“Dieci Lune”, ovvero: la durata della gravidanza, periodo scandito dall’attesa, dal rallentamento dei tempi, da una sorta di ‘bolla’, di ‘sospensione’, un presente dilatato che nell’attesa di un futuro in cui cambierà tutto o quasi, consente di riflettere sul passato; se di mestiere si fa l’artista, si ha il privilegio da un lato di poter tradurre le proprie emozioni attraverso la propria arte, dall’altro di far vivere anche alla propria arte questo eccezionale periodo della vita.
Cristina Renzetti, poi, è una che di ‘periodi’, di fasi della vita, se ne intende: terzana di nascita, bolognese d’adozione e brasiliana per vocazione, avendo trovato proprio in quella terra la propria realizzazione, per una carriera ormai decennale, tra collaborazioni, dischi solisti – due, cantanti in portoghese, prima di questo – partecipazioni a colonne sonore e vari progetti, tra cui un suggestivo omaggio a Tom Jobim nella chiesa di Santa Croce di Umbertide.
Si giunge così a “Dieci Lune”, primo lavoro cantato in italiano, frutto della collaborazione col contrabbassista Enzo Pietropaoli, figura di spicco della scena jazz italiana. Dieci brani, uno per ‘luna’, facile immaginare; così come viene altrettanto spontaneo il rimando tra la maternità vissuta dalla cantautrice e il ritorno alla propria ‘lingua – madre’.
Non che poi questo sia un disco dedicato alla maternità (una solo pezzo dedicato esplicitamente all’attesa): piuttosto, come accennato prima, è un lavoro in cui sembrano affastellarsi una serie di riflessioni, ricordi, sul cammino fin qui compiuto: come se si volesse in un certo modo ‘fare ordine’ prima che la ‘svolta’ e l’inizio di una fase veramente nuova dell’esistenza impediscano a lungo di provvedere.
Storie d’amore, riprese nella tenerezza del loro sbocciare, nella durezza di un momento ‘critico’ o nella sofferenza della conclusione; storie ‘di famiglia’, come i difficili rapporti tra sorelle; storie, più semplicemente, di ‘vita’: riflessioni sul proprio rapporto coi ‘massimi sistemi’, il mondo dei filosofi e degli intellettuali; gli amori pronti ad accogliere e chissà perché, lasciati andare via; il ‘pendolarismo studentesco’ come metafora del periodo della vita in cui si vorrebbe – ma ancora non troppo – lasciare il ‘nido’, a cui magari si ritorna dopo tempo, per farsi avvolgere dal calore dei ricordi.
La vita come continua ricerca di qualcosa che irrimediabilmente sfugge, ricerca che può improvvisamente rivelarsi vuota e fine a sé stessa, portando a fermarsi, tornare indietro e avviare un viaggio non fisico, ma, in maniera più complicata, interiore.
Il jazz e il Brasile naturalmente dominano, sulle tracce dei classici della Bossa Nova e soprattutto delle voci femminili, in atmosfere sostanzialmente raccolte, il calore domestico come la dimensione più accogliente dove, appunto, vivere ‘l’attesa’; accompagnata con eleganza da un manipolo di musicisti (chitarre e una sezione ritmica dai modi discreti, occasionalmente una tromba e il contrabbasso di Pietropaoli).
Cristina Renzetti tesse tele – vocali e per chitarra – tenui, a tratti rarefatte ed evanescenti, senza negarsi qualche parentesi più ritmata: la penombra casalinga è certo avvolgente e rassicurante, ma ogni tanto è bene aprire le finestre, far filtrare aria e luminosità: una dose, quanto basta, di pop e, non poteva essere altrimenti, l’ombra del cantautorato italiano, più o meno recente (qualche analogia con l’omonima Cristina Donà).
Un disco delicato e soffuso, dal quale lasciarsi abbracciare.