Archive for dicembre 2014

LA PLAYLIST DI DICEMBRE

In attesa della classifica annuale, l’ultima playlist dell’anno…
A2                      MonoLogue
Dorothy                 Torakiki
Raise Your Hands        Miriam in Siberia
I giorni che non c’eri  Lettera 22
Verità                  Mulholland Drive
Sono Fragile            Rocio Rico Romero
The Mist                The Child Of A Creek
La Ruota                Cumbo
Io & Te                 Riva
Il mondo che avanza     Eugenio In Via Di Gioia
Madre                   Tommaso Tanzini
Ti prometto che         Claudia Cestoni
Caprilli                Quintetto Architorti

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AUGURI

DI BUONE FESTE, SOPRATTUTTO AI LETTORI ABITUALI… E ANCHE A QUELLI OCCASIONALI… 🙂

CUMBO, “CUMBO” (FARMSTUDIOFACTORY / AUDIOGLOBE)

Non è mai troppo tardi per dare voce alle proprie aspirazioni: umbro di Città di Castello, classe 1966, Stefano Cumbo ha scelto di rendere più ‘solida’ quella fino a quel momento era stata una semplice passione, peraltro in un momento per nulla facile, in piena crisi economica. Dopo aver rielaborato brani di Dylan e Cohen e i primi pezzi scritti di suo pugno, ecco il traguardo del primo disco solista, assemblato assieme a Nicola Matteaggi e Matteo Carbone e col contributo di Paolo Benvegnù in sede di registrazione.

Nove pezzi all’insegna di un cantautorato se vogliamo abbastanza ‘consueto’, che risente dell’influenza della nobile tradizione italiana del genere; introspezione, osservazione della realtà, dominata dai ‘Furbi’ (citando una poesia di Bukowsky) cui si contrappongono i pochi ‘Arditi’; dediche letterarie – ad ‘Emil’ (Cioran) – e a personaggi di cronaca, Angelo Vassallo, sindaco di Pollica ucciso dalla criminalità organizzata; una stilettata contro la tecnologia sempre più invasiva e – spesso – inutile.

Insieme sonoro anch’esso abbastanza tipico: piano, archi e fiati ad accostarsi ai canonici chitarra – basso – batteria, per brani di volta in volta orientati ad un pop di classe, a qualche scabrosità rock, impressioni jazzistiche; un cantato che può ricordare quello di Federico Fiumani dei Diaframma, espresso in modi spesso eleganti, non privi di accenti sarcastici, di parentesi malinconiche o momenti più sferzanti.

Il disco d’esordio di Cumbo nel complesso può convincere, anche se qua e là dà l’idea di una ‘perfezione’ un filo troppo ricercata; una ‘compostezza’ di modi e di toni rispetto alla quale ci si lascia andare solo episodicamente, forse rischiando di perdere di immediatezza.

Potete ascoltare qui.

EUGENIO IN VIA DI GIOIA, “LORENZO FEDERICI” (LIBELLULA MUSIC / AUDIOGLOBE)

Nel 2011 Eugenio Cesaro realizza le proprie aspirazioni musicali, grazie all’incontro con Emanuele Via e Paolo Di Gioia: il gruppo non poteva che chiamarsi Eugenio In Via Di Gioia… i tre cominciano a suonare più o meno ovunque, dai locali alle strade… unica lacuna, la mancanza di un bassista: ed è qui

che entra in ballo Lorenzo Federici, anche lui musicista ‘di strada’ in quel di Londra… Il titolo dell’esordio della band torinese, in una sorta di chiusura di cerchio, non poteva che essere dedicato all’ultima tessera del mosaico.

I dieci brani che compongono “Lorenzo Federici” (in realtà nove, cui si aggiunge un breve intermezzo recitato) propongono un folk-rock che può vagamente ricordare i Tetes de Bois, attingendo a piene mani dal filone più ironico della canzone d’autore italiana, tra il concittadino Buscaglione e Jannacci.

L’ensemble è quello classico: chitarra, basso e batteria, con l’aggiunta del piano e, soprattutto, della fisarmonica che spesso e volentieri assume un ruolo da protagonista, quasi il marchio sonoro della band.

Il classico disco che getta un’occhiata ironica, disincantata e un tantino cinica sulla realtà circostante; nello scorrere del disco si trova di tutto un po’: inni alla sconfitta e insofferenza nei confronti delle cattive abitudini altrui; il presente precario e instabile e la sensazione di perdere tempo e rimandare le decisione nell’attesa di una svolta che tarda ad arrivare; la lotta di classe applicata alla conquista di un pezzo di spiaggia e la mania per le foto dei cani su Internet; minimo quotidiano come la spesa al supermercato, riflessioni sul fare musica (tra aspirazioni autoriali e necessità di produzione para-industriali) fino alla conclusiva e forse migliore dell’intero lotto, ‘Il mondo che avanza’, corrosivamente dedicata al bisogno del superfluo dal quale siamo dominati.

La formula non è forse originalissima, né dal punto di vista della proposta sonora, né sotto quello delle ‘idee’ proposte; tuttavia la band torinese riesce comunque a dare al tutto un’impronta discretamente personale e, anche considerando che “Lorenzo Federici” soffre dei limiti tipici di ogni esordio, l’ascolto lascia una certa curiosità per la futura evoluzione del gruppo.

Se siete curiosi, ascoltate qui.

MONOLOGUE, “THE SEA FROM THE TREES” (CHEMICAL TAPES)

Ambient synth drone movements: quando ci si trova di fronte a lavori poco incasellabili, ad esperienze sonore se vogliamo ‘difficili’, o semplicemente lontane dal consueto, a territori musicali ‘di confine’, non resta che affidarsi alla definizione che lo stesso autore dà della propria musica.

Dietro a Monologue si cela, Marie e Le Rose: artefice unica, autrice ed esecutrice di queste cinque composizioni, tutte – ad eccezione della conclusiva, ‘Indya (Caesura)’ senza titolo, contraddistinte solo da una sigla; più che una serie di brani, un flusso che si snoda lungo i circa 43 minuti di durata quasi senza soluzione di continuità che procede col passo lento e la consistenza viscosa di una colata magmatica.

Immaginate uno di quei documentari che si soffermano a lungo su paesaggi a prima vista immutabili, in cui i cambiamenti si succedono in maniera impercettibile; cercare ora di intuire come tutto ciò si possa tradurre nei suoni e forse potrete avere un’idea della proposta di MonoLogue… oppure, più semplicemente, andate al link del progetto e fatevi un’idea…

Lungo lo scorrere placido degli scenari sonori costruiti da synth, riverberi ed effetti vari si stagliano rarefatte linee melodiche, cori da monastero, sonorità che sembrano provenire da lontano oriente, suggestioni industriali, in un procedere talvolta ipnotico, a sfiorare territori onirici.

“The Sea From The Trees”, il mare dagli alberi: titolo evocativo per un lavoro dal quale ci si deve fare avvolgere, lasciando la mente libera di farsi suggestionare, immaginando.

RIVA, “LE NOSTRE VACANZE SONO FINITE” (FULL HEADS /AUDIOGLOBE)

Prendendola alla larga, il 21° secolo ci ha regalato la completa cancellazione di quei ‘percorsi di vita’ che avevano caratterizzato i decenni precedenti: studio – lavoro – famiglia: a 40 anni, insomma, si viveva, in una situazione più o meno cristallizzata, più o meno rassicurante.

Oggi, tutto cambiato: a trent’anni si vive, più o meno, come quando se ne avevano venti; a volte la situazione si prolunga fino ai 40: le prospettive mancano e quando ci sono, sono spesso prive di stabilità.

Ascoltando il disco d’esordio dei napoletani Riva (già attivi in passato con il nome di Onirica), riflettevo sul fatto che, negli ultimi anni, si sono moltiplicati i dischi il cui filo conduttore è questa mancanza di prospettive, precarietà, insicurezza; tematiche poi declinate secondo la sensibilità di ognuno, ma l’altro filo conduttore è che alla fine, i sentimenti finiscono per essere l’unico rifugio, l’unico riparo possibile rispetto ad un mondo fondamentalmente ostile.

Il trio partenopeo illustra il proprio ‘manifesto’ fin dalla title track posta in apertura: a trent’anni si è più spesso figli che padri, e anche quando si riesce a costruire un progetto di vita, si finisce per trovare gratificazione nell’ultimo gadget tecnologico… le prospettive a lungo termine non sono del resto esaltanti: nel penultimo brano, ‘La pensione’, ci si accorge che, raggiunto il meritato riposo, si comincia a stare male, mentre in chiusura ci si chiede, appunto, se ‘La felicità non si può comprare’, a cosa serve lavorare?

L’unica via di uscita a una realtà per certi versi avvilente, in cui si finisce per immaginare fughe in luoghi immaginari, piuttosto che improbabili comparsate da Marzullo, l’unica via di salvezza sono, appunto, i sentimenti: tra dediche amorose, rapporti all’insegna della differenza d’età, sogni di una vecchiaia passata insieme, anonima e all’insegna della reciproca sopportazione, ma comunque rassicurante, atti criminali immaginati come vie di fuga ad una realtà pericolante…

I Riva raccontano tutto questo, spesso in modo ironico e disincantato, talvolta amaro, come tante altre band della loro generazione, ricorrendo ad un pop-rock reso sovente leggero dall’uso di volta in volta, di synth od ukulele ed affidando i momenti emotivamente più intensi alla consueta ‘solidità’ del piano.

Un disco piacevole e che si lascia ascoltare, per quanto fatalmente rischi di perdersi un po’ nel novero di proposte simili: del resto, visti i tempi che viviamo, è più o meno naturale incontrare spesso nei gruppi idee ed atmosfere simili.

Chi vuole, può buttare un orecchio qui.

R.I.P. MANGO (1954 – 2014)

Decisamente non era il mio ‘genere’… ma questa mi è sempre piaciuta.

THE CHILD OF A CREEK, “HIDDEN TALES AND OTHER LULLABIES” (METAPHYSICAL CIRCUITS)

Periodo di intensa prolificità per The Child Of A Creek, che ha sfornato due dischi quasi in contemporanea: dopo “Quiet Swamps”, ecco “Hidden tales and other lullabies”, anche se a a voler essere precisi l’esatto ordine di uscita è inverso.
A differenza del suo ‘gemello’, “Hidden tales…” è un lavoro interamente strumentale: sei tracce di lunghezza medio – lunga (costantemente attorno ai sei minuti di durata), che porta avanti uno dei filoni del discorso musicale avviato dall’autore livornese fin dall’inizio della propria biografia musicale.
Un disco all’insegna dei tempi dilatati e delle sonorità rarefatte, in cui tinte gotiche si sposano ad una certa attitudine ambient, scorgendo, in filigrana, la lezione impressionista dei maestri Satie e Debussy.
Tappeti sonori che disegnano paesaggi suggestivi sui quali si stagliano le scarne melodie disegnate di volta in volta da piano, chitarra, sintetizzatori vari; il ripetersi ciclico degli stessi gruppi di note, all’insegna di modi minimalisti garantisce l’afflato onirico, alla lunga vagamente lisergico, delle singole composizioni.
Un lavoro efficace, nuova tappa di un percorso sonoro ormai decennale.

ROCIO RICO ROMERO, “ROCA BASICA” (LIQUIDO RECORDS)

Andalusa (di Huelva) di nascita, ma ormai da tempo ‘trapiantata’ in quel di Bologna, Rocio Rico Romero ha intrapreso un percorso musicale all’insegna di continue deviazioni, svolte, escursioni, sperimentazioni, dalla musica lirica al canto tibetano fino a questo tuffo in sonorità più squisitamente pop.

Pop, certo, ma dalla confezione elegante e l’attitudine sofisticata; pop, ma di quello di classe, pronto a rivelare, tra le pieghe di ognuno dei nove brani presenti, sempre qualcosa di inaspettato, che rende il tutto meno archiviabile, meno facilmente incasellabile.

Brani che spesso si fanno dilatati, rarefatti, in cui Rocio Rico Romero mostra le sue capacità tecniche, ma senza cadere nell’asettico esercizio di stile. Suoni spesso scarni, a lasciare sempre in primo piano l’interpretazione emotivamente intensa dell’autrice, per pezzi dalla veste spesso acustica, non di rado arricchiti da tappeti sonori dal sapore ambient, senza dimenticare echi della propria tradizione, con suggestioni che rimandano al flamenco.

La cantautrice del resto mostra un forte radicamento alle proprie origini, cantando la quasi totalità del disco in spagnolo (con un episodio in italiano): scelta ‘difficile’ e se vogliamo anche coraggiosa.

“Roca Basica” è un disco che vive in gran parte sull’interpretazione cristallina della cantante andalusa, cui le sonorità di accompagnamento si affiancano in maniera efficace; per Rocio Rico Romero forse l’inizio promettente di una nuova fase della propria vita artistica.

 

METTEMO LE SBARRE AR CAMPIDOJO

Dice er procuratore soddisfatto:
“Vedrete che je leveremo er vizzio
Per adesso er primo passo è fatto e questo non è artro che l’inizio”

Oddio me sembra de diventà matto
Pure Roma mo’ sta ner precipizio Nun se tratta de quarche mentecatto
Qui tutti, o quasi, hanno d’annà a giudizio

E aumenteranno da matina a sera
Sarà proprio così: “Ndo’ cojo cojo”

Io propongo de fa’ in questa maniera:
se l’inchiesta va liscia come l’ojo
invece de portà tutti in galera
convie’ mette le sbarre ar Campidojio

(Gigi Proietti)