Archive for the ‘cultura’ Category

RIO 2016: QUELLO CHE RESTA

L’irruenza giovanile di Fabio Basile – judo.
Il sorriso timido, quasi disarmante, di Niccolò Campriani, e il suo quasi scusarsi con l’avversario dopo la vittoria del secondo oro – tiro a segno.
L’abbraccio tra Diana Bacosi e Chiara Cainero, protagoniste di una finale tutta italiana – tiro a volo.
La concentrazione, la forza ‘calma’, l’intensità agonistica interiore dei ragazzi e delle ragazze del tiro con l’arco.
Le lacrime incredule di Gabriele Rossetti – tiro a volo – e liberatorie dii Elia Viviani – vincitore di un oro nel ciclismo su pista per una Nazione priva o quasi di velodromi dove allenarsi e gareggiare.
I sorrisi di Tania Cagnotto e Francesca Dallapè, dopo le medaglie tanto attese e finalmente arrivate, all’ultima gara.
Le lacrime trattenute di Federica Pellegrini, che vabbè, tanto simpatica non sarà, ma è pure lei una che si è fatta i suoi bravi sedici anni e passa di fatica e in fondo parlare di lei come se la medaglia fosse un ‘obbligo’ è stato anche ingeneroso.
La delusione di Vanessa Ferrari, la migliore ginnasta italiana della storia, per una medaglia sfuggita all’all’ultimo ‘atterraggio’ sulla pedana;
delle ragazze della ritmica, per un terzo posto sfuggito per 0,20 punti;
del pentathleta Riccardo De Luca, autore di una fantastica rimonta, finita sul più bello;
di Frank Chamizo, lotta libera, per un terzo posto che voleva essere qualcosa di più;
dei ragazzi della pallavolo, per un sogno dal quale sono stati svegliati fin troppo bruscamente;
della marciatrice Eleonora Anna Giorgi, che si è vista bloccare una gara per squalifica, il modo più crudele per chi pratica questa disciplina;
di Flavia Tartaglini, prima a una regata dalla fine e poi non arrivata nemmeno sul podio;                      I sorrisi amari del Settebello e del Setterosa, perchè contro quei ‘mostri’, al momento proprio di più non si poteva fare;
quelli di Rossella Fiamingo e Elisa di Francisca, per ciò che stava per essere e non è stato.
La dedica della nuotatrice di fondo Rachele Bruni, capace in due frasi di mostrare come si possa vivere con assoluta naturalezza un amore che in altri contesti diventerebbe un campo di battaglia tra fazioni.
Le testimonianze di quelli, per tutti cito Jeanine Cicognini – badminton, la cui partecipazione si è purtroppo ridotta solo a una comparsata, ma che avrebbero voluto sicuramente ottenere di più.
I saluti finali di Usain Bolt e Michael Phelps: la fine di due ‘regni’ nella storia delle Olimpiadi: ora si aprono due pagine completamente nuove;
l’inizio, invece, della ‘monarchia’ della stupefacente Simone Biles nella ginnastica.
Le inguardabili divise dell’Italia, all’insegna di blu scurissimo (o nero) che non c’entra nulla con lo storico azzurro, e con un ‘7’ dominante, a richiamare lo sponsor, che faceva pensare che la nostra fosse la rappresentativa dell”Armania’ e non dell’Italia: una scelta demenziale, per la quale naturalmente non pagherà nessuno.

Tutto il resto: gioie per medaglie vinte, rosicamenti per quelle mancate, o per quelle arrivate, ma che sarebbero potute essere più pesanti.
Abbiamo assistito ad atlete che durante una gara si fermano per sostenere un’avversaria in difficoltà e a proposte di matrimonio ai piedi del podio.

L’Italia conclude le Olimpiadi con lo stesso risultato di Londra 2012, sia per numero complessivo di medaglie che di ori; la prevalenza degli argenti rispetto ai bronzi segna un lievissimo miglioramento; la posizione nel medagliere, sia per ‘valore’ che per ‘numero di medaglie’ è analoga a quella del 2012.
Il classico risultato su cui si potrebbe discutere a lungo: per me però l’obbiettivo deve essere quello di migliorarsi sempre e l’Italia è rimasta sostanzialmente ferma.

Restiamo lontani dai nostri ‘avversari storici’: la Francia porta a casa 42 medaglie, la Germania 43; il Giappone, che per molti versi è simile a noi (una nazione demograficamente ‘vecchia’, con seri problemi economici, soprattutto di debito pubblico), vince 41 medaglie. La ‘piccola’ Nuova Zelanda (poco più di cinque milioni di abitanti), si porta a casa 18 medaglie; il Canada (fino a poco tempo fa una Nazione da ‘Olimpiadi Invernali’ o poco più) ne vince 22…

I problemi del sistema sportivo italiano sono sempre gli stessi: la sostanziale mancanza di ‘cultura sportiva’: il quotidiano più venduto parla di sport, ma alla fine le prime pagine sono dedicate quasi esclusivamente al calcio e ai motori (sulla cui reale ‘natura sportiva’ ci sarebbe molto da ridire).
Le tanto celebrate superstar italiane dell’NBA alle Olimpiadi manco ci sono arrivate (come del resto i ragazzini viziati del pallone); non si capisce nemmeno perché la pallacanestro qui sia considerata solo ‘roba da maschi’ e le ragazze non riescano mai a qualificarsi: ma che cosa abbiamo noi, meno della Spagna, per dire?

Abbiamo delle ‘eccellenze’, certo, sulle quali bisogna investire per diventare ancora più forti: la scherma, le discipline di ‘tiro’, la pallanuoto, la canoa e il canottaggio che stanno mostrando segni di ‘ripresa’, ma ci sono dei ‘casi’ disarmanti: ma qualcuno ha capito perché qui per dirne due, la pallamano e l’hockey su prato vengono del tutto ignorati, mentre in Francia e Germania, hanno una ben maggiore considerazione?

I ‘talenti’ vengono scoperti sempre o quasi per caso: quanti campioni si sono persi a causa di genitori patiti del ‘pallone’ che li hanno mandati a scuola calcio, fallendo, anzichè provare a fargli fare altro?
Una diffusa visione dello sport come ‘modo per fare soldi’, per cui genitori danno un pallone ai figli nella speranza che diventino i nuovi Totti, o peggio li mettono in sella a una minimoto, pensando che siano i nuovi Valentino Rossi.
Un ruolo poco incisivo, quando non totalmente latitante, della scuola, che dovrebbe individuare la ‘propensione sportiva’ dei ragazzini, ma che nei fatti va poco oltre piazzare una rete in mezzo alle palestre.
La cura delle attitudini sportive dei ragazzini lasciata a famiglie che non hanno alcun sostegno nelle scelte, a parte quello di qualche medico di famiglia illuminato che consiglia l’una o l’altra attività.
Un ‘sistema’ ancora basato sul modello, sempre più sorpassato, dei gruppi sportivi militari; gli scarsi investimenti dei privati.
La mancanza di strutture: certo, siamo pieni di piscine o palestre private, per carità, ma poi le palestre scolastiche e liceali hanno la proverbiale ‘rete da pallavolo’, o poco più; i parchi pubblici sono poco o nulla attrezzati, le piste ciclabili fanno a zig zag nel traffico, mancano gli impianti sportivi ‘specializzati’: che il nostro sport abbia ‘prodotto’ Cagnotto, Dallapè o Elia Viviani, vista la mancanza di strutture adeguate, ha del miracoloso.

Certo, uno potrebbe dire: ammazza, con tutti ‘sti problemi restiamo tra le dieci nazioni con più medaglie al mondo… a me piace pensare: chissà dove saremmo se in Italia avessimo una reale e diffusa ‘cultura sportiva’, con tutto ciò che da questa deriverebbe.

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PORTE APERTE

Quello di cui ancora non sembra ci sia resi conto, è che quello delle ‘migrazioni’ è un fenomeno che non può essere arrestato: non si può impedire il sorgere del sole, non si possono impedire le migrazioni.
Respingimenti, muri, affondamenti dei barconi, tutto inutile; come quando c’è una perdita: l’acqua trova sempre la sua ‘strada’…

 

L’UOMO E’ MIGRANTE

Domandiamoci perché l’uomo, all’inizio della sua storia, abbia sentito l’esigenza di oltrepassare i confini dell’Africa, sciamando poi per tutto il mondo; domandiamoci perché gli uomini hanno sempre ‘migrato’ per necessità o semplice voglia di esplorare l’ignoto, percorrendo in lungo ed in largo il pianeta, e addirittura andando a volare nello spazio circostante; domandiamoci perché, di fronte a situazioni insostenibili ‘in casa’ – dittature, carestie, mancanza di lavoro – gli uomini non hanno mai affrontato con decisione il tema del cambiamento delle condizioni della propria casa, scegliendo sempre e comunque di migrare.
Allora? Allora bisogna prendere il fatto che lo ‘spostarsi’ fa parte del dna dell’uomo; poco importa che, effettivamente, noi viviamo in una società occidentale che – almeno apparentemente – fa della stanzialità il suo principio (ma è poi vero? Quanta gente cambia luogo di vita per ragioni di lavoro, amore, insoddisfazione per lo ‘status quo’ circostante?).
Quindi è inutile immaginarsi un mondo in cui ‘ognuno se ne resta a casa sua’, specie se questa ‘casa sua’ è vessata da dittature, guerre, carestie.
DITTATURE, CARESTIE, ETC… I PROBLEMI ALLA RADICE DI CUI NESSUNO PARLA

L’Occidente ha certo le proprie responsabilità… Il problema non è nemmeno la Libia, alla fine: si dice che l’Italia è un ‘luogo di transito’ verso il resto d’Europa; ma anche la Libia è un luogo di transito: sappiamo bene che la stragrande maggioranza dei migranti viene dalla Siria, dall’Eritrea, da nazioni dell’Africa profonda… Mi chiedo perché tutti ciarlino della soluzione della situazione libica e nessuno – per esempio – dica una parola riguardo l’abbattimento della dittatura in Eritrea: qualcuno per caso ha fatto il conto di quante imprese europee hanno rapporti con quel regime, e gli altri dai quali fuggono tanti migranti? Il classico ‘circolo vizioso’: situazioni create dagli europei, con le quali gli europei non vogliono fare i conti… Alla base del principio dei ‘campi profughi’ in Libia, sembra esserci l’idea che la suddetta Libia debba diventare un enorme punto di raccolta e blocco dei migranti; ma questo certo non risolve il problema: perché nessuno parla di risolvere realmente i problemi dell’Africa?
Si dice spesso ‘aiutiamoli a casa loro’: ma aiutarli a casa loro significa abbattere le dittature o investire miliardi di euro nella costruzione di infrastrutture idriche che aiutino a combattere la siccità e la carestia…
La politica ragiona sul breve termine: non si può certo spiattellare in faccia alle opinioni pubbliche tedesche, italiane, francesi che per risolvere la questione degli immigrati bisognerebbe versare miliardi di euro di tasse per migliorare la situazione in Africa?
LA NON SOLIDARIETA’ EUROPEA – I POLACCHI DALLA MEMORIA CORTA

L’atteggiamento tedesco e francese di fronte alle richieste italiane – tutto sommato plausibili – di ‘fare un po’per uno’ erano prevedibili: i francesi hanno già i loro problemi con la loro politica di integrazione fallimentare che li ha portati a crescere i terroristi in casa propria; i tedeschi sono degli utilitaristi che accolgono solo quelli che gli hanno comodo, non hanno alcun della solidarietà e dell’umanità: non ne hanno mostrate ai tempi dell’Olocausto, non mostrano oggi, i tedeschi sono sempre quelli.
Stupisce e delude un po’ l’atteggiamento dei polacchi: proprio loro, che per vent’anni sono venuti qui in Italia a lavare i vetri cercando un domani migliore, oggi sono trai primi avversatori di qualsiasi politica di accoglienza. Complimenti, veramente. La memoria è corta, ovunque.
LA POLITICA ITALIANA E GLI AFFARI SULL’IMMIGRAZIONE

La politica italiana fa schifo: i politici italiani (con poche eccezioni) fanno schifo; la questione dell’immigrazione è risaputa da almeno un decennio: nessun Governo di quelli succedutisi nel tempo ha fatto un beneamato cavolo per gestire il fenomeno. Attenzione, non per incompetenza, ma per calcolo: costruire centri di permanenza ed identificazione, riadattare edifici in disuso, sarebbe costato poco; si è preferito non farlo? Perché in Italia la politica da anni fa affari sull’emergenza… quando c’è una situazione di ‘emergenza’ saltano le regole, si possono sveltire procedure, dare appalti agli amici senza tanti problemi, intascarsi le tangenti. Le vicende di Mafia Capitale, col business dell’accoglienza e quella più recente del CARA di Mineo, stanno lì a dimostrare che la politica italiana nell’emergenza ci sguazza e ci guadagna, facendo i soldi sulla pelle di chi cerca di arrivare qui. Un Paese civile, ben sapendo che prima o poi la ‘bolla’ dell’immigrazione sarebbe scoppiata, si sarebbe preparato per tempo; non l’Italia, dove i politici in genere si muovono solo se per loro o i loro referenti c’è un tornaconto; e il tornaconto, appunto, arriva in particolare quando scoppiano le emergenze: la situazione di fronte alla quale ci troviamo è stata voluta e calcolata.

 

CONSIDERAZIONI FINALI

Sarebbe ora che qualcuno dicesse una parola di verità: che le migrazioni non si possono arrestare e che se continuiamo con questa politica del ‘troviamo il modo per non farli arrivare’, prima o poi qualcuno da quelle parti se la legherà al dito e magari farà piovere dei missili sull’Europa per punirci; ci si deve rendere conto che la Storia cammina, e che l’Europa è destinata a diventare sempre di più un mix di etnie, culture e religioni: ci sarebbe bisogno di classi dirigenti ‘illuminate’ per gestire il fenomeno, ma ci ritroviamo con Renzi, Hollande, Salvini, Le Pen, Merkel e via dicendo… prima ci si rende conto che l’unico modo di affrontare la questione è spalancare le porte e accogliere chiunque voglia venire qui, nel frattempo affrontand osul serio le radici del problema, meglio è; altre soluzioni sono dei ‘pannicelli caldi’ ideati dai nostri politicanti per salvare carriere e portafoglio e passare a chi verrà dopo il problema, facendolo incancrenire.

Aprire le porte subito, altrimenti temo che la Storia ci farà pagare il conto, che sarà molto più salato di quello di vedere qualche milione di africani in più girare per l’Europa…

RIFLESSIONI

Gli spunti di riflessione su quello che è successo a Parigi sono tanti; la vignetta del “Charlie Hebdo” che ho postato potrebbe – in qualche caso – essere ritenuta offensiva, ma il punto è proprio questo: difendere la libertà di espressione, che sia essa informazione, satira, o quello che volete voi, quando ci si esprime in modo educato ed in punta di forchetta è troppo facile; non voglio tirare in ballo il solito motto di Voltaire, ma è un fatto che, vivaddio, in Occidente è sempre – o quasi – possibile esprimersi come si vuole: pensate alle prime pagine dell’italiano Vernacoliere, che prende di mira non solo la politica, ma anche il Papa o il Vaticano… pensate alle bordate sparate da certi quotidiani di destra o sinistra, e via dicendo… se poi qualcuno si sente offeso, può sempre ricorrere alla magistratura; pensate a certa satira che, anche a casa nostra, a volte prende di mira i dogmi della religione cattolica; può non piacere, essere ritenuta offensiva e volgare, ma di certo, non si è mai imbracciato un fucile andando a fare una strage nella sede di un giornale…

Non si può ‘limitarsi’: non si può dire in alcun modo ‘eh, però se la cercano’: siamo qui, la nostra cultura è questa; non è possibile stabilire dei paletti, solo perché qualcuno si sente offeso, perché se oggi cominciassimo con la satira, domani diventerebbe l’abbigliamento e dopodomani magari le donne che guidano… chiunque si può sentire offeso per qualsiasi cosa, ma ciò non è sufficiente a imbracciare un fucile; tantomeno è pensabile che si debbano mettere dei paletti alla qualsiasi cosa perché qualcuno si sente offeso… se qualcuno si sente offeso da certi aspetti della società in cui vive, ha varie strade:  protestare civilmente, creare un partito e vincere le elezioni per  cambiare le cose, oppure prendere armi e bagagli ed andarsene altrove, dove la satira religiosa non è ammessa, per esempio; ma romperci le palle per come siamo, quello che diciamo, quello che facciamo, come la pensiamo, proprio no. Tanto meno dovremmo sentirci in colpa noi, perché siamo quello che siamo.

Da parte dei rappresentanti delle comunità islamiche, c’è sempre il tenue distinguo: certo si condanna su tutta la linea – e ci mancherebbe pure – ma poi si fa notare, per quanto educatamente e sottovoce, che però per l’Islam certe cose sono offensive… saranno pure offensive, ma non si può ammettere come reazione le sparatorie e gli ammazzamenti… non basta più la condanna: da parte delle comunità islamiche è necessario isolare preventivamente le mele marce e denunciarle. Non so quanto si sia progrediti su questo punto; ho come l’impressione – ma posso sbagliare – che di strada ce ne sia ancora da fare parecchia… Mi chiedo, a proposito di quanto successo in Francia, quanti sapessero o almeno sospettassero: è impossibile che due – tre persone possano caricarsi di armi e preparare una cosa del genere senza che nessuno tra chi li circondava se ne sia accorto… oppure a circondarli erano solo persone che hanno partecipato all’organizzazione, e allora ci sarebbe veramente da preoccuparsi…

Ci sono atteggiamenti cui mi trovo di fronte ogni giorno che trovo francamente intollerabili, ma non ho mai imbracciato un fucile, per dire; poi i pazzi, le menti deboli e facilmente influenzabili ci saranno sempre; il problema nasce quando qualcuno se ne approfitta, facendo dell’islamizzazione dell’Europa e dell’imposizione di certe interpretazioni estreme del Corano un programma politico.
A lungo dopo l’11 settembre ho pensato che tutto dipendesse in ultima analisi dalla povertà e dalle differenze macroscopiche che ci sono nel mondo; ho continuato a ripetermi che se il mondo fosse più giusto, l’odio per chi ‘ha di più’ sarebbe meno diffuso e l’estremismo farebbe meno presa; col tempo però mi è venuto qualche dubbio e dopo ieri i dubbi aumentano: ragionando all’estremo, il World Trade Center poteva essere ritenuto il simbolo delle ingiustizie economiche del mondo; la sede del “Charlie Hebdo” è invece il simbolo della libertà di espressione; non è più uno scontro tra un Occidente opulento e una buona fetta del mondo povera; è diventata la guerra tra chi pensa che ognuno possa dire ciò che vuole e quelli che chi invece che tutti debbano parlare, pensare e comportarsi come dicono loro; il che è tutto un altro paio di maniche.

L’impressione, insomma, è che se anche ricchezza e benessere si diffondessero in quei luoghi del mondo dove l’islamismo radicale fa proseliti, la loro guerra non si fermerebbe comunque: troverebbero comunque un pretesto per attaccarci: oggi è la satira, domani diventerà la concezione della donna, dopodomani perfino le abitudini alimentari… Ho l’impressione che da quelle parti riuscirebbero a trovare qualche fanatico pronto a compiere una strage in un’enoteca in virtù del fatto che l’Islam proibisce gli alcolici.

Purtroppo credo bisogni entrare davvero nella logica di essere sotto attacco: dobbiamo guardarci intorno e capire che c’è in giro gente che non tollera il nostro modo di vivere e che ha come obbiettivo quello di imporci il loro con la violenza e con le armi, e agire di conseguenza.

Ieri quell’infame miserabile urlava per strada che “Charlie Hebdo è stato ucciso”: sappiano loro e tutti quelli come loro, che Charlie Hebdo è vivo più che mai e continuerà a vivere a lungo nel sacrosanto diritto che tutti qui abbiamo di dire e pensare ciò che vogliamo. Non pensino di poterci tappare la bocca.

# JE SUIS CHARLIE

EUROPA: IL PROBLEMA E’ CULTURALE

Riflettevo sul  fatto che alla fine, ancora più che economico o politico, il problema europeo è culturale: l’Unione Europea è stata costruita con una mancanza di cultura abissale. Pensate alla democrazia e alla filosofia greche, al diritto romano, alla cultura delle comunità monastiche medievali, all’Umanesimo fiorentino, all’Illuminismo francese e al Romanticismo tedesco; pensare alla cultura come sapere scientifico, da Euclide alla Rivoluzione Industriale, passando per Leonardo, Galileo, etc… estendiamo il concetto perfino alla ‘cultura sportiva’: le Olimpiadi, antiche e moderne, sono ‘roba nostra’… e non parliamo poi dello sconfinato patrimonio artistico… Ora, chiediamoci: che ruolo ha avuto tutto questo nella costruzione delle istituzioni europee? Nessuno, per usare un eufemismo; un ca**o di niente, per ricorrere ad un’espressione più greve, ma calzante.

Nella creazione dell’Europa ‘unita’, la cultura è stata sistematicamente lasciata fuori dalla porta: non parlo solo degli ultimi vent’anni, da Maastricht alla creazione dell’euro; sia la CEE (Comunità Economica Europea), sia la sua precorritrice CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio) nascono con una preponderante – se non esclusiva – vocazione ‘economica’; ad unire l’Europa, sono stati dunque, fin dall’inizio, solo i soldi: con tutto il patrimonio culturale che abbiamo, non si è trovato nulla di meglio se non costruire le ‘istituzioni europee’ sul denaro, sul frega – frega delle banche, su un sistema economico, specie dopo il crollo del comunismo, sempre più basato sul benessere di pochi contrapposto al disagio dei tanti:  e dunque, ora ci meravigliamo pure se in Europa sfondano i movimenti contro l’Europa… ma di grazia, ma si può pensare che una creazione come l’UE possa reggersi solo sull’economia?

Pensiamo agli Stati Uniti: si sono costruiti un ‘patrimonio culturale condiviso’, basato su ‘miti’ come quello dei Padri Pellegrini o della ‘Frontiera’: pensiamo a come quest’ultimo abbia continuato a tornare nella politica americana, a come Kennedy lo usò per coinvolgere la nazione nella corsa allo spazio, a come  abbia intriso anche la cultura popolare americana, dal cinema western allo ‘spazio, ultima frontiera’, di Star Trek.

Cosa è stato fatto di analogo, in Europa? Nulla, e quel poco che c’era è stato spazzato via: prima dell’Euro, la CEE usava una sorta di ‘valuta virtuale’, l’Ecu, ovvero lo ‘scudo’, che nel nome conteneva in un certo senso il retaggio dei secoli passati… quando si è arrivati alla moneta unica ‘reale’, si è buttato l’Ecu alle ortiche preferendo l’Euro, un nome asettico che non vuole dire nulla; non si è nemmeno avuto il coraggio di usare monete con effigi comuni a tutti, preferendo cambiare di volta in volta a seconda della Nazione (con conseguenze a volte ridicole: vorrei capire quanti in Italia, mettendosi una mano in tasca  e prendendo una moneta da 20 centesimi, sanno il titolo dell’opera e dell’autore… per la precisione:  ‘Forme uniche nella continuità dello spazio’, Umberto Boccioni).

Gli Stati Uniti hanno costruito almeno in parte ex novo il proprio patrimonio culturale, prendendo ovviamente le mosse da quelli dei vari popoli che si sono fusi nel cosiddetto ‘melting pot’… In Europa, nulla del genere: si sarebbe potuto e si sarebbe DOVUTO, costruire fin dal secondo dopoguerra un’identità finalmente condivisa, facendo capire che in fondo Euclide, Leonardo da Vinci, Voltaire e  Goethe fanno parte di un patrimonio unico e condiviso… non lo si è fatto, e il risultato, per dirne una, è aver permesso che  una nazione arrogante  e tracotante come la Germania trattasse come una pezza da piedi la Grecia, culla della democrazia e della filosofia. Insomma, per costruire così male una ‘comunità europea’ bisogna proprio essere stati dei deficienti, altro che sbandierare  De Gasperi, Schuman Adenauer, via via fino a  Koll, Mitterand, Prodi e via discorrendo… saranno pure i ‘padri fondatori’ e i loro illustri successori, ma hanno dimostrato di non aver capito nulla, o peggio, sapevano benissimo quali danni stavano provocando, ma se ne sono fregati volutamente… e oggi ci ritroviamo a dipingere come un mezzo eroe Draghi, un banchiere che probabilmente fa parte di coloro che ignorano quale opera sia raffigurata sui 20 centesimi italiani…

La cosa peggiore, è che si continua a parlare di politica europea  e di economia europea, e si continua a lasciare fuori da ogni riflessione la cultura europea: di questo passo, tanti auguri: magari i banchieri e gli industriali continueranno a fare soldi e i politici ad accumulare potere, ma una vera ‘Unione Europea’ non l’avremo mai.

RAI: (NON) SI STAVA MEGLIO QUANDO SI STAVA PEGGIO

La RAI ha compiuto nei giorni scorsi 60 anni di storia: alcuni hanno fatto notare che se si considera anche la radio, siamo a 90. L’evento ha offerto la classica occasione per le celebrazioni di rito, ricordi, etc… col solito piagnisteo di contorno su quanto fosse bella la RAI ‘educativa’ di un tempo rispetto ad oggi…  Eppure: ma siamo sicuri che la ‘RAI’ di una volta fosse tanto meglio di quella di oggi? Vogliamo proprio dire che un canale solo, in bianco e nero, fosse meglio dei 14 a colori di oggi? Certo, è vero che in 60 anni è successo un po’ di tutto:  è arrivato il colore, sono arrivati il secondo e poi il terzo canale, c’è stato l’avvento della tv commerciale, negli ultimi anni quello del digitale, la concorrenza di Internet. Va da sè che una maggiore quantità includa un fisiologico calo della qualità media dei programmi, ma allora mi dico: con un canale solo, 60, 50, 40 anni fa, ci sarebbe solo mancato che i programmi fossero pure brutti. Banalmente, il pubblico è cambiato, la tv è cambiata. La RAI forse ha mancato la sua reale occasione quando, con l’avvento della tv commerciale, ha scelto di partecipare alla ‘guerra degli ascolti’ invece che rafforzare la propria identità pubblica e di servizio; da quel momento è nata tutta una serie di problemi, paradossi, controsensi, a partire da quello, macroscopico, di un servizio pubblico pagato attraverso una ‘tassa sul possesso del televisore’, che poi però non si ritrae dall’accumulare lauti guadagni sulla pubblicità. Aggiungiamo poi la questione del ruolo della politica, diventata ancora più centrale negli ultimi anni quando al Governo è andata più volte una persona che già era proprietaria di altri canali televisivi… Si tratta di problemi di ‘sistema’, che traggono origine da certi caratteri tipici italiani, a partire da quello di non voler – volutamente – definire in modo chiaro le situazione per lasciare sempre porte aperte, scappatoie, corridoi… Tuttavia, al netto di questi problemi, che pure ci sono, e considerando che il destino dello stesso medium televisivo appare già segnato dall’avvento sempre più invasivo e preponderante dei contenuti di Internet, certe considerazioni malinconiche e all’insegna del rimpianto mi sembrano lasciare il tempo che trovano. La RAI di una volta era bella perché c’era solo quella e non c’era altro cui paragonarla… personalmente, faccio parte della generazione di coloro che da bambini hanno assistito agli ultimi giorni del bianco e nero, venuti su grazie ai cartoni animati gentilmente offertici dal sig. Silvio Berlusconi (bisogna starci, volenti o nolenti è così), e che devo dire? Già solo oggi, pensando alla RAI di qualche anno fa, con soli tre canali, viene tristezza;  la situazione, a dircela tutta, è ampiamente migliorata: credo si possa affermare senza sembrare enfatici che oggi la RAI propone programmi per tutti i gusti a tutte le ore, cosa che solo pochi anni fa non era possibile; la qualità, a volerla cercare, la si trova; per questo forse stare a rimpiangere troppo i bei tempi andati finisce per essere un esercizio fine a sé stesso, il tipico ‘si stava meglio quando si stava peggio’: no, grazie, per conto mio, si sta molto meglio oggi.

CANTAUTORI E / O POETI

Quando si vogliano tessere le lodi di un cantautore, la frase che si sente dire più spesso è: “… è un poeta”. Una frase che più passa il tempo, più trovo irritante, perché porta con se una montagna di errori concettuali e di metodo, che in fondo non fanno altro che mostrare la fondamentale ignoranza di chi la pronuncia.

Affermando che il cantautore  ‘x’ è un poeta, si stabilisce implicitamente una scala di valori secondo la quale il componimento poetico (ovvero: nato per essere ‘declamato’ o letto a sé stante) precederebbe quello nato per avere un accompagnamento musicale: la poesia, insomma, sarebbe ‘geneticamente’ superiore alla canzone.

Ora, non sono uno storico, né un antropologo, né un archeologo, ma ad occhio e croce, l’accompagnare testi e suoni credo sia un’abitudine vecchia quanto l’uomo, che risale ai tempi in cui la trasmissione della cultura era orale e non era sostenuta dalla pagina scritta… tali forme si sono poi ‘evolute’ fino ad arrivare alle odierne canzoni: stabilire quindi una scala di valori in cui la poesia precede la canzone appare già sbagliato da un punto di vista storico.

Chiediamoci allora il come ci si sia arrivati: l’impressione è che tutto dipenda da quanto successo negli ultimi cinquant’anni, con la diffusione della musica e delle canzoni trai ‘consumi di massa’, grazie all’evoluzione dei supporti fonografici (vinile, nastri, cd, file digitali); mentre le canzoni dunque acquisivano questa diffusione planetaria, con tutte le conseguenze che ne derivano naturalmente sotto il profilo qualitativo (non tutte le canzoni sono capolavori, anzi), la poesia non ha goduto di analoga fortuna, subendo piuttosto un drastico calo di una popolarità già non straordinaria, finendo per essere confinata negli angusti spazi dei circoli degli amatori e negli altrettanto risicati spazi negli scaffali delle librerie.

Ciò porta all’affermazione del concetto di fondo secondo cui la poesia ‘roba per pochi eletti e fine uditorio’ sarebbe dunque di per sé stessa superiore alle canzoni, ‘roba per la massa’: da qui, l’uso della parola ‘poeta’ per incensare il cantautore; ovvero: lo scrivere canzoni è un mestiere ‘sporco’ e per ottenere un’accettabilità ‘culturale’ deve ‘salire’ allo stesso livello del poeta.

Un concetto abbastanza misero, se vogliamo, e non solo per l’errore ‘storico’ di cui parlavo sopra: tanto per cominciare, affermando tale concetto si conclude che qualsiasi poesia, solo per nascere in quanto ‘poesia’ è superiore a prescindere a qualsiasi canzone; il che già mi pare abbastanza erroneo, visto che in giro è pieno di sedicenti ‘poeti’ che forse potrebbero impiegare il proprio tempo altrimenti.

In proposito però va fatta un’ulteriore osservazione: è verissimo che, in certi casi, la ‘qualità letteraria’ dei testi delle canzoni non ha nulla da invidiare a quelli delle poesie; tuttavia, non bisogna mai dimenticare che le canzoni nascono già con l’obbiettivo di avere un accompagnamento musicale e questa loro caratteristica incide fatalmente, anche solo a livello inconscio nel processo creativo: credo che nessun cantautore scriva un testo ‘a sé stante’, ma mentre lo scrive già abbia in testa più o meno, quella che ne dovrebbe essere la traccia sonora.

Astrarre il testo dalla musica appare quindi essere un esercizio nei fatti poco onesto: quando qualcuno propone di inserire i testi delle canzoni nelle antologie scolastiche,  si dimentica che quei testi traggono parte del loro senso dalla musica che li accompagna: strappare le parole dalle note appare un esercizio per certi versi addirittura violento.

La canzone è insomma una forma letteraria a sé stante: un ibrido in cui parola e musica concorrono parallelamente al risultato finale, e proprio in quanto forma letteraria autonoma, ha una dignità pari a quella della poesia del romanzo e se vogliamo anche del fumetto, altra forma ibrida, stavolta di parole e immagini, per la quale vale identico discorso.

Stabilire dunque una scala di valori, allorché lodando un cantante gli si dà del poeta, è un esercizio arbitrario, scorretto sotto vari punti di vista e che in ultima analisi denota da parte di chi lo pronuncia una profonda ignoranza o, in alternativa, una discreta disonestà intellettuale.

NON HO GUARDATO SANREMO…

… o meglio, ho solo visto le impagabili esibizioni di Elio  E Le Storie Tese, e qualcosa di contorno, ad esempio il moscissimo Crozza e il discreto Bisio… ma per il resto, poco o nulla, per vari motivi: il primo è più importante è che da tempo non sopporto Fazio e il suo buonismo ecumenico… da quel poco che ho visto, il Festival è stato perfettamente in linea con lo stile televisivo di Fazio: cultura e popolare, ‘alto e basso’ mescolati in maniera un pò ‘paraventa’, con quel pizzico di ‘temi sociali’ messi lì, perché Sanremo è ‘lo specchio dell’Italia’ e quindi anche un pò di impegno ci vuole… Che poi Fazio quando era stato chiamato per il compito aveva strombazzato a destra  e manca che non avrebbe fatto un Sanremo all’insegna dei ‘talent’ e poi guarda caso i talent gli sono rientrati dalla finestra  e hanno pure vinto…  Sul blog della brava Smilepie leggevo poco fa il riepilogo delle ultime vittorie con tanto di piazzamenti sanremesi: nelle ultime cinque edizioni, il trionfo del ‘talent’: Carta, Scanu, Emma, Mengoni… l’unica eccezione la vittoria di Vecchioni nel 2011 (e non parliamo delle piazze d’onore). Purtroppo è ciò che vuole il pubblico, non c’è ‘giuria di qualità’ che tenga, dato che per dire Elio E Le Storie Tese sono arrivati secondi solo perché pompati dalla stessa giuria: il loro è un brano che al grande pubblico sembra ‘caruccio’, ma nulla a che fare col ‘pathos’ (tra molte virgolette) di Mengoni; oltretutto, c’è da pensare che la stragrande maggioranza il senso di ‘La canzone mononota’ manco l’abbia del tutto capito, e comunque: vuoi mettere Mengoni… Che poi vabbè, quando ha interpretato Tenco è stato pure dignitoso… D’altra parte, da ormai vent’anni buoni siamo qui a chiederci a che serva Sanremo, visto che cambiando le formule il risultato raramente muta. E’ inutile pensare a un SuperSanremo col ‘meglio del meglio’, perché non succederà mai, visto che i ‘big’ raramente accettano di mettersi in competizione tra loro; è inutile pensare a un Sanremo all’insegna della qualità, perché in fondo per quella ci sono già il Premio Tenco o il Recanati. Il problema sta forse nel fatto che si spesso e volentieri si presenta Sanremo come lo ‘stato dell’arte’ della canzone (e spesso, per estensione, della musica) italiana, ma questo poi in effetti non è… Certo, non nego che alla fine a ben vedere gran parte del gusto sia accontentato: ci sono i talent, c’è la canzone ‘nazional-popolare’ (quest’anno rappresentata -nomen, omen – da Maria Nazionale), ci sono i ‘cantatutori impegnati’ (ma viene da osservare che ormai i vari Silvestri, Gazzè o Cristicchi siano diventati degli habituè, dei tipici fenomeni sanremesi, come una volta erano Cutugno, Al Bano o Peppino di Capri), ci sono i classici gruppi che ‘non c’entrano un cavolo, ma che mostrano che in Italia c’è anche altro (Almamegretta, Marta Sui Tubi, che poi lo spettatore tipico sanremese si chiede dove sia Marta, visto che sono tutti uomini, chi sia Marta e soprattutto perché stia sui Tubi). Il tutto per poi giungere alla conclusione che da cinque anni il Festival è dominato dai talent show: il che secondo me costituisce un problema, perché alla fine tutto sommato Sanremo potrebbe costituire una di quelle occasioni in cui si può mostrare che in Italia non è che di cantanti si intende solo Maria De Filippi: oltretutto, Mengoni è forse trai pochi che si è costruito una carriera, ma di Scanu e Carta, per dire, non si sa più nulla da tempo; è chiaro che il problema è più generale, e nasce dalla solita questione che in Italia di cultura musicale ce n’è poca, con la conseguenza che a dominare il gusto sono appunto i cantanti fuoriusciti dai talent show televisivi: è dunque scontato che se a Sanremo porti i fuoriusciti dei programmi televisivi, questi vincano: Fazio non è né il primo nell’ultimo a declamare elevati intenti qualitativi per il suo Festival e poi cedere a ciò che viene imposto da logiche che con la qualità e la varietà della proposta musicale italiana hanno ben poco a che fare… E’ fin troppo facile notare che il Festival avrebbe dovuto vincerlo Elio, ma l’impressione è che senza il ‘solito’ colpo di mano della ‘giuria di qualità’ (nella quale non mancava gente che con la musica non c’entra nulla, come Paolo Giordano o Serena Dandini), ‘La canzone mononota’ non sarebbe arrivata manco tra le prime cinque. Discorsi già fatti e ripetuti tante volte: c’è tutta una scena ‘indie’ rock e cantautorale della quale Marta Sui Tubi sono solo l’apice che a Sanremo viene sistematicamente ignorata; non parliamo del metal, punk o reggae e loro derivazioni, che guai solo a nominarli; idem dicasi per l’hip hop: tutti generi che in Italia hanno il loro pubblico, manco tanto ‘di nicchia’, ma che guai a portarli a Sanremo… il discorso insomma è sempre il solito: sarebbe bello se Sanremo fosse veramente una ‘vetrina’ per la musica italiana ampiamente intesa e un’occasione – visto che con le sue cinque prime serate consecutive sul principale canale televisivo della televisione pubblica italiana, peraltro sostanzialmente prive di controprogrammazione (e il motivo, pensando che negli ultimi anni chi ha vinto era spesso uscito dalle trasmissioni di Canale 5), rappresenta una situazione unica nel panorama televisivo italiano – per far conoscere anche altro a un pubblico che in fatto di musica è più o meno ignorante. Il problema è che se chiami i reduci dai talent la questione è chiusa perché tutta l’attenzione è calamitata da loro e gli altri assumono il ruolo di comparse che vengono distrattamente notate…

MUSSOLINI

ATTO PRIMO

Mussolini. E’ una parola che periodicamente torna a riecheggiare in tv, sui giornali, adesso su Internet… su Facebook poi non ne parliamo sono quattro giorni che la parola viene ripetuta in continuazione… Mi chiedo se riusciremo mai a liberarcene… no, liberarcene è il termine errato… mi chiedo piuttosto se un giorno ne parleremo con distacco, come di un capitolo chiuso e finito. Così non sembra, purtroppo.  In fondo basta che Berlusconi riproponga la solita ‘uscita’ (che peraltro fa parte del suo catalogo consueto e un pò desueto) del ‘Mussolini che prima dell’alleanza con Hitler qualcosa di buono aveva fatto’… che poi, mi viene da dire, ci sarebbe mancato altro… Mi spiego meglio: nel momento in cui uno è un dittatore e può comandare il suo Paese facendo il bello e il cattivo tempo, ti credo che qualcosa che funziona ci deve essere, visto che sulle decisioni che uno prende nessuno ha il permesso di discutere… in uno stato di cose del genere non bisogna essere certo dei geni: anche il più inetto prima o poi qualcosa di giusto lo combina… Mussolini ha fatto anche cose buone: e grazie al ca**o, così sarebbero buoni tutti: è questa la differenza tra la dittatura e la democrazia: in democrazia anche delle idee eccellenti possono non trovare compimento, se la maggioranza non è d’accordo… a pensarci bene, in fondo poi Mussolini è un pò da sempre la ‘fissa’, oserei dire il ‘modello’ di Berlusconi: nel senso che Berlusconi invidia a Mussolini proprio questo suo poter fare e disfare a proprio piacimento senza che nessuno possa dire nulla; non è un caso se Berlusconi periodicamente ritira fuori la litania secondo cui il Presidente del Consiglio in Italia non ha poteri, perché ora è un Ministro, ora sono i Parlamentari, ora è il Presidente della Repubblica, ora la Corte Costituzionale… viene in mente quello che disse Nanni Moretti una decina e passa di anni fa: Berlusconi è allergico alla democrazia, perché non la capisce e non gli serve (vabbé le parole esatte erano diverse, il concetto era quello).

 

ATTO SECONDO

Ora, alle uscite di Berlusconi dovremmo ormai essere abituati, il problema è il ‘ricamino’ che ne viene fatto: le reazioni istituzionali sono prevedibile e in una certa misura dovute… quello che invece è irritante è come certi programmi ci si buttino a pesce, non sapendo di cos’altro parlare, e così ieri su La7 è andata in onda la classica sceneggiata montata ad arte, con l’on. Mussolini che stizzita lascia lo studio apostrofando con un bel “testa di ca**o” l’irritante giornalista Scanzi. Breve parentesi: Andrea Scanzi è un ex giornalista musicale, che avendo capito che con quel mestiere non si fa una lira, ha prima provato la carta del ‘reading teatrale a là Travaglio’ con uno spettacolo dedicato a Gaber, dopodiché ha ‘fatto il botto’ pubblicando un libro su Grillo e garantendosi ospitate a raffica, proponendosi come una sorta di ‘esperto in materia’… da qui alla professione di ‘tuttologo’ il passo è breve, ed ecco che ormai su La7 viene invitato in qualsiasi situazione… anche a parlare di Mussolini, o meglio a partecipare alla consumata commedia. Insomma, siamo seri: se vuoi fare un discorso serio su Mussolini, non chiami, con tutto il rispetto, l’omonima onorevole… Non perché non ne sappia, intendiamoci, ma perché essendo ‘persona di famiglia’ è geneticamente priva dell’obbiettività necessaria a valutare la figura del nonno,  e questo al netto dell’atteggiamento irritante, del personaggio da ‘capopolo’ che s’è inventata e che spesso propone anche in certi salotti del pomeriggio. Tutto calcolato, dunque: chiamiamo Alessandra Mussolini, chiamiamo il giornalista ‘pierino’ che provoca e poi andiamo a contare quanta gente ha visto il pezzo di teatro su Youtube: va bene tutto, ma non prendeteci per scemi.

 

ATTO TERZO

Quanto successo nel primo e nel secondo atto porta alla considerazione che purtroppo in Italia Mussolini è ancora un nervo scoperto… io credo che a oltre 90 anni dalla Marcia su Roma sarebbe il caso che in Italia le cose si guardassero con più ‘serenità’ più distanza, considerando tutto ciò come un passato chiuso. Mi chiedo perché non sia così: qualcuno dirà che è perché ci sono organizzazioni come Casa Pound o Forza Nuova che ancora si richiamano a quel passato. Giusto, ma se vivessimo in un Paese ‘normale’ quelle organizzazioni verrebbero considerate folklore politico, come quegli sparuti gruppi che rivorebbero la monarchia o si richiamano ai Borboni. Voglio dire, a me quando vedo certi ragazzini fare il saluto romano in via del Corso qui a Roma, viene più che altro da sorridere, e non riesco a prenderli sul serio… Attenzione, poi è chiaro che se si va sul penale, come avviene talvolta, vanno presi e adeguatamente puniti. Però mi chiedo anche se il problema non sia proprio questo continuo dargli importanza, questo costante gridare allo scandalo, con reazioni un filo isteriche che chiedono a gran voce di tappargli la bocca… a parte che secondo me sarebbe sbagliato, perché è sempre meglio che certe ‘idee’ circolino alla luce del sole, ritengo il silenzio, la clandestinità, l’azione ‘nell’ombra’ molto più pericolose di manifestazioni che spesso più che preoccupazioni suscitano riso. Il problema di fondo secondo me è che ancora oggi si ha paura del confronto, e allora si finisce per prendere la strada più breve, che è quelle di inneggiare al ‘tappargli la bocca’; io non voglio che CasaPound chiuda o gli venga negato di esprimersi, io voglio che CasaPound vada in televisione a esprimere le proprie confrontandosi con gente che di queste idee dimostri l’insussistenza e la pochezza. Ghettizzarli, chiuderli nel recinto e in oscuri sottoscala dove non si sa che succede è pericoloso, perché magari qualcuno può pensare che loro siano delle vittime e poi nell’ombra non si saprebbe cosa gira… Ricordiamoci che negli anni ’60 e ’70 ridurre al silenzio e ghettizzare gli estremisti di destra e sinistra ha portato a centinaia di morti… Io credo nella forza delle idee, e mi dico che se si ha paura che certe idee prendano piede, è perché non si crede abbastanza nella forza delle proprie… insomma, se Alba Dorata in Grecia ha preso tutti quei voti, non è perché i greci sono improvvisamente diventati tutti fascisti, ma è semplicemente perché i partiti tradizionali hanno fallito su tutta linea… attenzione, prendiamo ad esempio…

NOBEL 2012: ECONOMIA

Il premio Nobel per l’economia 2012 è stato assegnato ad Alvin E. Roth e LLoyd S. Shapley.

Roth, americano 61enne, è docente ad Harvard, mentre Shapley, 89 anni, anche lui americano, insegna all’University of California. L’accademia reale delle scienze svedesi ha attribuito il premio ai due studiosi «per la teoria delle allocazioni stabili e per le analisi sulla configurazione dei mercati». I due economisti si divideranno un premio di 8 milioni di corone svedesi, poco meno di 1 milione di euro.

Il premio, si legge nelle motivazioni, riguarda un problema economico fondamentale: come abbinare agenti diversi nel miglior modo possibile. Per esempio, continua l’Accademia svedese, gli studenti devono essere abbinati alle scuole e i donatoridi organi con pazienti che hanno bisogno di un trapianto. Tali abbinamenti come possono essere fatti nel modo più efficiente possibile? Quali metodi sono vantaggiosi per quali gruppi? Il premio è un riconoscimento a due studiosi che hanno risoposto a queste domande in un percorso che va dall’astratta teoria alla pratica configurazione delle istituzioni di mercato.

Roth è conosciuto per i suoi contributi nel campo della teoria dei giochi e nell’economia sperimentale. Shapley è un matematico ed economista, considerato l’esponente di punta della teoria dei giochi. Fra i successi della loro ricerca figurano modelli economici per far incontrare domanda e offerta, applicati a casi come la ricerca delle facoltà da parte degli studenti o la disponibilità di organi da trapianto per i pazienti.

FONTE: IL MESSAGGERO