Archive for febbraio 2012

SENSE OF AKASHA, “SPLENDID ISOLATION” (IVO RECORDS)

Secondo disco per questo gruppo altoatesino che dà vita a otto lunghe (non si scende mai sotto i cinque minuti, arrivando in un’occasione a superare i dodici) composizioni, per la gran parte affidate suoni, pur conservando qualche spazio per testi cantati in inglese.

La durata dei pezzi e il titolo del disco suggeriscono già molto della proposta dei Sense Of Akasha: il quartetto di Brunico è autore di una miscela che fa riferimento in egual misura a certe derive ‘spaziali’ post-hardcore (leggi alla voce: Explosions In The Sky) e alle dilatazioni scandinave dei Sigur Ros. Brani che partono piano per esplodere sul finale in avvolgenti muri chitarristici e parentesi più pacate, venate di malinconia.

Elettronica e synth costruiscono gli suggestivi sfondi su cui si muovono, talvolta con irruenza, chitarre e sezione ritmica; la voce, come detto, è un semplice arricchimento, talvolta facendo da presentazione, da introduzione a composizioni che traggono dall’elemento sonoro gran parte della loro linfa.

Il risultato, pur se non originalissimo, è comunque efficace: i Sense Of Akasha sono abili nel dare vita a costruzioni sonore che non mancano di coinvolgere, a ‘crescendo’ a tratti quasi entusiasmanti, mostrando di aver bene imparato la lezione dei propri punti di riferimento, sapendola riproporre anche con una certa autonomia stilistica.

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LUTHER BLISSETT, “BLOODY SOUND” (BLOODY SOUND FUCKTORY)

Collettivo proveniente da Bologna, i Luther Blissett si addentrano in un filone già ampiamente esplorato: quello di certo free – jazz impastato di hardcore, in una formula che può ricordare i Naked City di John Zorn, o guardando a in casa nostra i romani Zu.

Come spesso avviene per i dischi del genere, pochi (o nessun) compromesso e niente fronzoli: una mezz’oretta la durata, tra schegge brevi e un paio di composizioni che, attorno ai sei minuti, appaiono pachidermiche se confrontate col resto.

Uso scarso della voce (e quando accade si tratta più o meno di versi ‘declamati’ in maniera esagitata), per far spazio ad altro tipo di fiato, quello di un sax nevrotico che percorre tutta la durata del disco, accompagnato una sezione ritmica tracotante, dominata da una batteria modello caterpillar, bassi (e contrabbassi) a rafforzare l’incessante ritmica. Un ‘disco di genere’ con tutti i crismi, quindi, il cui limite è forse quello di aggiungere poco o nulla a quanto detto da altri in precedenza, e che quindi finirà per riuscire particolarmente gradito solo ai patiti di questo tipo di pietanze (e forse per certi aspetti, nemmeno a questi). A voler vedere il bicchiere mezzo pieno, si tratta comunque di un’ottima base di partenza (l’ensemble indubbiamente ci sa fare, almeno in quanto ad attitudine e ‘massacro incontrollato’ di strumenti e timpani dell’ascoltatore), per puntare magari a un pizzico di originalità in più in occasione di un eventuale seguito.

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VANDEMARS, “BLAZE” (AUTOPRODOTTO)

Esordio (si suppone, non avendo trovato notizie di altri lavori) per questa band senese, attiva tuttavia già da qualche anno, avendo avuto modo di suonare al fianco di artisti di primo piano (tra gli altri Goran Bregovic, CarmeN Consoli e Paolo Benvegnù, che assieme a Stefano Bechini produce anche questo disco, anche partecipando all’esecuzione di uno dei brani). La sensazione è in effetti di trovarsi davanti a una formazione già adeguatamente rodata, con le idee sufficientemente chiare sulla strada da far prendere ai propri suoni.

Nel caso in esame, ascendenze nineties sono arricchite da frequenti inflessioni psichedeliche (sfiorando in più di un’occasione, pur non addentrandovisi mai, territori ‘spaziali’, l’artwork del resto è più che mai ‘galattico’) da un lato, in altre occasioni (specie nei brani più compatti), puntando piuttosto su sfuriate ai limiti dello sferragliamento.

Dominato dalla vocalità della singer Silvia Serrotti (che giostra abilmente tra un cantato aggressivo, un certo disincanto lievemente ‘annoiato’ in stile PJ Harvey e parentesi all’insegna di una più intensa emotività), “Blaze” colpisce nel suo essere diretto, immediato, senza troppi fronzoli anche negli episodi di più lunga durata (che tra l’altro si fanno preferire), costruito sulla corposità a tratti arrembante delle chitarre e su una sezione ritmica più che mai solida.

Certo qua e là vi è qualche passaggio a vuoto (le tipiche ‘indecisioni dell’esordio’ anche nel caso di una band tutto sommato già ‘allenata’), ma nel complesso il disco si fa gradire, lasciando l’impressione che il gruppo abbia ancora margini di crescita e potenzialità ancora da sfruttare.

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DI OSCAR VINTI E MANCATI

1 – 1 e palla al centro: due nomination, una vittoria. L’Italia raccoglie agli Oscar 2012 un magro bottino, come ormai succede da anni, incapace di presentare un film veramente ‘da Oscar’ … A ben vedere, il risultato di ieri ci dice qualcosa di molto sintomatico, dell’Italia di oggi. Vince l’artigianato, perde l’innovazione, vincono (con tutto il rispetto) i ‘vecchi’, perdono i ‘giovani’.  Può sembrare un quadro un pò impietoso, e pretestuoso della situazione… Però. Però, intendiamoci, massimo rispetto, onore, e gloria a Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo che arrivano al terzo Oscar in un decennio (dopo The Aviator e Sweeney Todd), ma a me sarebbe piaciuto molto di più vedere premiato il giovane Enrico Casarosa. Il cinema a ben vedere, soprattutto quando si parla di tecnologie, dice molto sul progresso di una Nazione. Gli Oscar di quest’anno ci relegano, come al solito, al ruolo di ‘Paese del buon artigianato’ e non ci propongono come ‘Paese delle nuove tecnologie’. Intendiamoci, il giovane Casarosa ha ottenuto i suoi risultati lavorando negli U.S.A., ma è nato e cresciuto qui: la passione per l’animazione l’ha vista nascere e l’ha coltivata qui da noi. Una sua vittoria ci avrebbe se non altro detto che l’Italia comincia a poter dire la sua quanto meno in fatto di ‘mentalità’ propensa all’innovazione. Invece, purtroppo, ancora una volta viene premiato il ‘solito artigianato’, per cartirà, di grande qualità, ma pur sempre qualcosa legato alle professioni tradizionali. L’Italia anche nel cinema sembra ottenere risultati solo se guarda alla tradizione, alle proprie spalle… e il futuro? Sorvoliamo, poi, sul dato anagrafico: chi lo vince l’Oscar? Dante Ferretti, che è alle soglie dei 70 (e la Lo Schiavo non è certo una ‘giovane promessa’), mentre l’under 40 Casarosa resta a bocca asciutta… e così, sconsolatamente, anche nel cinema l’Italia dà l’idea di essere ‘un Paese per vecchi’…

ATALANTA – ROMA 4-1

Campionato, venticinquesima giornata.

I voti:

STEKELENBURG: 6 Il povero portiere olandese suscita sempre più compassione, lasciato sistematicamente solo come un cane là dietro, vittima incolpevole degli assalti delle squadre avversarie; prende 4 reti, ma non gliene si può fare una colpa.

ROSI: 4 In coppia con Juan, è il principale responsabile del naufragio giallorosso dopo soli venti minuti di partita: disastroso in fase difensiva, evanescente davanti (da un suo errore parte peraltro il contropiede della seconda rete atalantina).
Viene sostituito a inizio secondo tempo da
JOSE ANGEL: 5 non commette grossi errori, ma è  comunque autore  di una prestazione incolore.

JUAN: 4 Vedi sopra; spesso e volentieri fuori tempo, appare a volte spaesato, come se fosse ancora alle prime uscite: evidentemente, non riesce a ‘digerire’ il gioco di Luis Enrique… oppure i due non si capiscono. Al suo posto entra
CASSETTI: 4,5, in tempo per farsi espellere.

HEINZE: 5 Come al solito, più quantità che qualità; non è esente da colpe in occasione del gol del 2-0, non riesce a salvarsi dall’ennesimo crollo del repato arretrato

TADDEI: 5 Là dietro fa quello che può, cerca il fare del suo in fase di spinta, ma se una squadra prende 4 gol, in difesa non può salvarsi nessuno.

MARQUINHO: 6  Fino al gol del 3-1 che chiude la partita è uno dei pochi che si salvano; prova qualche tiro da lontano, con poca fortuna, poca precisione e qualche velleità di troppo, viene disinnescato facilmente dall’affollatissimo centrocampo avversario.

GAGO: 5,5 Come al solito è uno dei migliori (o, in questo caso, dei meno peggio), ma si fa ammonire e salterà il derby. Viene sostituito da
GRECO: S.V. Troppo tardi per incidere sulla partita.

PJANIC: 5 Dopo tante prestazioni positive, stavolta è impalpabile; a tirare la carretta non possono però essere sempre i soliti.

LAMELA: 5 Naufraga assieme al resto dell’attacco nella ‘tonnara’ messa su dai giocatori dell’Atalanta.

BORINI: 7 L’unico a salvarsi, perché l’unico a metterci sempre  grinta e buona volontà, con qualche apprezzabile risultato,  fino a segnare l’illusorio (e abbastanza fortunoso) gol dell’1-2.

OSVALDO: 4,5 Da quando è rientrato dell’infortunio non è ancora riuscito a tornare a pieno regime; macchia una prestazione mediocre – resa ancora più difficile dal dovere muoversi in un’area di rigore affollata come la metro all’ora di punta –  con un’espulsione inutile.

LUIS ENRIQUE: 4,5 Lascia fuori De Rossi per ‘motivi disciplinari’, sui quali non è lecito obbiettare, è questione che riguarda lui e il giocatore. Il dato di fondo è però un altro: dopo il buon ‘filotto’ di risultati a cavallo tra la fine del girone di andata e l’inizio del ritorno, la Roma si è fermata. In difesa, in particolare, da settimane si assiste sempre agli stessi problemi. Si ha l’impressione che agli avversari basti affollare centrocampo e area di rigore per neutralizzare il reparto avanzato, per infilare poi in contropiede una Roma sistematicamente sbilanciata. La partita di Bergamo è stata la fotocopia di quelle con la Fiorentina e la Juve in Coppa Italia e con il Siena più recentemente in Campionato. Passa il tempo e non si assiste a miglioramenti sensibili; certo forse l’allenatore non prevedeva di doversi affidare a Rosi e Juan, ed è stato ‘tradito’ dallo scarsissimo rendimento di Kjaer, ma allora urge trovare delle soluzioni, altrimenti da qui alla fine del Campionato, di palloni in fondo alla rete Stekelenburg ne dovrà raccogliere ancora a dozzine.  Grave soprattutto il fatto che nell’intervallo non sia riuscito a ‘scuotere’ la squadra, che appena tornata in campo ha preso la terza rete in maniera praticamente identica alle prime due.

LO STRANO CASO DEL SEQUESTRO DEI MARO’

La vicenda dei ‘marò’ sequestrati dal Governo indiano sta assumendo tratti abbastanza ‘sinistri’, specie considerando che l’India viene sempre tirata in ballo come esempio ‘virtuoso’ di ‘gigante democratico’ se confrontato alla totalitaria Cina… Poi vai a vedere con la lente d’ingrandimento e ti accorgi che in India la corruzione dilaga (più o meno come dilaga in Cina). Ora, non si è ancora capito bene cosa sia successo da quelle parti: il nodo del contendere è se effettivamente i nostri abbiano sparato ‘a cavolo’ ammazzando due pescatori, o se si tratti invece di due vicende distinte: se i nostri cioè abbiano sparato in aria a dei pirati e non c’entrino nulla con i due pescatori indiani assassinati nella stessa zona.  Quello che appare abbastanza assodato è che l’incidente sia accaduto in acque internazionali e che gli indiani in assoluto spregio di qualsiasi principio di Diritto Internazionale abbiano prelevato i nostri portandoli sul proprio territorio nazionale, prigionieri (non in galera, ma pur sempre privati della libertà): se non siamo al sequestro di persona, poco ci manca… Non solo: di fronte alle nostre rimostranze, gli indiani fanno la voce grossa, affermando che i nostri militari saranno giudicati secondo le loro leggi: molto democratico, complimenti… Che poi sembra che alle spalle ci siano delle squallide vicende di politica interna: insomma, si vogliono dipingere gli italiani come ‘brutti e cattivi’ perché in India l’italiana Sonia Gandhi è la leader di uno dei partiti principali e quindi si vuole strumentalizzare l’anti-italianismo in chiave politica, il che rende tutto più misero, e di nuovo complimenti alla ‘grande democrazia’… A ‘sto punto meglio la Corea del Nord, che è meno ipocrita. Che poi a dirla tutta, quando ho sentito ‘sta notizia la prima cosa a cui ho pensato è che i nostri avevano dovuto per forza fare i ‘Rambo’, solo che sembra che non sia esattamente così… resta il fatto che, e lo dico sotto voce, se si parlasse di soldati / militari / marinai sarebbe forse meglio: il termine ‘marò’ dà l’idea di un qualcosa di ‘distante’, di gergo militare (a me il gergo militare fa venire l’orticaria, è come se usassero un linguaggio tutto loro, come se i militari dovessero per forza un linguaggio ‘in codice’ per distinguersi dagli altri)… Per favore, usate parole comprensibili a tutti… Piccola aggiunta: in tema di militari, la settimana ha fatto segnare tre nuove vittime italiane in Afghanistan: stavolta, niente attentati, i tre sono praticamente affogati nel loro blindato Lince che si è ribaltato… Ora, io non sono un ingegnere, ma secondo me un mezzo nel quale sia possibile morire in questo modo non è poi tanto efficiente… Ma qualcuno dello scorso Governo non si riempiva la bocca un giorno si e l’altro pure coi ‘BLINDADI LINGE’??? E poi si scopre che ci si può morire affogati dentro come in un’utilitaria qualsiasi? MAH….

I TAVIANI VINCONO, MA TUTTI SE NE FREGANO

Mentre ieri i rflettori dei media italiani erano per la quasi totalità puntati su Sanremo, sulla serata finale del Festival e sull’attesa per la nuova esibizione di Celentano, dal ‘mondo civile’ arrivavano buone notizie per il cinema italiano: a 21 anni di distanza (l’ultima volta era successo nel ’91, con “La casa del sorriso” di Ferreri), un nostro film ha vinto l’Orso d’Oro al Festival di Berlino. A concquistare il premio sono stati i fratelli Taviani, col loro ‘Cesare deve morire’: a cavallo tra fim e documentario, l’opera racconta l’organizzazione della rappresentazione del “Giulio Cesare” di Skakespeare da parte dei detenuti del carcere romano di Rebibbia: una sorta di docu-fiction, che riprende, attualizzandola, la lezione ‘neorealista’ che tanto lustro ha dato al nostro cinema. A coprire l’evento, con ampi servizi e interviste, è stata la sola RaiNews, altrove, lo zero assoluto… e si che un successo internazionale di questa portata avrebbe dovuto avere ben diverso risalto: il cinema italiano non se la cava benissimo, dopo i successi de “Il Divo” e “Gomorra”, qualche anno fa, di soddisfazioni ne sono sempre arrivate poche e i nostri candidati sono rimasti puntualmente fuori dalle competizioni per gli Oscar. Il film dei Taviani, circondato da un sostanziale silenzio anche prima di andare a Berlino, ha interrotto la ‘carestia’… eppure, non se ne parla: il Televideo di oggi ‘spara’ come titolo principale della giornata la vittoria di Emma a Sanremo, segno del disarmanebte provincialismo che ancora domina in Italia…

P.S. La vittoria dei Taviani mi fa doppiamente piacere, riportandomi con la memoria indietro nel tempo: la sorella dei due fu infatti la mia professoressa di italiano, storia e geografia alle medie…

LEGITTIMO BRIGANTAGGIO, “LIBERAMENTE TRATTO” (CINICO DISINCANTO)

Uno sguardo a volo d’uccello sulla mondo che ci circonda, prendendo spunto da una serie di suggestioni letterarie (da qui il titolo), cinematografiche, pittoriche. Il terzo disco dei laziali (di Latina), Legittimo Brigantaggio giunge a un paio di anni di distanza dal precedente, che si caratterizzò per le varie collaborazioni, e per uno spiccato orientamento alle tradizioni popolari; il nuovo disco, pur conservando certi caratteri, che fanno parte del corredo genetico della formazione, sembra orientarsi verso territori più genericamente ‘rock’, anche attraverso un uso più marcato dell’elettronica.

Tra un’apertura dedicata al mondo del lavoro, evocato dal Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, e la conclusione affidata alla vicenda di amore e morte narrata da Flaiano in “Tempo di Uccidere”, i Legittimo Brigantaggio trovano modo di affrontare varie tematiche, nervi scoperti della società d’oggi: dal rapporto con la morte (sull’onda de “Le intermittenze della morte” di Saramago) a quello con l’infanzia (prendendo spunto dai “Quattrocento Colpi” di Truffaut); dalla guerra (fonte di ispirazione “Niente di nuovo sul fronte Occidentale”) alla propria città, Latina (attraverso le suggestioni di “Canale Mussolini” di Pennacchi).

Sotto il profilo sonoro, come detto, è un disco che riesce a fondere (talvolta in modo efficace, in qualche occasione in modo un pò più anonimo), la matrice folk del gruppo con suggestioni più rockeggianti, tra brani in assetto ‘da combattimento’, parentesi in levare, episodi più improntati al cantautorato: il mix finisce per essere efficace, con qualche brano che si lascia ricordare sugli altri (I cieli non sono umani, Eucalyptus, L’attimo ideale) e qualche passaggio a vuoto.

“Liberamente Tratto” ci regala un gruppo in forma, che forse sta cercando qualche nuova strada da percorrere , onde non restare troppo ‘incasellato’ nei propri schemi stilistici (sia sotto il profilo sonoro che di scrittura) con tutte le opportunità, ma anche i rischi, che questo comporta: un disco che si potrebbe (un pò banalmente, d’accordo) definire ‘di passaggio’, sperando che il percorso intrapreso sia quello giusto.

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MARCO NOTARI, “IO?” (LIBELLULA MUSIC)

Dopo i due precedenti lavori, targati 2006  e 2009 (e inframezzati da un EP), torna Marco Notari, con un lavoro che segna la raggiunta maturità stilistica del cantautore toninese. I dieci brani di “Io?” si muovono su coordinate sonore che mescolano vari riferimenti, senza abbracciarne in pieno nessuno, ma non per questo perdendo di consistenza: di volta in volta si respirano atmosfere rock, folk e pop (nell’accezione positiva del termine), conditi con retrogusti elettronici (in qualche caso il paragone alla lontana coi concittadini Subsonica viene quasi spontaneo, ma probabilmente è frutto in gran parte della suggestione data dalla medesima provenienza geografica), inseriti in un contesto che rimanda direttamente al solco della tradizione cantautorale italiana.

Il titolo tradisce la natura per lo più introspettiva del lavoro, che si muove tra soliloqui ai fini del flusso di coscienza e omaggi a figure importanti nella vita dell’autore (a cominciare da ‘Dina’, dedicata alla nonna e a un particolare episodio da lei spesso rievocato), ma in più di un’occasione ci si apre anche all’esterno, come nella veemente critica alla vivisezione e agli allevamenti intensivi di ‘La terra senza l’uomo’, cantata dal punto di vista delle tante vittime di queste pratiche, quella a una società italiana ipnotizzata dalle ‘divinità” catodiche e ‘pallonare’ (‘Hamsik’) o alla guerra vista come strumento di affermazione dei sistemi economici (‘L’invasione degli ultracorpi’). Marco Notari parla di sè e del mondo senza usare troppi giri di parole, all’insegna di una concisione che talvolta rasenta l’ellissi, ma senza perdere tuttavia di immediatezza.

Un percorso nel quale ad aiutarlo giungono alcuni collaboratori, in primis Tommaso Cerasuolo dei Perturbazione, autore della copertina e compartecipe di uno dei brani e Dario Brunori.

“Io?” ripropone dunque Notari come uno degli autori più interessanti della sua generazione, riaffermando l’impressione che grazie a lui e ai suoi ‘giovani’ colleghi che negli ultimi due – tre anni si sono posti all’attenzione di un pubblico altrettanto giovane,  la tradizione cantautorale italiana abbia finalmente cominciato a vivere una nuova fase.

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SANREMO, CELENTANO, BELEN…

Non seguo Sanremo, come gara canora, da anni: anche perché a dirla tutta, Sanremo, che si fregia del perentorio titolo di ‘Festival della Canzone Italiana’, a tale vocazione ha rinunciato ben presto, diventato vetrina rappresentativa di ‘non-si-sa-bene-cosa’, ma questo è un altro discorso… Faccio parte delle schiere di coloro che, preferendo in linea di massima guardare altro (e grazie al proliferare di canali sul digitale terrestre, da qualche anno le opportunità non mancano), su Sanremo ci fa magari un salto, giusto per assistere alla trashissima esibizione di D’Alessio e della Bertè, o incuriosito dall’ennesima ‘uscita’ di Celentano.
OK. Passo indietro, e riassunto delle puntate precedenti: avendo da tempo rinunciato a presentarsi come pura e semplice kermesse canora, da tempo immemorabile Sanremo ha dovuto affidare una buona fetta delle sue sorti al ‘rumore’ sollevato nelle settimane che lo precedono… rumore che (pleonastico sottolinearlo) è del tutto calcolato: quest’anno si è cominciato con le bizze della figlia di Ecclestone, si è proseguito con la pantomima riguardo il compenso di Celentano, si è concluso col ‘thriller’ dell’indisposizione all’ultimo momento dell’ultima bella statuina rimasta.
Poi arriva Celentano, e succede quello che succede: ora, quello che veramente insopportabile è la polemica a posteriori: insomma tutto, specie le prese di posizione dei politici, è ammantato di ipocrisia. Celentano non si è impadronito improvvisamente del microfono per lanciare le sue invettive; Celentano è stato chiamato e pagato, e che facesse qualche uscita delle sue era del tutto previsto.
Che poi, cos’ha detto? Ha detto che quei giornali cattolici che invece di dedicarsi allo spirito fanno politica dovrebbero chiudere: la classica chiacchiera da bar, solo persone in perfetta malafede possono levare gli scudi… che poi il problema esiste: non quello della chiusura dei giornali (quella si può più o meno derubricare come ‘iperbole’ o come ‘*****zata’ a seconda dei punti di vista), ma il fatto che in giornali che inneggiano all’Avvenire (cristianamente inteso) o alla Famiglia Cristiana, si dedichino esclusivamente alle ‘cose terrene’, qualcosa di sbagliato c’è. Altro giro, altra corsa: Celentano ha detto che la Corte Costituzionale ha buttato nel cestino milioni di firme a favore del referendum sulla Legge Elettorale… il che, pur se detto con parole forti, risponde a verità… Poi è verissimo che il ‘potere del popolo’ ha delle limitazioni nella stessa Costituzione, ma questo non vuol dire che Celentano non possa esprimere le proprie opinioni, che è il motivo per il quale stava lì e per il quale è stato profumatamente pagato, tra l’altro. In tutto questo non vedo proprio nulla di cui scandalizzarsi, chissà che ha detto… voglio dire, mi ha colpito di più il silenzio di tomba che, con poche eccezioni, ha circondato le recenti dichiarazioni dell’onorevole Giovanardi, il quale ha accomunato un bacio in pubblico tra due donne a uno che piscia per strada, con l’aggravante che Giovanardi siede in Parlamento, Celentano no.
Per il resto, la comparsata di Celentano è stata un insieme della sua consueta arte canora (trovatemi un’ultrasettantenne con quella voce) e di teatrino evitabile con la partecipazione straordinaria di Pupo.
Postilla: ieri tutti a parlare di Celentano; oggi la ‘Rete’ si dedica alle mutande assenti di Belen: anche in questo caso, corso scandalizzato… come se nessuno sapesse che Belen è stata invitata a Sanremo più o meno per quel motivo lì: il vestitito con la scollatura impertinente, quello che non si regge e va tirato su, a rischio scopertura capezzolo, e la mutanda latitante… Non venitemi a dire che Belen è stata invitata in quanto showgirl e ballerina di tango, perché non ci crede nessuno, e sai quanto di meglio si trova in circolazione: dopo tutto, parliamo pur sempre di una che si è fatta conoscere al ‘grande pubblico’, mostrando le chiappe sull’Isola dei Famosi.
Attendiamo a gloria gli argomenti delle polemiche pretestuose dei prossimi giorni.