Archive for ottobre 2015

LEBOWSKI, “DISADOTTATI” (AUTOPRODOTTO / AUDIOGLOBE)

Superato il decennio di attività, i Lebowski giungono al terzo lavoro da studio, con più di una novità: dalla scelta di passare all’autoproduzione a quella di mettere in pausa la collaborazione con Giulio Ragno Favero, affidando la produzione e il mastering del disco a David Lenci e Riccardo ‘Rico’ Gamondi (Uochi Tochi), fino a una scelta stilistica in cui l’ironia, da sempre filo conduttore dei loro pezzi, si trasforma in uno sguardo amaro, a tratti cinico sul mondo circostante.

I ‘Disadottati’ del titolo sono i personaggi che occupano gli otto brani che compongono il disco: persone più o meno prive di una prospettiva – soprattutto lavorativa – che si arrangiano come possono, cercando un modus vivendi: c’è chi si districa trai conti di fine mese, cercando allo stesso tempo una serenità sempre più complicata da raggiungere, il giovane che tenta la scorciatoia del poker on line (paradigma delle ormai innumerevoli occasioni di ‘vincere facile’ offerte dalla società) e il pensionato che va a vivere all’estero, in uno di quegli Stati dove anche una pensione italiana modesta permette una vita dignitosa e chi, sentendosi dare dell’incapiente, si sente colpito proprio nella propria dignità di individuo; ci sono il ‘tagliateste’ che cerca di convincere la vittima di turno che il suo licenziamento è in realtà una porta aperta su un mondo di opportunità e la ‘testa tagliata’ che sa bene come andrà a finire…

Il voto sembrerebbe costituire l’unica via di uscita ‘istituzionale’ da queste poco edificanti prospettive, ma al momento di mettere la ‘X’ sulla scheda montano i dubbi (anche sull’effettiva utilità dell’esercizio elettorale) e allora forse l’unica salvezza è rifugiarsi nelle proprie fantasie, immaginandosi magari come un epigono del Charles Bronson de “Il giustiziere della notte”, pronto a raddrizzare i torti, alla ricerca di una vita (citando voi-sapete-chi) ‘più maleducata e più spericolata’.

I cinque Lebowski danno vita a un disco ruvido, sferragliante, memori dei propri punti di riferimento, tutti più o meno ascrivibili all’età del post-punk o dell’art rock di inizio anni ’80, cercando magari un’impronta più autonoma, in un lavoro in cui la frustata elettrica, i muri sonori scrostati su cui ci si può scorticare sono sempre dietro l’angolo, anche nei momenti apparentemente più dilatati, quando non dominano apertamente interi episodi.

Un lavoro che alla fine lascia l’idea di un discorso aperto, di qualcosa di ‘non concluso’, come se la band fosse in corso d’opera per consolidare il proprio stile sonoro, cercando nel contempo un salto di qualità nella scrittura: non tutto forse funziona alla perfezione, si avverte qualche incertezza e qualche passaggio a vuoto e si rimane un po’ in sospeso, in attesa di ulteriori sviluppi.

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TEO MANZO, “LE PIROMANI” (LIBELLULA MUSIC / AUDIOGLOBE)

Le ‘piromani’ dal titolo rappresentano, almeno sembra, dei ‘casi isolati’, visto che la ‘fissazione’ per il fuoco colpirebbe solo gli uomini. Le ‘piromani’, insomma, finirebbero per essere più un ‘atto di fede’ che una sicurezza scientifica… Il milanese Teo Manzo, quest’anno già protagonista dell’esordio discografico de La linea del pane col loro “Utopia di un’autopsia”, torna a qualche mese di distanza con questo concept ‘apocalittico-politico-esistenziale’, in cui, per estensione del concetto già esposto, le ‘Piromani’ sarebbero le ‘fedi’, non solo religiose, ma anche politiche, scientifiche e quant’altro, che prima o poi finiscono per caratterizzare in qualche modo le vite di ognuno… ‘fedi’ i principi delle quali finiscono per essere accettati di per sé stessi, senza che questi siano sempre provati dai fatti e dalla realtà.

Un concept, dunque: nei sedici brani lungo cui si snoda il lavoro, Teo Manzo ci narra una storia per certi versi disperatissima… Il protagonista è un astronomo, posto di fronte alla probabile caduta della Luna sulla Terra; le sue convinzioni lo portano a schierarsi contro la maggioranza, non credendo nell’Apocalisse imminente (chissà, forse una metafora dell’oggi, in cui gli uomini di scienza sono costretti a combattere lotte impari contro le voci che si diffondono incontrollate sui social network); costretto, alla fine, a riparare in un rifugio in attesa della catastrofe, il nostro si troverà invece a dover fare i conti con l’improvviso venir meno – stavolta reale – di un punto fermo della sua esistenza, assistendo impotente all’improvvisa dipartita dell’amata…

Sconvolto dalla sua personalissima ‘fine del mondo’, il nostro abbandonerà ogni razionalità, unendosi all’immancabile rivoluzione scoppiata in attesa del giorno del giudizio… solo per prendere atto che anche gli ideali rivoluzionari non sono esenti da punti deboli, rivelandosi effimeri come tutte le altre ‘fedi’ in cui gli uomini ricercano il senso della propria esistenza.

Insomma, messo in discussione il sapere scientifico cui ha dedicato la vita professionale, spazzata via la sicurezza offerta dall’amore, rivelatasi fallace anche la strada della Rivoluzione, al nostro protagonista non sembra restare nulla, eccetto forse l’abbandono, fisico, onirico o simbolico, di questo mondo, alla ricerca – forse di una nuova dimensione…

Il finale non è scritto, e anzi Manzo ne propone tre, come se in fondo, la scelta finale stesse ad ognuno, al di là dei principi più o meno saldi su cui si sono basate le proprie scelte di vita.

Letta così, sembra a dire il vero un po’ complicata… e forse il difetto maggiore de “Le Piromani” sta proprio nella sua poca ‘linearità’: come se l’autore avesse tanto, troppo da dire – e i ben sedici brani che compongono il disco ne sono la maggiore testimonianza – e come se allo stesso tempo fosse spinto dall’urgenza di dirlo ‘tutto e subito’; l’ascoltatore viene così quasi trascinato in un viaggio intricato fatto di metafore, allegorie, ‘non detti’, pensieri affastellati, considerazioni sparse e flussi di coscienza, al termine dei quali si finisce per avvertire anche una certa stanchezza…

Il cantautore milanese mostra certo una discreta capacità di scrittura, mostrando di aver imparato bene la lezione dei ‘classici’: si potrebbe citare De André, (se non altro perché tra le sue esperienze c’è anche un tour dal vivo proprio dedicato alle canzoni di Faber), ma viene spesso in mente anche Claudio Lolli. Un disco che fa della ballata acustica il principale modello di riferimento, voce e chitarra a dominare un ensemble sonoro che alla lunga appare un filo statico, monolitico… Non a caso, forse, il brano più convincente dell’intero lotto è forse ‘Buco Nero’, in cui Manzo è accompagnato dalla voce di Silvia Ottanà.

Teo Manzo conferma ciò che di positivo aveva già fatto intravedere con La linea del pane; tuttavia, i pregi del cantautore finiscono per essere messi un po’ in ombra dall’impressione di trovarsi di fronte al classico passo più lungo della gamba: un disco d’esordio in cui l’autore si è voluto inerpicare in un’arrampicata di sedici brani, in cui è quasi scontato che agli episodi efficaci si mescoli più di un passaggio a vuoto, ‘annacquandone’, in un certo senso, i pregi. Forse una maggiore sintesi, nel complesso e anche in certi brani che si estendono fino ai sei, sette minuti, avrebbe donato più compattezza ed efficacia all’intero lavoro. Lo sforzo è lodevole e, dà l’idea se non altro di un autore sicuro di sé e dei propri mezzi; il risultato non del tutto riuscito.

SUZ, “LACEWORK” (IRMA RECORDS / SELF)

Suz, al secolo: Susanna La Polla; bolognese di nascita, ‘bristoliana’ di adozione, almeno sotto il profilo sonoro. Bristol, ovvero: trip hop, e fa una discreta impressione pensare al fatto che la prima ‘ondata’ di quel genere, alfieri Portishead e Massive Attack, risalga ormai a quasi vent’anni fa.

Eppure, l’onda lunga, non si è mai esaurita: anzi, le ‘risacche’, per quanto non debordanti, restano si ripetono con costanza.

Suz, qui al terzo lavoro sulla lunga distanza, fa dunque parte della categoria: un esordio da vocalist e corista con il ragamuffer italico Papa Ricky, poi varie collaborazioni, fino ad avviare la carriera solista sul finire degli anni ’00 del ventunesimo secolo.

“Lacework”, parola inglese per definire un tessuto finemente lavorato,un pizzo o un merletto, come quelli riprodotti nell’artwork di digipak e booklet: dieci brani dove ritroviamo tutti gli elementi tipici del genere, a partire dalle sonorità rarefatte e le atmosfere dilatate, sospese in una dimensione vagamente onirica; tappeti sonori che tessono fondali, incorniciano e avvolgono il cantato protagonista indiscusso di tutto il lavoro, ad interpretare testi in cui ricorrono suggestioni atmosferiche e ‘ambientali’ (Wall of Mist, Still Water) e riferimenti alla mitologia classica (Anthemusa, Lethe).

I dieci brani di “Lacework” (una quarantina di minuti la durata complessiva) si snodano all’insegna di umori in cui si alternano riflessione e sottile malinconia, pur senza negarsi episodi all’insegna di una maggiore solarità; la cifra stilistica del disco è quella di un’eleganza composta, dai modi spesso sofisticati, quasi da jazz club, similitudine non casuale, dato che tra le sue varie esperienze la cantautrice bolognese conta proprio un quintetto jazz; non appare casuale, in questo senso, il brano dedicato a Billie Holiday posto proprio in apertura del disco.

Il limite del disco risiede forse un po’ troppo insistita di una certa perfezione formale, di una raffinatezza estetica che, per quanto godibile e, finisce per essere a tratti un filo algida, privando il disco di un tantino di impatto emotivo.

FAMOSE ‘NA CANTATA

(e Proietti per me sarebbe un ottimo sindaco)

 

 

MARINO – THE END

Peccato, veramente.

Continuo a pensare che Marino è finito come è finito non solo per certi suoi limiti (di ‘limiti’ però ne hanno tutti, e se mi si permette un paragone, qualche cena addebitata di straforo è comunque meno grave di decine di assunzioni di amici e parenti, ma vabbè…), ma anche perché, fin dall’inizio, ha avuto tutti contro, a partire dal PD.

Che le ‘badanti’ di Marino, Causi ed Esposito in testa, avrebbero colto il primo ‘casus belli’ per far crollare tutto, era prevedibile fin dall’inizio: l’unica colpa di Marino è avergliene dato l’opportunità.

Sia come sia, sono convinto di una cosa: in queste ore ladri, palazzinari, mafiosi, pseudointellettuali da salotto, giornalisti messi a 90° e tutti gli esponenti del peggior lerciume capitolino stanno brindando ad ostriche, caviale e champagne.

Il futuro? Probabilmente, il ritorno al potere di quelli che hanno governato Roma negli ultimi trent’anni, riducendo Roma come è oggi.

Altro che Marino. MALEDETTI.