Archive for marzo 2015

N-CAPACE

Essenzialmente, una lunga sequenza di interviste, a vecchi ed adolescenti: al centro, il passato per i primi e il futuro per i secondi, l’amore ed il sesso soprattutto, con situazioni e considerazioni che spesso e volentieri strappano la risata.
La provincia laziale (Terracina); la periferia romana – Tor Bellamonaca, lo storico quartiere di San Lorenzo, scorci di Testaccio e del centro storico.
Dirige Eleonora Danco, nota soprattutto per la sua attività teatrale, unica presenza dell’età di mezzo, che mescola al materiale documentaristico alcune sue performance in luoghi pubblici: lei su un letto posto in mezzo ad una strada, o che armata di piccone si ‘scaglia’ contro certe brutture architettoniche sorte a Roma negli ultimi decenni, dal nuovo mercato di Testaccio all’orrendo muro eretto a ‘recinzione’ della teca dell’Ara Pacis.
Eleonora Danco frappone alle considerazioni dei suoi intervistati le sue riflessioni, sul passato (dialogando spesso col proprio padre) e sul presente / futuro.
I vecchi parlano di ciò che è stato, rappresentando quasi il futuro dell’autrice, giovani parlano di ciò che è che sarà, costituendo una sorta di termine di paragone del suo passato.
L’evoluzione dei costumi, la diversità nell’approccio all’amore ed al sesso, dai percorsi obbligati e definiti di cinquant’anni fa alla ‘libertà’ di adesso (soprattutto per quanto riguarda le donne).
Il tratto comune alle due generazioni sembra essere l’inutilità della scuola: i primi non hanno studiato per poter fin da ragazzini aiutare gli adulti; i secondi in genere vedono la scuola come un impiccio, un ostacolo al raggiungimento di una rapida indipendenza economica di un’autonomia di vita; giovani che non aprono un libro perché gli si ‘incrociano gli occhi’ e che provano emozioni solo davanti alla ‘moto gp’.
Più che giudicarli, Eleonora Danco sembra mostrarci dei dati oggettivi, invitando a domandarsi perché la scuola finisca per ‘respingere’ le giovani generazioni, specie nelle realtà urbane più disagiate, il perché la lettura venga considerata un’attività inutile, del tutto priva di interesse…
Viene da pensare che i vecchi di paese o dei quartieri ‘paesani’ di Roma e i giovani della provincia e della periferia costituiscano proprio quelle categorie che non guarderebbero mai questo film, trasmesso magari nelle tipiche sale cinematografiche da ‘intellettuali’ (io l’ho visto nel non plus ultra di questo tipo di cinema, il ‘morettiano’ Nuovo Sacher); è come se Eleonora Danco ci avesse mostrato gli ultimi esempi di un mondo che va scomparendo, quello degli anziani, che da giovani aiutavano gli adulti nei campi e per i quali gioco e lavoro si mescolavano fino ad essere indistinti e allo stesso tempo avesse messo in scena il mondo dei giovani di provincia e borgata, così lontano da quello del pubblico del film…
Eppure alla fine, ci si ritrova: pur con tutte le differenze del caso, le esperienze sono sempre quelle, universali; le sensazioni, gli aneddoti, le speranze.
Un film divertente ed atipico.

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LEF, “NEW WAGUE 15” (O’DISC / AUDIOGLOBE)

La terza tappa del viaggio dei Lef riprende più o meno da dove si era conclusa la precedente: il precedente disco omaggiava il cinema espressionista tedesco, il nuovo si apre con un estratto da “M” di Fritz Lang, prima di compiere un consistente balzo in avanti, confermando quanto ci si aspetta da un lavoro che, fin dal titolo, appare omaggiare il cinema di Truffaut e Godart, nel contempo rivelando le proprie ascendenze sonore: “New Vague”, come un’ideale fusione tra ‘New wave’ e ‘Nouvelle vague’…

Trai nove brani (più una ghost track) presenti, titoli come ‘4 volte 100’ e ‘All’ultimo respiro’, oltre alla title track, sono un diretto richiamo a quella felice stagione del cinema francese, ma la band italo – inglese guarda anche ad un passato più recente, tra un ‘velluto blu’ che, citato in ‘Sessantanove’, appare un rimando a Lynch e una più esplicita suggestione in ’21 Grammi’.

Un disco profondamente ‘cinematografico’, e non solo per i titoli: scrittura ed atmosfere evocano immagini da film, storie o frammenti di pensiero narrate da personaggi colti spesso in ambienti urbani crepuscolari.

I suoni proposti dai sei componenti del gruppo discendono direttamente dagli ’80, tra new w vave e post punk, con il classico cantato – diviso tra italiano ed inglese – ‘profondo’ (vengono in mente, prevedibilmente, il primo Pelù, Federico Fiumani dei Diaframma ed Emidio Clementi dei Massimo Volume, in certi episodi quasi parlati più che cantati) affiancato a chitarre dall’elettricità abrasiva.

Un disco che poco aggiunge ad un sentiero già ampiamente spianato nel corso dei decenni, ma che ne offre comunque una rilettura discretamente efficace.

PRISTINE MOODS, “PRISTINE MOODS” (I DISCHI DEL MINOLLO / AUDIOGLOBE)

Si fa chiamare Matumaini, all’anagrafe Laura Masi da Bologna, una vicenda sonora già abbastanza corposa alle spalle, cui si aggiunge ora il progetto Pristine Moods, che la vede accompagnata da l’altrettanto navigato Gherardo Zauber e da Michele Venturi, più giovane ma già lanciato verso una luminosa carriera nel mondo del chitarrismo acustico.

Tutto, o almeno gran parte, nasce proprio da qui: dalla chitarra acustica e dall’idea del ‘guru’ Robbie Basho di associare ad ogni accordatura un colore / sensazione: in questo caso, il Pristine White, spesso utilizzato nel corso del disco.

Il bianco come ‘purezza’, come ‘assenza di contaminazione’ e, per estensione, di ‘pulizia’: fare spazio, mentalmente più che fisicamente, cercare un nuovo equilibrio e ritrovare la serenità liberandosi di tutto ciò che crea affanno: più facile quando si tratta delle ‘convenzioni sociali’, rappresentate da certi ‘canoni di abbigliamento’ imposti dall’etichetta; operazione più delicata e dolorosa quando di mezzo ci sono rapporti interpersonali, anche affettivi, se questi finiscono per portare tensioni; più genericamente, liberazione da tutto ciò che fa perdere tempo e forze emotive, mentali e fisiche, senza che vi siano risultati.

Un percorso, magari lento e placido, come le migrazioni delle balene, che può segnare una crescita, ma allo stesso tempo il ritrovamento dell’infanzia: si potrebbe tirare in ballo Leopardi, ma i Pristine Moods preferiscono chiamare in causa i fratelli Grimm.

Dieci brani che, incentrati sulla dimensione acustica, riportano direttamente a certi territori folk / country / bluegrass, mantenendo uno sguardo deferente alla tradizione, ma tenendo presenti anche le più attuali derivazioni ‘indie – alternative’ del genere. Matumaini imbraccia la chitarra – coadiuvata da Venturi – m a anche banjo, ukulele e mandolino, sposandoli efficacemente col theremin di Zauber che aggiunge al tutto il basso, in un viaggio spazio – temporale che va dalle paludi della Lousiana di inizio secolo, alle terre del nord disegnate da Eddie Vedder nella colonna sonora di “Into the wild”. Un itinerario che si snoda lungo undici brani, cantati con dolcezza da Matumaini, con Michele Venturi talvolta in appoggio.

Un lavoro tenue, a tratti evanescente, in qualche frangente più corposo, ma sempre all’insegna della discrezione, della calma, che anche dal punto di vista sonoro procede all’insegna della sottrazione, gettando via ogni inutile fardello per trovare una via verso un’esistenza meno votata a riempire freneticamente ogni spazio, forse meno movimentata, ma più serena.

FOXCATCHER

Il campione di lotta libera Marc Schultz si vede proporre da parte di John Du Pont, erede dell’omonima dinastia di industriali, appassionato dello stesso sport, di entrare a far parte di una sua squadra di professionisti, con la prospettiva di vincere l’oro alle Olimpiadi del 1988.
Marc accetta, anche per dimostrare a sé stesso di poter camminare da solo, uscendo dal cono d’ombra del fratello – allenatore Dave , verso il quale nutre un evidente complesso d’inferiorità.
Ben presto però, Du Pont non si rivela semplicemente il classico miliardario che può realizzare ogni suo capriccio grazie ai soldi: il soggetto, oltre ad essere afflitto dal classico complesso di Edipo, pur essendo ormai ultracinquantenne, si mostra subito come un soggetto inquietante, mentalmente disturbato, per quanto in apparenza innocuo. Il rapporto trai due, positivamente avviato, ben presto finirà col degenerare, coinvolgendo anche Dave.

Foxcatcher è un film sinistro, in un certo senso quasi gotico, per l’atmosfera plumbea e di tragedia imminente ed annunciata che si respira lungo tutta la storia: il regista Bennett Miller mette in scena uno psicodramma riuscito, se l’intento era quello di far alzare lo spettatore dalla poltrona con una certa inquietudine di fondo, addirittuna una vaga sensazione di disturbo.

La scena è pressoché totalmente monopolizzata dai due protagonisti: a destare l’impressione migliore è senz’altro Channing Tatum, che continua a compiere passi in avanti nel tentativo di mostrare che le proprie capacità vanno oltre la prestanza fisica di cui l’ha dotato madre natura e che lo renderebbe ideale per personaggi ultramuscolari ma con poco cervello: qui, riesce a rendere bene un personaggio divorato dall’interno da complessi ed insoddisfazioni che lo conducono a non godersi mai i propri successi; di fronte a lui, si pone Steve Carell, che abbina la carta della trasformazione fisica ad una scelta interpretativa lontana anni luce dalla commedia, sempre in bilico sul confine del demenziale, cui ci ha abituato; impresa riuscita e che gli ha fatto conquistare una nomination all’Oscar, anche se va sottolineato come nella versione italiana doppiata la sua interpretazione si perda quasi completamente e come tutto sia affidato al trucco.  Ultimo vertice dell’ideale triangolo, Marc Ruffalo, che dà efficamente il volto ad un fratello / allenatore / padre che pur sforzandosi forse non capisce fino in fondo i tormenti interiori del fratello minore; da segnalare una piccola partecipazione della grande Vanessa Regrave, sebbene quasi irriconoscibile per l’età avanzata, nel ruolo della madre di Du Pont. Ruoli di contorno anche per Sienna Miller ed Anthony Michael Hall (qualcuno lo ricorderà come protagonista della serie “La zona morta”).

Foxcatcher è senz’altro un film efficace, nel raccontare una storia che finisce per mettere vagamente a disagio lo spettatore, facendolo entrare in un labirinto fatto di personalità irrisolte e tormenti interiori che vengono a collidere in una serie di azioni e reazioni, abbracci e tentativi di divincolarsi, spinte e controspinte, in cui la lotta libera attorno a cui ruota il film diventa lotta psicologica tra psicologie tormentate ed in bilico sul crinale della follia.

DAN SOLO, “CLASSE A” (DS Records / AUDIOGLOBE)

L’amore è una brutta bestia: spesso e volentieri, porta sofferenza: quando finisce, ecco le recriminazioni, rimpianti, il tarlo del dubbio di essere nel torto, di aver sbagliato qualcosa; quando è in corso, talvolta, una bella dose di scazzi, tanto da far esplodere un bel: “Amore, sai che c’è? Mi hai rotto i coglioni”… eppure, quando comincia, o è alle prime battute, dà una sensazione di potenza, quasi di immortalità, dando l’idea di poter spiccare il volo come un’aquila, usare questa onnipotenza per proteggere il proprio amore dalla sofferenza…

L’esordio solista di Dan Solo (chi? Quello dei Marlene Kuntz, chiederà qualcuno: si, lui… storia chiusa da tempo, che in questo caso forse non è manco tanto importante), procede a ritroso, tanto che lo si potrebbe ascoltare a ritroso, dall’ultimo al primo degli undici pezzi presenti: è un amore che ferisce, quello di Dan Solo, un amore che rivela sempre qualche aspetto perverso: vissuto nell’idealizzazione di una donna che esponendo le proprie grazie all’obbiettivo di un fotografo si reincarna in una semidea greca; un amore vissuto meccanicamente e in modo veyeuristico sul set di un film porno (l’hardcore rappresenta, sarcasticamente, il “Nuovo cinema italiano”); o nei corridoi in chiaroscuro di un privè…

La via di salvezza è quella di guardare il tutto da una prospettiva esterna (come quella di una pallina di naftalina che assiste impassibile allo scorrere del tempo), o nella ridefinizione di sé, magari attraverso la ri-scoperta delle proprie radici…

Dan Solo, insomma, dà la sua personale lettura di un tema universale, guardandolo – ed interpretandolo – sotto una prospettiva sospesa tra rabbia e disillusione, attraverso una scelta stilistica che solo a tratti richiama le sue più o meno recenti esperienze sonore (tra scorie punk e noise) aprendosi a scelte melodiche (ma non per questo ‘facili’) maggiormente radicate nella tradizione cantautorale italiana e non disdegnando il ricordo all’elettronica, imbracciando il ‘fidato’ basso e lasciando chitarre e batterie ad un pugno di compagni di strada, col contributo in fase di produzione, di Max Bellarosa e di un collaboratore di vecchia data come Marco L. Lega.

Un esordio che apre una nuova fase della biografia musicale dell’autore, portando con sé il minimo indispensabile dal passato, lasciando spazio in abbondanza per ciò che verrà.

VIZIO DI FORMA

Nella California ‘strafatta’ degli anni ’70, il detective privato Larry Sportello (Joaquin Phoenix) si mette alla ricerca di una sua ‘fiamma’, scomparsa dopo essere stata coinvolta a sua volta nel caso del rapimento di un grande immobiliarista…
Quello dell’investigatore privato spiantato che finisce per avere a che fare con faccende più grandi di lui è un topos letterario e cinematografico ampiamente sfruttato; se però a metterci le mani sono prima Thomas Pynchon, uno dei nomi di punta della narrativa americana contemporanea, autore dell’opera originale, e poi Paul Thomas Anderson, regista non certo ‘canonico’ né facile, gli esiti possono essere imprevedibili.
“Vizio di forma” rispetta la previsione: una ‘chrime’ story votata alla commedia con accenti spesso e volentieri surreali, in cui il protagonista, perennemente in preda ai fumi dell’erba, si imbatte in una serie di personaggi  e situazioni altrettanto fuori di testa, tra comuni hyppies, dentisti tossicomani, esponenti delle forze dell’ordine che si credono Callaghan, piacenti donne in abiti succinti e con le cosce (e altro…) sempre in bella vista, che sembrano uscite direttamente da un softcore dell’epoca.

Paul Thomas Anderson ci ha abituato a film ‘non facili’: personalmente per me resta indelebile la memoria di “The Master”, che vissi come un’autentica tortura e che – con tutto il rispetto per il regista – ricordo come il peggior film visto negli ultimi anni… se non altro, stavolta il fatto di aver buttato tutto sul registro della commedia, e spesso della farsa, permette di superare abbastanza agevolmente l’ostacolo di una narrazione lineare ma frastagliata, piena di ‘non detti’, a base di svolte e deviazioni improvvise… del resto non poteva essere altrimenti, considerando il materiale di partenza: non ho letto “Vizio di forma”, ma ho conosciuto Pynchon  attraverso “L’incanto del lotto n.39”, e in quel caso si trattava di una vicenda contorta, che partiva in un modo e finiva per avere uno sviluppo imprevedibile.

Alla fine, senza farsi prendere troppo dalla vicenda di fondo, si riesce a godere “Vizio di forma” nel suo essere una sequenza di gag che nel loro essere ‘surreali’ non possono che generare una risata, con una galleria di personaggi esagerati e contemporaneamente un efficace ritratto  dell’epoca e, anche se in misura minore, un omaggio a certo ‘cinema di genere’ dell’epoca, dal poliziesco all’erotico; la ricostruzione storica è riuscita e coinvolgente, grazie a costumi, atmosfere musiche: imperdibile la tracklist, cui si aggiungono le sonorizzazioni di Johnny Greenwood dei Radiohead.

Joaquin Phoenix supera la prova della commedia, dopo tanti personaggi tormentati (da Johnny Cash allo stesso protagonista di The Master): in questo caso, siamo di fronte ad un personaggio perennemente ‘fatto’, che a tratti non riesce nemmeno a capire quello che gli sta succedendo attorno… spassosissima l’interpretazione di Josh Brolin nel ruolo del poliziotto tutto d’un pezzo, con echi del Callaghan Eastwoodiano; attorno, un manipolo di apparizioni tra le quali è memorabile quella di Martin Short; tra gli altri, merita almeno una citazione la presenza di Johanna Newsom, esponente di punta del folk americano contemporaneo, conosciuta soprattutto per la sua musica a base di voce ed arpa; per il resto, in ordine sparso, Benicio del Toro, Reese Whiterspoon, Owen Wilson e Jena Malone.

Un film non consueto, non facilissimo, ma in fondo godibile, che dopo “The Master” mi ha portato a riconciliarmi, almeno in parte, con Paul Thomas Anderson.

LESIGARETTE!!, “2+2=8” (AUTOPRODOTTO /ZIMBALAM)

2+2=8: la vita non è una scienza esatta e quando si trova un momento per fare i conti, raramente questi tornano. Spesso costretti a fare i conti con situazioni spiacevoli – riti, etichette, consuetudini – anche in quel mondo musicale spesso visto dall’esterno come il classico ‘paradiso di libertà artistica’, con vite stressanti attraverso le quali ci si deve barcamenare come dei funamboli, col rischio di vivere esistenze ai limiti – ed oltre – la nevrosi, la via per la salvezza risiede nei rari momenti in cui ci si riesce a tagliare attimi di serenità (magari al mare), in aneliti naturalistici (vivere come un albero), o più semplicemente nel fare definitivamente i conti con sé stessi, cercando magari approcci differenti, più rilassati e ironici all’esistenza.

Jacopo dell’Abate e Lorenzo Lemme la strada dell’ironia l’hanno scelta fin da quando hanno battezzato il proprio progetto musicale: il secondo frega le sigarette al primo, che tra l’altro vuole smettere, l’esclamazione è la prevedibile conseguenza: LeSigarette!! Il duo romano, voci, chitarra e batteria, dà vita ad un disco essenziale quanto virulento: nevrotico come la vita quotidiana, all’insegna di un post-hardcore dai ritmi frastagliati, che procede continuamente a strattoni, tra episodi debordanti e parentesi più dilatate, ascendenze funk e momenti dalla consistenza metallica. Essenziale nella strumentazione, arrembante negli esiti: sono in due e fanno casino per quattro…

Un lavoro ironico, che prende di mira le piccole – grandi psicopatologie della vita quotidiana, dando la sua personale lettura del classico tema del quanto tempo si perda appresso a futilità, quanto ci si roda il fegato appresso a problemi tutto sommato superflui… la migliore arma di difesa è prendere atto di quanto tutto ciò sia inutile e farci una risata sopra, magari sbraitando dietro ad un microfono e maltrattando gli strumenti.

PUNTINESPANSIONE, “L’ESSERE PERFETTO” (U.D.U. RECORDS / AUDIOGLOBE)

“L’essere perfetto” del titolo è quello che in molti (tutti?) ambiremmo ad essere… o forse solo ciò che la ‘società’ pretenderebbe che tutti fossimo… perfezione magari cercata – e simulata – attraverso le proprie ‘identità virtuali’, nei social network che consentono a chi vuole di costruirsi un’immagine di fittizia ‘perfezione’… Sia come sia, alla fine i nodi vengono al pettine, e la realtà dei fatti volenti o nolenti è sempre lì, a ricordarci che perfetti non siamo, fortunatamente, si potrebbe aggiungere.

I pugliesi Puntinespansione sono in circolazione ormai da tredici anni circa, durante i quali si sono tolti qualche soddisfazione, ottenendo anche riconoscimenti importanti, a partire dal Premio della Critica in occasione dell’edizione 2011 del concorso “Voci per la Libertà – Una canzone per Amnesty”. Al terzo lavoro sulla lunga distanza, il quintetto assembla nove brani che percorrono in lungo ed in largo nevrosi e controsensi del mondo di oggi, in cui l’uomo da ‘animale sociale’ è diventato un ‘animale da social network’, tra lavori in nero e situazioni sentimentali complicate, la pratica religiosa usata come ‘pretesto’ per ripulirsi rapidamente la coscienza e un generale senso di confusione… Rispetto all’inevitabile inadeguatezza di un mondo che richiede perfezione, la soluzione può essere il ritorno alla natura primigenia, il prendere come punto di riferimento modelli del passato, di chi ha lottato per un’ideale o, alla fine, fare i conti con sé stessi, cercando di riconoscere a accettare la propria identità, trovando un qualche senso di appartenenza.

La band dà al tutto una confezione sonora che si potrebbe dire abbastanza ‘consueta’, cercando di variare tra sonorità a tratti anche abbastanza ardenti, tra tonalità vagamente metalliche e frustate elettriche dalle ascendenze wave e momenti di maggiore tranquillità, all’insegna di un cantautorato dalla vena pop.

Un disco dominato da una certa ironia amara, che sul finale si apre all’ottimismo con “Succederà”, forse il miglior pezzo del lotto, incitamento al non scoraggiarsi e al conservare la speranza.

UN PICCIONE SEDUTO SU UN RAMO RIFLETTE SULL’ESISTENZA

Sono andato a vedere questo film praticamente solo per il titolo: fin da quando ne ho sentito parlare quando ha vinto la Mostra di Venezia, mi sono detto: “questo film lo devo vedere assolutamente, ha un titolo talmente assurdo e ‘repellente'”, da dover essere assolutamente visto…

‘Repellente’, ovviamente, per lo ‘spettatore medio’: diciamocela tutta, leggi “Un piccione seduto su un ramo…” e pensi subito a un’atmosfera da cineforum pretenzioso, modello Fantozzi, per intenderci… Un titolo appunto, talmente ‘respingente’ nei confronti del pubblico ‘da blockbuster’, da pensare che difficilmente in tempi brevi uscirà un film con un titolo così  – volontariamente o meno – supponente. Leggi “Un piccione…” e ti viene da pensare: “Lasciate ogne speranza, o voi ch’entrate… in sala”.

Mi reputo un amante del cinema, di cultura medio-alta; fortunatamente sono una persona sufficientemente curiosa e allo stesso sufficientemente aperta da non negarmi l’alto e il ‘basso’, se vogliamo: capace di godermi i supereroi fracassoni e allo stesso tempo commediole italiche (ad eccezione di certa comicità ‘regionale’ – penso a Ficarra e Picone, Siani, etc… o delle commedie natalizie che sbancano il botteghino), film ‘impegnati’ e pellicole ‘leggere’.

Tuttavia anche io ho i miei limiti: il cinema ‘d’arte’ l’ho sempre coperto poco: intendiamoci, non ho preconcetti, più che altro mi mancano le occasioni, c’è sempre qualcosa di più interessante da vedere… raramente mi è capitato di andare a vedere al cinema i film vincitori dei Festival, a meno che non si sia trattato di film comunque destinati al ‘grande pubblico’; per me il massimo credo sia stato andare a vedere “The tree of life” di Malick, “Melancholia” di Von Trier, e già li mi sono alzato dalla poltrona con più domande che risposte…

Sia come sia, davanti ad un titolo come “Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza” non ho resistito: andiamo va, vediamo l’effetto che fa… l’effetto è stato, più di quello di vedere un film, di affrontare una gara di resistenza… gara credo almeno in parte persa, visto che ad un certo punto ammetto che la palpebra è calata e la mente per qualche minuto è precipitata nel rassicurante abbraccio di Morfeo…

“Un piccione…” (il regista è lo svedese Roy Andersson) è articolato in una serie di scene di vario argomento, tutte riprese con la telecamera fissa, con l’effetto di una sorta di galleria di quadri: l’aspetto migliore del film per me è stata proprio questa sensazione, provocata dalla luminosità che domina tutto il film che a dirla tutta è fantastica… per il resto, non c’è una vera storia: ci sono un paio di personaggi ricorrenti, una coppia di venditori di scherzi di carnevale che tentano di piazzare la propria merce con poco successo; per il resto i temi sono i ‘massimi sistemi’: nascita, morte, amore, guerra, incomunicabilità, la crudelta degli esseri umani verso i loro simili e gli altri esseri viventi (in quest’ultimo caso, due episodi sono raggruppati sotto il titolo “Homo Sapiens” e il modo in cui è stata resa la questione è talmente agghiacciante da affascinare).

Vedendo il film a me sono venuti in mente, alla lontana e con tutte le cautele del caso, certi sketch dei Monty Python o di “Cinico Tv”: certi personaggi sarebbero stati efficaci anche in quei casi, così come alcune situazioni: naturalmente l’elemento ‘comico’ è quasi del tutto ‘depurato’, seppure bisogna ammettere che lungo tutto il film scorre sempre una certa qual ironia, come a sottolineare l’assurdità dell’umana esistenza.

La lentezza esasperante, la rarefazione dei dialoghi e delle battute che rompono un silenzio a tratti opprimente per quanto mi riguarda hanno reso il film abbastanza indigesto: alla fine, è come se, pure se su un piano squisitamente intuitivo, abbia compreso perché di questo film si sia parlato come un capolavoro e sia stato premiato a Venezia; così come non me la sento di dire che mi sia piaciuto, non posso di certo affermare che sia un brutto film: forse proprio perché, non frequentando abitualmente un certo tipo di cinema, sono in fondo privo degli strumenti per poter darne un giudizio compiuto.

PAGLIACCIO, “LA MARATONA” (COSTELLO’S RECORDS)

Secondo lavoro sulla lunga distanza per i Pagliaccio, trio di stanza a Biella, che già un paio di anni fa, col primo lavoro “Eroironico” aveva avuto modo di farsi apprezzare, calcando i palchi affiancando Marleme Kuntz, Africa Unite e Lo stato sociale tra gli altri.

Con quel nome, e con un esordio con quel titolo, è facile pensare che i Pagliaccio non prendano troppo sul serio le cose e lo stessi; del resto, a pensarci al giorno d’oggi a prendere la vita troppo sul serio, specie se si hanno trai 30 e i 40 anni, si rischia di cadere in depressione… e allora, a dispetto di tutto, è meglio guardare alle cose con animo almeno ironico, cercando, anche se è difficile, di riderci un po’ su.

“La maratona” del titolo è classica metafora della vita, gara di resistenza tra mille difficoltà; gara, soprattutto, con sé stessi, coi propri pregi, difetti, limiti: paragone indubbiamente scontato, se vogliamo, ma comunque sempre utile…

I dieci brani che compongono il disco buttano uno sguardo a volo d’uccello sulla generazione a cavallo degli ‘anta ed oltre’, per mentalità o necessità costretta a restare giovane fino a 50 anni e ad assistere con invidia all’esistenza tranquilla degli ottantenni che si godono la pensione assicurata (o almeno, quelli che su una pensione dignitosa possono contare), mentre dall’altra parte si vive all’insegna della precarietà, in attesa – o alla ricerca – di un’occasione per sistemarsi che tarda ad arrivare o appare decisamente restia a farsi trovare. Occasione che a volte si cerca anche quando il lavoro lo si ha già, per poter finalmente soddisfare le proprie aspirazioni, o semplicemente per dimostrare qualcosa a sé stessi, alla famiglia, agli altri.

L’incertezza lavorativa si espande a macchia d’olio su tutta la propria esistenza, a cominciare dalle relazioni interpersonali ed affettive (anche se il brano più ottimista di tutto il lotto racconta la storia d’amore stra-ordinaria, di una coppia di ciechi) fino alla crisi d’identità, al non essere più sicuri di cosa si vuole veramente… sempre insoddisfatti per una qualche mancanza.

Ci si rifugia nei ricordi delle partite a pallone dell’infanzia, o in una rassicurante quotidianità domestica, o si cerca di riempire i tempi morti e la paura di restare soli, attraverso un profluvio di impegni ‘sociali’ (corsi, volontariato, etc…) che alla fine rappresentano solo la via per colmare vuoti di altro tipo… in attesa di tempi migliori, forse è meglio buttarla su ridere: il brano conclusivo è una fiera rivendicazione della natura ‘pagliaccesca’ della band, a dispetto di tutti quelli che pur essendolo, di essere dei pagliacci magari manco se ne accorgono.

I Pagliaccio raccontano tutto questo con un pop-rock solare e allegro, dalle molteplici sfumature, debitore della classica tradizione della canzone italiana, frequentemente corredato di profumi retrò, tra allusioni surf, ska, qualche suggestione beat. Il tono è scanzonato, per quanto i testi siano caratterizzati da una certa amarezza di fondo… o forse non sono i testi, ad essere amari: è la realtà circostante, ad esserlo.