Archive for ottobre 2016

BUZZY LAO, “HULA” (INRI)

Disco d’esordio per questo cantautore torinese che si fa conoscere solo con lo pseudonimo di Buzzy Lao, varie esperienze alle spalle tra cui una lunga parentesi londinese, la consueta gavetta dal vivo, di supporto, tra gli altri, a Dente, Daniele Celona e Omar Pedrini, un singolo e un primo Ep all’attivo.

Ora, il primo tentativo sulla lunga distanza, coadiuvato da Fabio Rizzo (già al lavoro con Nicolò Carnesi e Pan del Diavolo); tredici brani (tra cui un breve strumentale) poco più di cinquanta minuti la durata, per un lavoro che affianca ad una tipica impronta cantautorale, suggestioni sonore che, partendo da una forte componente blues, ampliano l’orizzonte verso il soul, il folk, fino a lambire territori reggae e rock.

Un disco che assume i connotati, se non di una sorta di seduta di analisi, quelli di un tirare le somme, di un fare il punto della situazione su quanto compiuto e percorso fino ad ora, come a fotografare una fase della propria vita prima che questa si chiuda e una porta si apra sul prossimo futuro.

Riflessioni esistenziali, magari dominate da un clima di incertezza, tipico di chi si trova a metà di un guado, a cercare dentro di sé la forza per affrontare nuove sfide ‘di vita’, si uniscono alle classiche traversie sentimentali, tra amori ‘in corso’ e storie già concluse, con tutto il carico che portano con sé.

Buzzy Lao interpreta con varie coloriture emotive, alternando intensità e leggerezza e trovando nella sua chitarra Weissenborn una sorta di ‘seconda voce’, di contraltare sonoro dominante.

Un lavoro per certi versi un filo dispersivo che però mostra un cantante già abbastanza consapevole delle proprie potenzialità.

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MONICA PINTO, “CANTHARA” (MAXSOUND)

Un quarto di secolo di carriera, dagli E’Zezi agli Spaccanapoli, le aperture dei concerti di Peter Gabriel e Manu Chao, il cinema (“Passione” di Turturro), il teatro, fino allo studio dello yoga applicato al canto.

Monica Pinto di strada ne ha percorsa decisamente parecchia, prima di approdare a un esordio solista che visto il corposo curriculum forse giunge anche un po’ in ritardo sui tempi.

“Canthara”, fusione di ‘canto’ e ‘hara’, termine che definisce la propria essenza, il centro dell’esistenza… il canto come mezzo di ricerca ed espressione del proprio ‘io’, dunque, ma non per questo “Canthara” è un disco ripiegato su sé stesso, di difficile comprensione: la cantautrice vi riversa certo le proprie esperienze, fino ad inserire due brevi intermezzi in cui si dà forma sonora a certe pratiche di respirazione yoga, ma senza che il lavoro assuma un’attitudine ermetica.

I temi trattati vanno dall’universale – l’incontro immaginato con la propria morte – allo sguardo sulla società, dalle crescenti disparità tra il ‘nord’ e il ‘sud’ del mondo, all’onnipresenza della televisione e dei ‘modelli’ da questa imposti, tra citazioni di Dostoevskij e un’esortazione alle donne a vivere con pienezza la propria esistenza, a partire dall’aspetto sessuale.

Domina la vocalità sinuosa, a tratti cristallina, della cantautrice, intensa ma mai sopra le righe, classe ed emotività, su un forma di ‘chanson elettronica’, in cui certo l’elemento ‘sintetico’ costruisce scenari e stende tappeti avvolgenti, ma sul quale s’innestano strumenti della tradizione classica (violoncello), popolare (fisarmonica, percussioni) e pop / rock (chitarre, bassi, tastiere), tra cantautorato, folk, spezie orientali, profumi mediterranei, col contributo, tra gli altri, di Fausto Mesolella (Avion Travel).

Dodici pezzi che ci mostrano una cantautrice nel pieno della maturità artistica.

MERCURI, “PROGETTI PER IL FUTURO” (ADESIVADISCOGRAFICA / SELF)

Secondo lavoro sulla lunga distanza per Mercuri, che di nome fa Fabio, è nato a Lecce e ha risalito tutto lo stivale, prima sostando a Roma e poi giungendo a Milano; una strada affollata di incontri e collaborazioni fino al disco di esordio (targato 2009) e un successivo Ep (2012)… una ‘carriera’ quindi decisamente avviata e viene da pensare che il titolo “Progetti per il futuro” rappresenti un po’ la classica pausa nella quale si fa ‘il punto’ e più che a ciò che è già stato, si pensa a quello che sarà… lo stesso Mercuri osserva come tutto nasca in fondo dalla considerazione che molto del presente delle persone nasca proprio dallo sguardo verso il futuro, sia che si scelga di muoversi velocemente verso di esso (magari nell’ansia di raggiungerlo e lasciarselo alle spalle) che di restare fermi, rendendo l’immobilità la norma; in mezzo sta chi finisce per ondeggiare trai due stati, in una lotta tra la bicicletta e il divano, mentre scelte e condizioni restano sottoposte al caso e all’imprevedibilità che potrebbe portare la più ostinata immobilità a trasformarsi in una corsa a perdifiato, e viceversa. Mercuri del resto, deriva da Mercurio, e probabilmente non è un caso che l’autore si faccia ritrarre con l’elmo di Flash, moderna trasposizione fumettistica del mito della velocità…

Il dato autobiografico si scompone negli otto brani presenti come in un caleidoscopio di voci affidate a singoli personaggi, ragazzini che osservano il mondo adulto, barboni che al margine della società intuiscono lampi di universalità, persone che si perdono nei loro pensieri pensando al futuro più o meno prossimo mentre percorrono le autostrade in un’estate ormai agli sgoccioli; fughe reali o immaginarie dall’immobilità presente del divano di casa; chi fa i conti con un amore finito, chi con un’improvvisa ‘stabilità’ dopo una vita passata a viaggiare, chi si trova fuori posto e chi del trovarsi a posto ‘per forza’, ha fatto una scelta di vita. Personaggi fotografati in momenti particolari o nella quotidianità, accomunati dal fare i conti con ciò che è guardano a ciò guardando a prospettive future più o meno immediate.

Un saldo ancoraggio al filone cantautoriale italiano senza tuttavia ricordare esplicitamente nessun nome in particolare, suoni ascrivibili e a un pop di classe, colorato di venature new wave, vaghe allusioni reggae, spezie elettriche che danno movimento e dinamismo al tutto (Flash del resto non è decisamente un ‘sedentario’ da ritmi troppo rilassanti).

Un secondo lavoro convincente per un cantautore che desta interesse; da seguire.

METAPHORA, “IL RUMORE DELLA NEVE EP” (FENIX RECORDS)

Ep di esordio per questo giovane quartetto torinese, attivo già da qualche anno, nella forma attuale dal 2012.

Cinque brani caratterizzati dalla più classica ‘urgenza comunicativa’ giovanile, tra testi spesso volti ai sentimenti e a storie più o meno tormentate, qualche parentesi ‘esistenziale’, una fuga più ‘narrativa’, ambientata negli anni ’30; il tutto nella forma di un rock che per quanto ‘duro’ e colorato spesso e volentieri di tinte metal, non tralascia mai l’aspetto melodico della questione.

Il tratto distintivo finisce per essere l’interpretazione, decisa e grintosa, della vocalist Luana Barnabà, che forse non basta a evitare che sul disco si posi la pesante cappa del ‘già sentito’.

I Metaphora sono del resto all’inizio del loro percorso discografico e cinque pezzi nel bene e nel male non bastano per dare un giudizio compiuto sulle capacità della band: in controluce traspaiono certo delle potenzialità, una certa capacità di costruire un adeguato sostegno sonoro all’attitudine interpretativa della cantante; quello su cui c’è ancora da lavorare è uno stile più personale che permetta di sfruttare pienamente quelle possibilità.

BEA ZANIN, “A TORINO COME VA” (LIBELLULA DISCHI / AUDIOGLOBE)

Vicentina di nascita, torinese di adozione dai tempi dell’Università, dove ha studiato filosofia; violoncellista con la passione per l’indie rock, con varie collaborazioni all’attivo (Daniele Celona, Bianco, Luca Morino dei Mau Mau) e una parentesi dedicata alla musica degli anni ’50 e ’60 nel trio Bahamas, prima di dedicarsi al suo progetto solista che, preceduto da un EP che ha attirato un certo interesse, evolve ora nell’esordio sulla lunga distanza.

Bea Zanin impasta il suo violoncello con sonorità elettroniche a cavallo tra gli ’80 e i ’90 – il titolo del disco è un’ideale risposta a “A Berlino tutto bene” di Garbo – dividendo i dieci pezzi presenti in tre ‘sezioni’ (forse una reminiscenza dell’impostazione di certi concerti di musica classica): il primo dedicato al periodo universitario, il secondo più introspettivo all’insegna del contrasto tra un’indole ottimista e un carattere per certi versi spigoloso; l’amore in varie sfaccettature è protagonista del terzo.

Il risultato è un disco sinuoso, suadente come l’interpretazione della cantautrice; un disco dominato dal ‘calore sintetico’ delle tessiture elettroniche e da quello più corposo, ‘fisico’ del legno del violoncello.

Zanin apre con un omaggio alla città che l’ha accolta (Plaza Victoire), prosegue citando Pavese: “Se ti annoi è colpa tua”, per dipingere il ‘galleggiare’ talvolta annoiato degli anni universitari (che nasconde magari incertezze e prospettive), in tira in ballo Wittgenstein – con la collaborazione di due cantanti lirici – descrivendo problemi di comunicazione che si incontrano nelle relazioni con gli altri (Limiti).

Descrive il sapore agrodolce dell’estate si adombra dei primi refoli autunnali, l’allegria che si colora della nostalgia che verrà (Easy Summer); nostalgia come quella degli anni universitari, la vita allegramente ‘scoordinata’ degli studenti fuori sede; il rimpianto per il tempo apparentemente infinito e per questo impiegato male.

L’amore, infine: quello possibile ma bloccato da timidezza e insicurezze, quello vissuto per contro con troppa intensità fino a diventare ossessivo: in Pazzo di te, Bea duetta con Diego Perrone, anche produttore artistico del disco (già al lavoro con Caparezza); quello vissuto con leggerezza, libertà, ‘alla giornata’ come un viaggio improvvisato e infine quello spontaneo immediato, scaturito dall’incontro con persone viste per la prima volta che sembra di conoscere da sempre.

Bea Zanin assembla un disco convincente: una scrittura immediata, ma sicura, fondata sul ‘vissuto’, il matrimonio tra elettronica e violoncello all’insegna di un amalgama forse non sempre compiuto; un’autrice cui le passate esperienze permettono di evitare in gran parte le incertezze tipiche di ogni esordio. L’augurio di riascoltarla presto.