Man e Thor, col Dr. Strange e l’Uomo Ragno assieme ai Guardiani della Galassia nello spazio: botte da orbi ovunque come se non ci fosse un domani fino al finale ‘spalancato’ che apre le porte alla nuova fase dell’Universo Marvel su grande schermo, mentre all’orizzonte si profila l’arrivo di un nuovo ‘capitano’ – anzi: capitanA – che promette di essere l’unica veramente in grado di prendere a calci nelle terga il ‘cattivone’ di turno.

Si fa piacere, questa ‘Guerra dell’Infinito’: lasciando fuori dalla porta i raffronti col fumetto, avendo ormai assimilato la tendenza alle ‘battutine’ (che se non altro dono più dosate e non sparse ‘ad minchiam’ qua e là), si fanno apprezzare la ‘crisi d’identità’ di Banner, incapace di far riemergere un Hulk traumatizzato e un Groot metafora di un’alienazione giovanile solo apparente.

Il resto, come detto, sono ‘botte’, che per certi versi cominciano a dare l’impressione di ‘giá visto’; il finale però merita, perché – almeno per i meno smaliziati – lascia più domande che risposte: piccola rivincita per gli appassionati di fumetti, molto più ‘avvezzi’ a certe situazioni.

Chiudo con una nota personale: erano due che non andavo a vedere un ‘cinecomic’, da “Batman v Superman”; per la Marvel devo risalire a “Age of Ultron”: è stata una pausa ‘salutare’, che mi ha permesso di riconciliarmi col ‘genere’, affrontando questo film liberandomi del bagaglio di ‘pretenziosità’, tipico degli appassionati di fumetti.
Il discorso sarebbe lungo, ma va ormai serenamente accettato che i fumetti non sono i film, così come la Marvel di oggi non è quella di 15, 30, 45 anni fa. “Avengers Infinity War” promette divertimento e divertimento offre: questo alla fine può bastare.

P.S. Mentre pubblico su WP, mi accorgo di non aver fatto alcun riferimento agli attori, il che qualcosa vorrà effettivamente dire: alla fine, questo è uno dei film meno ‘recitati’ dell’intero corpus cinematografico marvelliano; si potrebbero giusto citare la buona prova di Josh Brolin come Thanos, per quanto trasfigurato dalla grafica computerizzata e l’apparizione di Peter Dinklage, beniamino dei seguaci di “Game of Thrones”; per il resto, veramente poca roba, con attori, a cominciare da Scarlett Johansson, che ormai ottengono perfino di rinunciare alla tinta dei capelli e altri che in tutta evidenza si limitano a svolgere un compitino, con poco o nullo coinvolgimento. L’impressione è di essere veramente alle soglie di un cambio generazionale e che i vari Downey Jr. (che ormai anche ‘a vista’ comincia a sembrare troppo ‘maturo’ per interpretare un supereroe), Evans e Ruffalo, siano ormai discretamente annoiati di vestire i panni degli Avengers; l’unico che sembra ancora ‘crederci’ in una certa misura è Chris Hemsworth; più coinvolte le ‘nuove leve’, anche se poi questo film non ha richiesto chissà quali ‘prove’ interpretative.

READY PLAYER ONE

In un non lontano futuro la popolazione terrestre, per fuggire da una realtà più o meno squallida, vive la maggior parte della propria vita connessa in rete, in un mondo virtuale – Oasis – in cui è possibile essere più o meno chiunque, costruendosi un’identità ispirata alle migliaia di personaggi creati nella storia dei fumetti, dell’animazione, del cinema, della tv e – ovviamente – dei videogiochi.
Tra le varie avventure che si possono vivere su Oasis, la più impegnativa è quella che James Halliday, defunto creatore di questo mondo, ha costruito su sé stesso e la propria vita e che come premio finale ha nientemeno che il potere assoluto sulla stessa Oasis.
Il giovane Wade, attraverso il suo alter ego Parzival, assieme ad un manipolo di compagni di avventura, si metterà alla ricerca della soluzione, per impedire che Oasis cada nelle mani di una multinazionale con pochi scrupoli, che replicherebbe anche su scala virtuale le differenze economiche della realtà, che qui vengono azzerate, o comunque stabilite dalla bravura dei giocatori, a prescindere dal loro livello sociale…
Steven Spielberg fa centro pieno: certo, gioca facile, colpendo al cuore della generazione che ha trascorso interi pomeriggi in sala giochi o davanti alle prime consolle attaccate ai televisori, ma anche a quella successiva, dei ‘millennials’ e dei giochi di ruolo online.
“Ready Player One”, più che da una storia ampiamente prevedibile, trae il 90% della sua linfa vitale dalla inesauribile sequenza di citazioni e ‘apparizioni’ che si susseguono senza un attimo di pausa, in un calderone che offre l’occasione di vedere insieme personaggi appartenenti ai vari reami della cultura pop destinati altrimenti a non incontrarsi mai.
E’ un film dal quale chi ama certi ‘mondi immaginari’, non può che uscire coi ‘capelli dritti’, emozionato e anche con un pizzico di commozione.
Il giovane cast, guidato da Ty Sheridan, svolge un ruolo marginale rispetto alle proprie controparti virtuali; Simon Pegg è un comprimario d’eccezione; Mark Rylance si farà ricordare nel ruolo del ‘demiurgo’ del mondo virtuale con proverbiali problemi di gestione dei sentimenti.
A Spielberg mi sento di muovere solo due appunti: il poco coraggio nell’esprimere il contrasto tra ‘reale e virtuale’, con la compagna d’avventura del protagonista caratterizzata solo da un difetto estetico trascurabile (il ‘grande pubblico’ forse non avrebbe gradito un/una protagonista ‘brutto/a), e il ‘pistolotto’ finale col quale, in modo un po’ scontato, si finisce per cantare le lodi della realtà rispetto all’immaginazione.
Questioni ‘filosofiche’ a parte, “Ready Player One” resta un memorabile esempio di gioco di prestigio grafico e visuale, una gioia per gli occhi e per il cuore.