Archive for Maggio 2013

CUBISTI CUBISMO

Roma, Complesso del Vittoriano, fino al 23 giugno

Non una mostra qualunque sui cubisti, quella attualmente in corso al Complesso del Vittoriano, non semplice rassegna di quadri, ma esposizione che punta su un approccio, se vogliamo, multidisciplinare, mostrando come anche altri mondi siano stati influenzati dal movimento.

Un filo conduttore evidentemente fin dal primo segmento in cui in una sorta di ‘prologo’, lo sperimentalismo grafico di Apollinaire viene accostato a quello musicale di Stravinskij o Satie, mostrando come il cubismo abbia trovato delle espressioni parallele anche in musica e in letteratura.

Il secondo ‘step’ della mostra è costituito dalle due grandi aree dedicate alla pittura: non poteva mancare Picasso,  c’è tanto Léger, discreto spazio a Braque e Juan Gris ;  l’intento generale appare comunque quello di mostrare come il cubismo sia diventato ben presto un movimento internazionale e ‘globale’: ecco allora esposti quadri degli americani Weber ed Hartley, gli italiani Severini e Soffici, la russa Goncharova.La sezione forse più interessante e originale è però quella che si trova al secondo piano del percorso, dove vengono mostrate le strade forse meno conosciute al grande pubblico intrapresi dal cubismo,  a partire dall’architettura, passando per l’arredamento (esposti anche alcuni oggetti di mobilio), per arrivare al cinema: i visitatori possono assistere alla proiezioni di film come Ballet Mecanique dello stesso Fernand Léger o Entr-Acte di Rene Clair; ultimo segmento è dedicato agli allestimenti teatrali – in mostra alcuni costumi di scena realizzati da Picasso e ancora una volta di Lèger, per concludere con i modelli della stilista Sonia Delauney.

Cubisti Cubismo è un’esposizione capace di offrire momenti inaspettati e forse anche sorprendenti, permettendo di scoprire – o ri-scoprire -quello che è stato forse l’ultimo momento di vera e grande ‘rottura’ nella storia dell’arte, che ha continuato a fare sentire i propri effetti nel corso dei decenni e per certi versi ancora continua ad influenzare anche le correnti artistiche contemporanee.

 

 

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R.I.P. LITTLE TONY (1941 – 2013)

Non voglio trovare per forza dei punti di contatto, ma mi viene da osservare come ancora una volta, dopo Jannacci e Califano, con Little Tony se ne vada un rappresentante della musica italiana ‘sui generis’. Little Tony, diciamocela tutta, è stato un cantante ‘generazionale’, per intenderci della generazione dei miei genitori; la mia – quella dei nati dopo dagli ’70 in poi – all’inizio  l’ha conosciuto probabilmente per la sigla di “Love Boat” (Maaaare, profumo di maaaare) e ha assistito alle sue esibizioni nei varietà, nei programmi della domenica pomeriggio, nelle trasmissioni dedicate ai ‘meravigliosi anni ’60’, o l’ha intercettato a orari improbabili in televisione, in certe mattine passate a casa da scuola per malesseri veri o inventati, in cui accendevi il televisore e ti trovavi davanti i famosi ‘musicarelli’, basati su storie esili, fatte apposta per inserire qua e là il pezzo musicale.  Insomma, per la mia generazione, Little Tony era ‘il passato’. A questo si aggiungeva il suo essere sempre un pò naif, l’acconciatura sempre uguale, il ciuffo ottimamente portato, senza peraltro sembrare ridicolo (la sua scomparsa mi ha colpito proprio perché a tutti gli effetti Little Tony sembrava non invecchiare: erano circa vent’anni che si era fermato ai 50)… eppure, in tutto questo, al netto dei musicarelli, delle apparizioni televisive, dei 4 o 5 brani che sostanzialmente l’hanno reso celebre e ai quali col tempo è stato ridotto il suo repertorio, ci si dimentica forse troppo presto che Little Tony faceva parte di quel ridotto gruppo di persone che potevano affermare senza tema di smentita: “io ho portato il rock in Italia”. E scusate se  è poco… e poco importa se poi la nostra industria discografica nazionale ha dovuto ridurre il tutto ai canoni della solita ‘accettabilità’ e ‘vendibilità del prodotto’, fatta più che altro di canzoni d’amore più o meno sdolcinate (titoli come ‘Cuore matto’ o ‘La spada nel cuore’ stanno lì a dimostrarlo): la verità è che Little Tony è stato un apripista, uno di quelli che hanno portato la canzone italia dall’epoca – Modugno – a quella successiva: uno di quelli che insomma ha contribuito a un vero e proprio ‘salto evolutivo’… certo, non fosse stato lui, sarebbe stato qualcun altro, ma il punto è che è stato lui… e secondo me forse di questo ci si è scordati troppo spesso, davanti alle apparizioni tv e all’acconciatura scolpita che lo facevano apparire come una sorta di oggetto di modernariato vivente, le apparizioni incastonate in programmi pomeridiani per casalinghe o in contenitori domenicali all’insegna del ‘di tutto e di più’…

NON HO GUARDATO LA PARTITA…

… e me ne sono andato al Vittoriano, a vedere una mostra sui Cubisti… di voglia di stare a guardare il derby ce n’era poca, un po’ perché avevo la netta sensazione che sarebbe andata male (la Roma raramente coglie certe occasioni, essendo ‘geneticamente’ una squadra che nelle occasioni importanti tende a calarsi le braghe, le rare finali di coppe europee e le tante di Coppa Italia perse stanno lì a dimostrarlo), un pò perché macerarmi nell’attesa fino alle 18.00 mi pareva puro masochismo, un po’ perché una squadra incapace di vincere in casa col Pescara e capace di perdere col Chievo a mio parere non è degna di alcuna fiducia… un pò perché sinceramente lo spettacolo offerto dai romani nell’ultima settimana è stato misero e avvilente… Io capisco che il calcio ispiri passioni ed emozioni molto più forti rispetto alla politica, ma insomma questa settimana a Roma si è parlato solo di quello… l’elezione del Sindaco? Boh, chi se ne frega… Poi però succede – come ieri – che per permettere a 80.000 co***oni di raggiungere con tutta comodità l’Olimpico, si arriva praticamente alla soppressione dei tre quarti del trasporto pubblico romano, con attese alle fermate che hanno superato l’ora… ma c’è il derby e chi se ne frega se qualche romano la domenica pomeriggio per necessità, o puro piacere, deve usare i mezzi pubblici. Questa è Roma, questi sono i romani; mi viene quasi da dire che se li meritano, che ce li meritiamo, altri cinque anni di Alemanno… e vedrete che purtroppo andrà a finire così; checché ne dicano i sondaggi, io in giro non vedo tutto ‘sto malumore contro Alemanno.

Comunque, tornando alla partita; ho capito che si stava mettendo male ad una fermata dell’auto: ho sentito uno squillo di tromba isolato (squilli isolati: va bene alla Lazio, urla roboanti: va bene alla Roma), ho visto un ragazzo con la maglietta giallorossa uscire da un bar, accendersi nervosamente una sigaretta, scuro in volto; tra le persone inca**ate per l’attesa, che maledicevano a turno Rutelli, Veltroni, Alemanno e ‘er Papa polacco’ (si, pure lui…), intercetto un frammento di dialogo, un ragazzo afferma: “stanno 0 – 0″; una signora interviene: ‘no, ha segnato la Lazio”; sull’autobus, preso dopo una mezz’ora buona di attesa (ma ribadisco, c’era chi stava aspettando da oltre un’ora), una signora afferma: “la Roma ha pure perso”; scendo dall’autobus e mi avvio verso casa, incrocio una coppia di ragazzi, uno con la maglietta della Roma, neri (non di pelle, di umore); esplode un petardo e da una direzione indefinita arriva un commento: “sò sti ba***di de laziali”…

E così, è andata male, per l’ennesima volta… il degno finale dell’ennesima stagione escrementizia; a disarmarmi, più di ogni altra cosa, è l’assoluto rispetto per un copione già scritto, la completa assenza di originalità, di un minimo brivido derivante dall’improvvisazione… Un stagione aperta dall’incomprensibile scelta di Zeman, un campionato trascinatosi avanti all’insegna delle consuete isterie boemiche, ogni obbiettivo sfumato in primavera, l’esonero ampiamente previsto, il ricorso ad una soluzione di emergenza, l’apparente ripresa, il ‘tocco di classe’ di campioni ‘presunti’ che sul più bello hanno pensato bene di credersi sto***zo e di buttare via una qualificazione per l’Europa League che era lì, a un soffio… e poi l’ovvio, perfino banale epilogo, con una Coppa Italia che era scritto dovesse essere vinta dalla Lazio, che in queste occasioni l’ha sempre spuntata e che comunque l’ammissione in Europa quest’anno l’ha meritata più della Roma.

L’impressione è che seguire la Roma sia ormai diventata solo una colossale perdita di tempo, uno spreco di energie mentali ed emotive al seguito di una squadra destinata sempre  e comunque a perdere,  a non cogliere mai le occasioni che le si presentato, a restare incastrata nei secoli dei secoli in una mediocrità esasperante, pari solo alla protervia di certi tifosi, che ogni anno si dicono sicuri ‘che questa è la volta buona’… La prospettiva di pensare alla Roma, di continuare  a seguirne le sorti, è nauseante; alla fine nella vita c’è tanto di meglio e di più gratificante da fare che non seguire le sorti di una squadra le cui vittorie sono assolutamente casuali.

PELLICANS, “DANCING BOY” (LADY LOVELY / AUDIOGLOBE)

Secondo lavoro sulla lunga distanza per i Pellicans, formazione proveniente dalla zona di Pinerolo (provincia di Torino), autrice di un formula da loro stessi definita: ‘reggae queer’: sonorità giamaicane, accompagnate ad un’attitudine gay / bisex, da loro posta come contraltare rispetto al maschilismo che non di rado appare caratterizzare il genere.

Sotto il profilo sonoro, il sestetto piemontese, più che  a riscoprire le ‘origini’, o a seguire i più recenti sviluppi del genre, appare interessato a recuperare certe contaminazioni britanniche a cavallo trai ’70 e gli ’80, colorando le sonorità di partenza con suggestioni che di volta in volta fanno respirare atmosfere quasi indie, flirtano col dub, strizzano l’occhio alla dance e non si tirano indietro dal confezionare brani che potrebbero essere tranquillamente definiti ‘pop’. Un pop (ovviamente) solare, fresco e leggero, che non si nega spazi di riflessione, in pezzi interpretati dalla voce di Roberto Pretto, spesso nell’efficace mix creato  dall’accompagnamento ai cori di Giovanna Rostagno. Produce Ru Catania (Africe Unite, il disco esce per la sua etichetta Lady Lovely), che con la band aveva già collaborato in occasione del precedente “Lunapark Underground”.

La tentazione di tirare in ballo gli UB 40 (alfieri della via britannica al reggae dalla fine degli anni ’70 in poi), non tanto per i suoni, quanto per l’attitudine degli undici brani presenti, volta a cercare di contaminare il genere, rispettando la tradizione, ma senza farsene incardinare, senza curarsi troppo delle conseguenze. L’esito è piacevole, a tratti ammiccante, con pezzi la cui solarità si colora di vaghe tinte malinconiche, come al tramonto di certe interminabili giornate estive. Un lavoro che piacerà agli amanti del genere (pur probabilmente facendo un pò storcere il naso ai puristi eccessivi) e che si apre volentieri anche all’ascolto di chi non lo frequenta abitualmente.

THE CHILD OF A CREEK – “THE EARTH CRIES BLOOD” (SEAHORSE RECORDINGS / AUDIOGLOBE)

Ormai The Child Of A Creek gira già da un pò: dal 2005 in poi, il progetto, dietro al quale si nasconde una ‘one man band’ di stanza a Livorno, è arrivato al quinto lavoro, con un sesto già in rampa di lancio.

Una carriera all’insegna di continui cambi di direzione: il suo precedente lavoro, “Whispering Tales Under An Emerald Sun”, prendeva certe pregresse sonorità indie folk, declinandole in atmosfere a cavallo tra il gotico e l’apocalittico; nel caso di “Earth Cries Blood”, la strada cambia nuovamente, stavolta all’insegna di una maggiore varietà di soluzioni: a fianco di suggestioni gotiche, atmosfere shoegaze ed escursioni accennate in territori ambient, si trovano con maggiore frequenza ballate che sembrano uscite dal repertorio del periodo d’oro dell’hard rock / heavy metal di inizio anni ’80, una certa ‘corposità’ chitarristica messa al servizio di atmosfere cerpuscolari.

Il filo conduttore appare proprio essere quelle dei climi, vagamente nuvolosi, di tinte ombreggiate, serali, anche se forse mai del tutto notturne: una ‘costante umorale’ compassata, spesso malinconica (accresciuta da un cantato intenso, ma mai sopra le righe, cui in un episodio contribuisce Pantaleimon di Current 93)), declinata però con una certa varietà di stili che conferiscono al disco un certo dinamismo, mantenendo viva l’attenzione dell’ascoltatore.

Child Of A Creek aggiunge dunque un nuovo efficace ed interessante tassello al mosaico della propria biografia musicale.

ELEZIONI ROMANE

Cacchio, come passa il tempo… sembra ieri, come citava una canzone di Bennato… e rieccoci qui, cinque anni dopo, a rieleggere il sindaco della Capitale.  Come andarono le cose l’ultima volta, lo ricordiamo un pò tutti: ricordiamo Veltroni ‘il Supersindaco’ specializzato nel tagliare nastri; ricordiamo i problemi sottovalutati o passati in secondo piano, come la più classica ‘polvere sotto il tappeto’; ricordiamo i lustrini della ‘Festa der cinema’, mentre in periferia cresceva il malcontento e l’astio verso ‘l’altro’; ricordiamo la favoletta di ‘Roma città dell’accoglienza’ quando poi bastava salire su un autobus o andare in un mercato per capire che le cose non stavano esattamente così; ricordiamo la scelta demenziale di ricorrere a un cavallo di ritorno come Rutelli… e infine ricordiamo il trionfo di Alè – Magno, con contorno di saluti romani sotto al Marco Aurelio… Tante grazie.

Sono passati quattro anni e a Roma le cose non sono migliorate; a dirla tutta non sono nemmeno naufragate, Roma dà l’impressione di essere un enorme transatlantico che va avanti per conto suo a prescindere da chi la governa; il problema arriva se il mastodontico natante si arena, perché allora disincagliarlo è un bel dito in c**o… Dopo cinque anni Roma non è ‘incagliata’, ma senz’altro non ha cambiato rotta: i problemi sono sempre gli stessi, a cominciare dal traffico e dalla nettezza urbana: questioni che in questi quattro anni sono state bel lungi dall’essere affrontate di petto, ma che sono state lasciate lì a incancrenire… sulla raccolta differenziata qualcosa si è fatto, ma in cinque  anni i risultati sono sotto la media, per non parlare della questione della discarica di Malagrotta;  se poi pensiamo che guarda caso, proprio le due società che gestiscono trasporto pubblico e spazzatura – ATAC e AMA – sono state al centro di scandali riguardanti assunzioni clientelari, il cerchio si chiude.

Altri quattro anni di Alemanno sarebbero quindi una jattura con pochi precedenti; il problema è però chi mettere al suo posto; il candidato più papabile è ovviamente Marino, sostenuto dal centrosinistra. Ora. Marino è una persona onesta e degna; lascia qualche dubbio il fatto che si intenda più che altro di medicina, per quanto mi riguarda sarebbe stato un ottimo Ministro o Assessore alla Sanità, ma sarà veramente adatto a fare il sindaco? Venisse eletto, mi auguro almeno si circondi delle persone giuste… il problema è che nel caso diventasse sindaco, Ignazio Marino avrebbe le mani legate, ammanettate da un partito che anche a Roma è ridotto ad una serie di bande in lotta tra loro per il territorio. Fosse eletto, Marino avrebbe a che fare con un PD costituito da almeno tre partiti: la base, che l’ha eletto alle primarie, la ‘banda Gentiloni’ (per intenderci il PD che segue la tradizione rutellian-veltroniana) e la ‘banda Sassoli’ (ovvero il PD del versante Bersanian – D’Alemiano); aggiungiamoci Sel e, probabilmente Alfio Marchini che, da uomo sedicente di sinistra, correrà in suo soccorso in un eventuale ballottaggio… Il risultato sarà la solita accozzaglia cui la sinistra ci ha abituato da tempo, con la solita spartizione delle poltrone e risultati nefasti per l’amministrazione cittadina. Iganzio Marino ha la mia stima e il mio rispetto, ma mi dispiace, Roma ha già dato. Basta così, è tempo di provare altro. Alemanno ha avuto la sua occasione e i risultati (non) si sono visti.

Io darò il mio voto al Cinque Stelle Marcello De Vito: il suo programma non è poi così dissimile dagli altri (tutti sono abbastanza dominati da dichiarazioni di principio, ed idee un pò generiche, entrando non troppo nel merito delle questioni), però che devo dire? Mi dà fiducia. Mi dà fiducia per lo stesso motivo per cui mi danno ancora fiducia i Cinque Stelle: sono nuovi, hanno entusiasmo e voglia di fare, non sono legati a logiche vecchie viste fino ad ora; poi per carità, può anche essere che una Roma governata dal MoVimento imploda dopo un anno e messo e si debba riandare ad elezioni, tutto è possibile; la mia impressione è che però per governare bene Roma ci voglia solo un pò di conoscenza e di ‘vissuto’ dei problemi e di buon senso; soprattutto, c’è bisogno di evadere dalle logiche spartitorie, dagli ammanicamenti, dagli ‘aggiustamenti’ con ‘gli amici degli amici degli amici’; c’è bisogno di piantarla di vedere Roma come un trogolo cui si avvicina di volta in volta il branco di chi vince le elezioni… e sinceramente, se penso ad Alemanno od al PD, non sono tanto sereno, a riguardo; Marcello De Vito mi dà più sicurezza (oltre a chiamarsi come me: Marcello, un nome – una garanzia 🙂 ).

Se poi De Vito non ce la farà e si proporrà il ballottaggio che tutti credono, finirò per dare fiducia a Marino, sperando che riesca a svincolarsi dal legame ingombrante con un partito ed un alleanza in cui gli stracci (ed altro) sono sempre lì lì per prendere il volo; ma sarebbe comunque un voto al meno peggio, nella quasi certezza che tutto rimarrà come prima e che ci si debba solo augurare che l’enorme cetaceo capitolino non si areni da qualche parte.

TOPOLINO 3000

Topolino mi ha accompagnato per una buona fetta della mia vita: una decina d’anni e qualcosa attorno ai 6 – 700 numeri, ancora lì, belli impilati in soffitta… Poi a un certo punto mi fermai, abbracciando i Supereroi… Recentemente ho ricominciato a leggere avventure disneyane, grazie al recente nuovo albo mensile dedicato a Paperinik; ma insomma, nonostante questo, Disney, assieme a Schultz e ai suoi Penauts, resta un ‘must’… per questo oggi alle sette e mezza di mattina o giù di lì, sono sceso apposta in edicola per comprare il numero 3000; perché nonostante Topolino non lo compri più dai primi anni ’90, questi anniversari vanno festeggiati: l’infanzia non si dimentica e allora, EVVIVA TOPOLINO!!!!

IRON MAN 3

Regia: Shane Black

Con: Robert Downey Jr., Gwyneth Paltrow, Ben Kingsley, Guy Pearce, Don Cheadle, Rebecca Hall.

Più di tante parole, per capire la differenza tra il terzo capitolo della saga di Iron Man e i precedenti, bastano i primi 30 secondi: quando al posto degli AC/DC partono gli Eiffel 65, lo spettatore smaliziato capisce che non c’è da aspettarsi nulla di buono…

Come si conviene ad ogni trilogia (super)eroistica che si rispetti, nel primo capitolo abbiamo assistito alla nascita dell’eroe, nel secondo alla scoperta dei suoi limiti, nel terzo ecco la sua caduta e resurrezione. Ritroviamo un Tony Stark non più così sicuro dei suoi mezzi: l’avventura vissuta con gli altri Vendicatori in Avengers ha lasciato il segno: un uomo devoto alla scienza e alla tecnologia ha dovuto affrontare un’invasione aliena appoggiata da un dio nordico e l’ha sventata assieme a un manipolo di eroi tra cui un’altra divinità norrena, un individuo capace di diventare una furia verde alta tre metri e un soldato della Seconda Guerra Mondiale, sopravvissuto grazie all’ibernazione nei ghiacci dell’Artico: troppo, anche per un ‘supereroe’, e infatti Stark è diventato psicologicamente fragile, preda di attacchi di panico e ormai sempre più incapace di vivere ‘normalmente’ al di fuori della sua corazza.

A complicare il tutto arriverà il Mandarino, un terrorista internazionale impegnato a voler dare la ‘lezione definitiva’ agli USA e che finirà per privare Tony Stark di tutto, costringendolo a ripartire praticamente da zero, in una cittadina della provincia americana, col solo aiuto di un adolescente, naturalmente privo di padre, vittima di bulli e con una madre troppo impegnata per accorgersi che il figlio si accompagna con un quarantenne che si è ‘insediato’ nel loro garage, riempiendolo di gadget elettronici…

Il nostro protagonista riuscirà naturalmente a risalire la china, mostrando a sé stesso di potercela fare con le proprie forze (a costo di trasformare Iron Man 3 per una mezz’ora buona nel nuovo film di 007), scoprendo la verità dietro alle manipolazioni del Mandarino, con una trovata che sconvolge completamene la ragion d’essere di uno dei ‘cattivi storici’ dell’universo Marvel, per la quale gli sceneggiatori si meriterebbero l’ergasotolo, fino allo scontro finale…

A voler essere generosi, si può definire Iron Man 3 un buon film d’azione, che più che agli appassionati di fumetti, appare strizzare l’occhio in generale agli amanti del ‘genere’ e orientato per lo più a un pubblico di famiglie; a voler essere cattivi e anche acidi, c’è da sottolineare (come hanno fatto già in tanti) che mai come in precedenza in questo Mavel movie si respira ‘aria da Disney’ (ricordiamo che il colosso dalle grandi orecchie da qualche anno è diventato proprietario della Marvel e dunque ha voce in capitolo anche sulle sue ‘espressioni cinematografiche): l’atmosfera natalizia (ricorrente in una colonna sonora invereconda infarcita di brani ‘a tema’, in luogo delle precedenti, molto più rock), il ricorso allo stratagemma del ‘ragazzino che aiuta l’eroe a risorgere’ (non si capisce con quale funzione, visto che anche gli spettatori più giovani si immedesimano con l’eroe con principale anziché col suo ‘alleato’), un’ironia che, pur presente anche nei precedenti episodi, stavolta è declinata in battutine molto più scontate, prive di quel sottile sarcasmo che caratterizzava i film precedenti. A gridare vendetta è però soprattutto il succitato massacro perpetrato ai danni del personaggio del Mandarino.

Guardato come ‘film di supereroi Marvel’, specie se confrontato coi precedenti, Iron Man 3 insomma appare non funzionare granché: il concetto di fondo, quello dell’eroe che ritrova la sua umanità e il suo essere ‘super’ dentro di sé anche se privato della propria armatura, è forse apprezzabile, per quanto già visto e rivisto, ma il tutto è svolto in modi lontani anni luce dai precedenti. Pretenziosa e scontata la riflessione sull’affidabilità di quanto ci viene propinato dai mezzi d’informazione; si salva solo la sequenza dello scontro finale (e ci mancherebbe pure, viene da pensare), che tutto sommato è l’unico punto a favore di questo terzo capitolo nei confronti del secondo. Godibile infine il consueto epilogo dopo i titoli di coda, che però per la prima volta (altra scelta discutibile) non costituisce un’anticipazione del prossimo Marvel movie che sarà il secondo capitolo delle avventure di Thor.

Il cast si limita al lavoro d’ordinanza senza metterci nemmeno troppo impegno, in questo per nulla aiutato da una sceneggiatura piatta e insipida; Downey Jr è come al solito convincente nei panni di Tony Stark, ma dà sempre più l’impressione di stare lì ‘per contratto’, Gwyneth Paltrow è ancora una volta Pepper Potts, in un ruolo che non richiede troppo impegno, a Ben Kingsley basta la presenza per dare credibilità al Mandarino, almeno fino a quando gli sceneggiatori non decidono di demolire completamente il personaggio, Don Cheadle partecipa in un ruolo di contorno quasi del tutto inutile, maggiore spazio avrebbe meritato il personaggio interpretato da Rebecca Hall, che resta lì, né carne né pesce, poco oltre un semplice abbozzo;da ricordare la partecipazione, come Presidente e Vice Presidente degli Stati Uniti, di William Sadler e Miguel Ferrer, trai più apprezzati caratteristi di cinema e tv degli ultimi 20 anni. Immancabile, naturalmente il cameo di Stan Lee.

Si esce dalla sala sperando che ‘il cattivo giorno non si veda dal mattino’ e che questo primo capitolo della ‘fase due dei supereroi Marvel al cinema’ non costituisca un indizio attendibile della strada che si è deciso di prendere.

INCONTRI…

…fin da quando sono ragazzino, ho assistito un pò divertito a questo luogo comune secondo cui a Roma incontri ‘gente famosa’ ad ogni angolo di strada. Non che non sia vero, intendiamoci, ovviamente la statistica ti dice che incontrare ‘uno famoso’ è più probabile nel centro di Roma che non in quello di Bitonto, Sassuolo o Nocera Umbra, per dire… ma insomma, la casualità gioca il suo bel ruolo, a meno che tu non ti chiami Paolini e abbia come principale occupazione quella di inseguire i politici dalla mattina alla sera per apparire in tv… Ovviamente, nella mia ormai quasi quarantennale esistenza, anche a me è capitato di incrociare politici, attori e cantanti… l’incontro più emozionante fu quello con Paolo Conte, che se ne girava in un’affollata via del Corso (per i non romani, la principale arteria del centro di Roma) di sabato pomeriggio, senza che nessuno lo notasse minimamente. Ecco, quello con Paolo Conte fu un incontro eccezionale, anche perché Conte non abita a Roma, era qui per dei concerti, poi vai a pensare che uno come lui se ne vada a passeggio per il centro di sabato pomeriggio… un incontro ‘simpatico’ fu quello con uno dei Fichi d’India (quello che purtroppo è stato male ultimamente): eravamo nell’allora ‘Messaggerie Musicali’, nel settore jazz-rock e scambiammo due parole sui Perigeo: lì scoprii che dietro al ‘personaggio’ c’era una persona dall’ottima cultura musicale. Surreale fu incrociare Berlusconi, sempre di sabato pomeriggio, sempre in via del Corso, quando ancora si poteva permettere ‘bagni di folla’ senza troppi timori… Tutto questo preambolo per raccontarvi cosa è successo ieri: l’ho avvistato dal tram, che se ne girava tranquillo, in direzione della manifestazione di Sel: l’ho notato, e come sempre in queste situazioni si crea quel ‘cortocircuito’: una persona vista così tanto, citata innumerevoli volte nelle ultime settimane, quando la vedi ‘dal vivo’ c’è sempre una sensazione strana. Scendo dal tram – che nel frattempo lo ha superato’ – e tergiverso un pò… poi gli vado incontro, e col solito fare un pò goffo di queste occasioni, smozzico a mezza voce: “scusi, lei è il professor Rodotà?”. Lui: ‘si’. Gli allungo la mano e gliela stringo, bofonchio un ‘grazie’, la prima parola che mi viene in mente – in queste occasioni non sai mai che cavolo dire (a Paolo Conte, dissi ‘lei è un grande’) – non ricordo esattamente cos’altro gli ho detto, lui mi ha risposto: “adesso continuiamo a lavorare” e ha proseguito per la sua strada io l’ho salutato con un ‘auguri’ (ma che ca**o, ma gli potevo dire: ‘buon lavoro?’) e me ne sono tornato sui miei passi, con la classica sensazione tipica mia di queste situazioni (e non solo), di non aver avuto la battuta pronta: appena finito il ‘momento’, ti vengono in mente decine di cose che avresti potuto dire, ma che per soggezione ed emozione non sei riuscito: già è stato tanto prendere il coraggio ed andargli incontro… Però, accidenti!! Insomma, RO-DO-TA’!!! l’ho scandito anche io, davanti alla Camera… che poi quella parola a forza di pronunciarla, smette di essere collegata ad una cosa, o come in questo caso ad una persona, e vive di vita propria… e invece ieri la parola si è riconnessa improvvisamente al suo ‘proprietario’, un uomo il cui sguardo potrei definire ‘dolce’, la stratta di mano non vigorosa, ma calorosa… a pensarci, ho stretto la mano al Professor Rodotà, uno che a quest’ora poteva essere il Presidente della Repubblica…

R.I.P. (?) GIULIO ANDREOTTI (1919 – 2013)

Il punto interrogativo non è un refuso; l’ho messo tra parentesi perché tutto sommato non sono sicuro nemmeno del fatto che ci si debba domandare se Giulio Andreotti sia degno di riposare in pace, oppure no. Anzi: la domanda è a tutti gli effetti oziosa. Andreotti è morto, ed è stato ciò che è stato ormai troppi anni fa… si potrebbe quasi affermare che la sua morte abbia un impatto più per le televisioni e i giornali che non su altri media; Andreotti è un residuo di un’altra epoca, l’epoca appunto in cui l’informazione passava su giornali e tv…  Se pensiamo ai blog, a Facebook, a Twitter, ci rendiamo conto che sono strumenti di nuova generazione per nuove generazioni, per gente che oggi a 16, 20, 25 anni Andreotti probabilmente sa chi è più o meno solo di nome, i più fortunati o curiosi probabilmente hanno letto qualcosa di più di lui… ma insomma l’impressione che ho in queste ore è che se ne parli quasi ‘per contratto’, quasi fosse un obbligo. Andreotti in effetti non è stato un Padre della Patria, non ha ispirato grandi ideali, non ha mai mosso gli animi; le emozioni più vivide che ha suscitato sono state le risate delle tante imitazioni… per il resto, Andreotti ha rappresentato probabilmente la ‘politica’ nel senso più deteriore e deleterio del termine: il compromesso, la conservazione, il restare fermi che è sempre e  comunque meglio di qualsiasi ‘fuga in avanti’, il raggiungimento, la conservazione e la gestione del potere per il potere…  Paradossalmente si potrebbe addirittura affermare che nonostante abbia dominato 50 anni di storia politica italiana (e questo dice molto, più che sulla grandezza dell’uomo, sulla mediocrità della politica italiana, che purtroppo mi pare prosegua anche oggi), Andreotti non ha mai legato il suo nome ad alcun progresso civile, sociale ed economico degli italiani. Semmai, il fatto che abbia avuto un ruolo di primo piano per così tanto tempo nelle vicende politiche italiane, gli assegna un ruolo di diritto negli episodi più oscuri, le bombe nelle piazze, nelle stazioni, sui treni, gli omicidi mai chiariti di persone scomode. Andreotti ha sempre avuto un atteggiamento ambiguo quando gli sono state fatte delle domande a riguardo: a volte ha affermato di non sapere, più recentemente ha ammesso di conoscere alcuni segreti, ma di volerseli portare ‘in paradiso’: il suo modo di risolvere le questioni era quello di snocciolare una delle sue consuete massime, motti di spirito, esempi di arguzia, di fronte alle quali si sorrideva quando magari era il caso di incavolarsi, di fronte a quelle che apparivano come plateali prese per i fondelli. Io non so se Andreotti effettivamente ‘sapesse’: se non sapeva,  tutto a posto; ma se sapeva e ha taciuto è un altro paio di maniche. Il cerchio certo si chiuderebbe, perché anche questo sarebbe un aspetto della sua concezione di politica come conservazione: l’insabbiare e mettere a tacere tutto, perché l’importante è mantenere lo status quo, anche se questo vuol dire lasciare inspiegate centinaia di morti, in virtù di una visione della ‘ragion di Stato’ che si potrebbe definire ‘ottusa’: il ‘popolo’ insomma va tenuto nell’ignoranza… E ‘questa la cosa peggiore: l’impressione che con Andreotti se ne sia andata via forse l’ultima persona che realmente poteva dire di ‘sapere’, mentre ad oggi troppi punti oscuri della storia d’Italia sembrano destinati a rimanere nell’ombra e a sfumare progressivamente col passare del tempo, senza uno straccio di spiegazione.