Superato il decennio di attività, i Lebowski giungono al terzo lavoro da studio, con più di una novità: dalla scelta di passare all’autoproduzione a quella di mettere in pausa la collaborazione con Giulio Ragno Favero, affidando la produzione e il mastering del disco a David Lenci e Riccardo ‘Rico’ Gamondi (Uochi Tochi), fino a una scelta stilistica in cui l’ironia, da sempre filo conduttore dei loro pezzi, si trasforma in uno sguardo amaro, a tratti cinico sul mondo circostante.
I ‘Disadottati’ del titolo sono i personaggi che occupano gli otto brani che compongono il disco: persone più o meno prive di una prospettiva – soprattutto lavorativa – che si arrangiano come possono, cercando un modus vivendi: c’è chi si districa trai conti di fine mese, cercando allo stesso tempo una serenità sempre più complicata da raggiungere, il giovane che tenta la scorciatoia del poker on line (paradigma delle ormai innumerevoli occasioni di ‘vincere facile’ offerte dalla società) e il pensionato che va a vivere all’estero, in uno di quegli Stati dove anche una pensione italiana modesta permette una vita dignitosa e chi, sentendosi dare dell’incapiente, si sente colpito proprio nella propria dignità di individuo; ci sono il ‘tagliateste’ che cerca di convincere la vittima di turno che il suo licenziamento è in realtà una porta aperta su un mondo di opportunità e la ‘testa tagliata’ che sa bene come andrà a finire…
Il voto sembrerebbe costituire l’unica via di uscita ‘istituzionale’ da queste poco edificanti prospettive, ma al momento di mettere la ‘X’ sulla scheda montano i dubbi (anche sull’effettiva utilità dell’esercizio elettorale) e allora forse l’unica salvezza è rifugiarsi nelle proprie fantasie, immaginandosi magari come un epigono del Charles Bronson de “Il giustiziere della notte”, pronto a raddrizzare i torti, alla ricerca di una vita (citando voi-sapete-chi) ‘più maleducata e più spericolata’.
I cinque Lebowski danno vita a un disco ruvido, sferragliante, memori dei propri punti di riferimento, tutti più o meno ascrivibili all’età del post-punk o dell’art rock di inizio anni ’80, cercando magari un’impronta più autonoma, in un lavoro in cui la frustata elettrica, i muri sonori scrostati su cui ci si può scorticare sono sempre dietro l’angolo, anche nei momenti apparentemente più dilatati, quando non dominano apertamente interi episodi.
Un lavoro che alla fine lascia l’idea di un discorso aperto, di qualcosa di ‘non concluso’, come se la band fosse in corso d’opera per consolidare il proprio stile sonoro, cercando nel contempo un salto di qualità nella scrittura: non tutto forse funziona alla perfezione, si avverte qualche incertezza e qualche passaggio a vuoto e si rimane un po’ in sospeso, in attesa di ulteriori sviluppi.