Archive for the ‘brainstorming’ Category

CI VUOLE UN’ALTRA VITA…

…cantava Battiato. Bene, non sto: la solita sensazione di volere dei cambiamenti senza avere la forza di portarli avanti fino in fondo, perché questi includerebbero delle rinunce e stare attaccati allo scoglio è sempre la strada più facile, anche se poi magari lo scoglio si sta sgretolando.

A giugno ho girato la boa dei 40, portandomi appresso il solido fardello di insoddisfazioni… se si pensa troppo, del resto, ansia e paranoia trovano le porte spalancate. Mi guardo intorno, mi guardo indietro e cosa trovo? Un presente e un avvenire in cui io c’entro poco: una serie di decisioni sbagliate prese in ambito di studio e professionale, dei fallimenti sentimentali non parliamone proprio.

Mi guardo intorno, e concludo che se trai venti e i quaranta ci si costruisce un avvenire, io non ho costruito proprio un bel niente, a parte pile di fumetti, cd e libri di fronte ai quali spesso mi chiedo cosa contengano; bel modo di usare il tempo.
In questi anni mi sono saputo costruire solo una routine che molti altri riterrebbero allucinante: in pratica da venti-quarantenne ho vissuto una vita da pensionato. Internet non ha aiutato: al netto dei recenti problemi tecnici che mi hanno portato a rinunciare all’ADSL, a monte c’è probabilmente la necessità di darci un taglio: tre ore e passa al giorno passate a bighellonare più o meno senza meta per la rete mi sembrano un enorme spreco di tempo.

Vince la voglia di uscire di casa, fosse anche solo per girare senza meta nelle strade semideserte del quartiere; fosse anche solo per camminare senza meta, è sempre comunque meglio che stare dentro casa, davanti allo schermo di un computer o circondato dalle pile di materiale di cui sopra, che ormai hanno assunto un peso opprimente, quasi anche fisico (letteralmente, lo spazio comincia a mancate); mi accorgo che sto veramente bene solo quando sto fuori di casa, se solo o in compagnia, con una meta (mostre o cinema) o senza, se accennando un po’ di corsa (la fantasia con ‘sto clima, manca) o solo per starmene immobile come una lucertola al sole di Villa Pamphilj.

Mi rendo conto dei troppi legami autoinflitti, della routine disarmante, di troppe abitudini, di troppi eventi fissi: il giro del sabato fino al negozio di fumetti, la partita domenicale a casa di amici… certo non dico di ambire alla vita dell’homeless, ma vorrei, forse, un’esistenza che mi desse ogni giorno l’imprevedibilità dell’incontro casuale, anche sentimentale e – perché no – sessuale; di certo tutto questo non è possibile a priori restando dentro casa a leggere, guardare, ascoltare.

Per cui, in questi giorni, esco; non appena possibile; soprattutto non appena emerge un accenno di noia, anticamera della paranoia… tutto pur di non stare dentro casa e, guardandomi intorno, assistere a quello che finora è stato sostanzialmente un fallimento esistenziale. Esco senza meta, e magari non incontro nessuno; esco per stare in mezzo alla gente, con la speranza che magari un giorno o l’altro un scambio sfuggente di sguardi con una donna faccia schiudere un portone sentimentale che da tanto tempo ho sprangato chiudendo la chiave in un cassetto… fantasie da liceale? Probabilmente: in fondo, non sono mai cresciuto… mi sembra di essermi fermato da qualche parte qualche decennio fa: di certo non mi sento un quarantenne; io non ce li ho quarant’anni, non li voglio avere. Nella mia condizione, avere quarant’anni, fa schifo. Recentemente mi è capitato di fare quegli stupidi test sull’età mentale su Facebook, non varranno niente, ma il fatto che una volta il risultato è stato ’21’ e la successiva ’16’ non mi ha manco meravigliato: sono decisamente fuori dal tempo; sicuramente, fuori dalla mia età anagrafica.

Il mio programma è stare fuori di casa il più possibile, soprattutto stare all’aperto, o in posti possibilmente affollati: ho bisogno di stare in mezzo alla gente, di vedere gente, di uscire; non importa se avere o meno un posto dove andare, o avere qualcosa da fare; ho bisogno di uscire.

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SCARSA VENA, POCA ISPIRAZIONE

La mia scarsa frequentazione del blog prosegue… è un periodo in cui, a dirla tutta, non ho molta voglia di scrivere: forse di argomenti ne avrei pure, ma manca proprio la voglia di scrivere.

In parte, certo, dipende dalle mie attuali limitazioni nell’uso di Internet: mollata l’ADSL, mi appoggio alla connessione mobile dei miei, che però ha dei limiti di tempo, per cui una volta esaurite le necessità lavorative, di tempo da dedicare ad altro non ne resta molto… in realtà per certi versi mi sembra di essere tornato a quando non avevo l’ADSL e mi connettevo ad Internet con la ‘pressione’ dei tempi e della spesa telefonica…

Tuttavia, non posso fare a meno di notare che poi alla fine anche così Internet non mi manca: non voglio fare lo snob, sottolineo: lungi da me dire che Internet non serva, ma almeno nel mio caso, notare come alla fine un buon 80 per cento del tempo trascorso nella Rete si riducesse ad attività derubricabili nella categoria ‘fuffa’, è la constatazione di un dato di fatto.

Sebbene con dimensioni molto più ampie, alla fine Internet segue lo stesso schema di tante rivoluzioni tecnologiche degli ultimi trenta – quarant’anni, ovvero: l’uso aumenta con la disponibilità. Pensate ad altri apparecchi:  è con l’avvento del telecomando, per esempio, che si è cominciata a sentire la necessità dello ‘zapping’, del cambiare canale ogni due per tre; l’arrivo del videoregistratore creò la ‘necessità’ di registrare la qualsiasi e accumulare videocassette; il cellulare ha creato il bisogno di comunicare sempre e comunque… con Internet è stata la stessa cosa: non ci troviamo, insomma, di fronte ad uno strumento che risponde ad una necessità precedente; ci troviamo invece di fronte ad un qualcosa che, per così dire, autogenera il bisogno di essere utilizzato.

Avere Internet a disposizione ventiquattr’ore su ventiquattro, insomma, accresce il bisogno di utilizzarla, ed è chiaro che la maggior parte del suo uso non risponde a reali necessità, ma a fuffa: è più o meno lo stesso principio su cui funzionano i ‘social network’, e se vogliamo anche gli stessi blog: avere a disposizione un qualcosa su cui raccontarsi o raccontare, accresce automaticamente il bisogno di raccontarsi, di dire la propria su tutto, o di aggiornare sempre l’universo mondo su ciò che si sta facendo in un dato momento.

Per certi versi sto parlando della scoperta dell’acqua calda, mi rendo conto, ma sono considerazioni rispetto alle quali un ‘comune’ utente Internet si trova di fronte solo in dati momenti. La soddisfazione, nel mio caso, nasce dall’aver assodato, in questa situazione, la mia capacità di adattamento: rinunciare all’ADSL non ha portato, ad esempio, alla parossistica ricerca di un sostituto immediato, per continuare a stare su Internet come prima; più semplicemente, almeno per il momento, mi sono adeguato a ciò che avevo a disposizione sul momento: non mi è passato nemmeno per l’anticamera del cervello di andare subito alla ricerca di uno smartphone, di un portatile o di una semplice chiavetta Internet per poter continuare a navigare autonomamente; lungi da me rivolgermi ad un altro operatore per ricominciare da capo la trafila.

La mia necessità di utilizzo di Internet si è scontrata con la mia ritrosia ai ‘problemi’: per me la tecnologia deve essere uno strumento che mi dià un’utilità, non che mi crei pensieri e problemi… di mio sono già una persona abbastanza ansiosa, sinceramente la prospettiva di trovarmi di fronte a dei problemi da risolvere pur di navigare su Internet mi repelle, non mi appartiene proprio, la scanso come la peste e mi adeguo a ciò che ho a disposizione… il che non vuol dire che tutto ciò proseguirà in eterno, prima o poi tornerà a farsi sentire la necessità di avere una connessione ‘autonoma’, ma per il momento la repulsione dell’idea di dover affrontare trafile e probabili problemi tecnici (è risaputo che ogni volta che si compra un nuovo apparecchio, prima di poterlo utilizzare c’è sempre un qualche problema da risolvere) è più forte del bisogno di potermi connettere come e quando mi pare, specie considerando tra l’altro che alla fine la stragrande maggioranza del tempo passato su Internet si risolverebbe in attività decisamente futili.

E quindi, niente, si continua così, almeno finché non tornerà la voglia: in fondo ogni tanto, questi momenti fanno pure bene; si torna a rimettere tutto in un’ottica diversa, nel mio caso forse a riportare tutto a dimensioni più congrue.

PAUSA FORZATA

A chi mi segue abitualmente non credo sia sfuggita la  mia assenza, non abituale.

Il motivo è semplice: da due domeniche sono praticamente senza ADSL; non sto qui a dilungarmi, basti sapere che l’azienda che mi offre il servizio non riesce a darmi una motivazione, né è stato possibile parlare con un tecnico per avere un qualsiasi tipo di chiarimento in merito; risultato: dieci e giorni e passa senza nulla sapere, contattando di tanto in tanto il call center per avere chiarimenti, che loro non sono in  grado di fornire: evidentemente, ci sono delle inefficienze di comunicazioni, trai tecnici e il call center di primo contatto, oltre a non essere previsto – almeno in questo caso – un contatto diretto con l’utente.

Morale della favola: sono costretto a ricorrere al portatile dei miei, una soluzione – tampone che ovviamente mi costringe a ridurre l’attività internettara al minimo necessario per il lavoro e poco altro; di certo, niente tempo per il blog e cinque – dieci minuti al giorno per FB, tanto per ordinaria manutenzione.

Sinceramente, ne ho le scatole piene: non è una questione di ‘dipendenza’ (ringraziando il cielo, non è un dramma ridurre il tempo trascorso sulla Rete); mi dà fastidio il non avere notizie, il ‘restare appeso’, senza sapere che fare: potrebbero benissimo fare in modo che al momento dell’intervento, il tecnico contatti direttamente l’utente… La tentazione a questo punto è di disdire tutto, farla finita con l’ADSL e passare ad altro… cosa, ancora non saprei….

“THE APPRENTICE”, OVVERO: LA SUBLIMAZIONE DEL NULLA

Ultimamente mi è capitato di vedere un paio di puntate di “The Apprentice”, il ‘talent show’ per aspiranti uomini d’affari ideato e coordinato da Briatore, che decide le prove, elimina i candidati e alla fine sceglierà il vincitore il cui premio sarà lavorare con lui (minchia, che c**o!!!).  Ero a conoscenza dell’esistenza del programma, ma fino ad ora non me l’ero filato di pezza, soprattutto perché Briatore è un personaggio che mi sta antipatico a pelle, oltre a rappresentare un mondo, una ‘filosofia di vita’ e se vogliamo un’ideologia che non mi piacciono per nulla… parlo di ‘personaggio’, perché sono convinto che Briatore almeno in parte di persona sia diverso da come si presenta… credo che nel corso della sua ‘carriera’ abbia anche giocato sul costruirsi questo personaggio, al fine di suscitare volutamente reazioni contrapposte, dall’adulazione sfrenata all’odio viscerale…

Sono capitato su una puntata del programma per caso, guardandone più o meno volutamente una seconda, in parte per rendermi conto di cosa si trattasse, in parte per pura curiosità…  la trasmissione in effetti ha anche una sua ‘logica’, offre se vogliamo al pubblico meno ‘addetto ai lavori’ un’infarinatura di cosa voglia dire condurre una trattativa commerciale o ‘costruire’ un prodotto… tuttavia viene da pensare che se, ad esempio, dopo aver guardato “Masterchef”, più o meno chiunque può andare in cucina e provare  a replicare ciò che ha visto, è molto meno probabile che chi guarda “The Apprentice” abbia mai la possibilità di metterne in pratica gli ‘insegnamenti’.

Normalmente, quando intercetto programmi del genere, a incuriosirmi, come credo avvenga un po’ per tutti, sono i concorrenti: ora, in genere  di fronte ai partecipanti ai reality o ai talent si riesce sempre ad avere un qualche tipo di  reazione: se non trovi che ti sta simpatico, è quasi sicuro che ci sarà almeno qualcuno che ti starà veemente sulle scatole… ebbene, con “The Apprentice” non è successo: queste persone mi sembrano talmente lontane, che non mi suscitano alcun tipo di reazione… non le capisco. Non capisco come si possa partecipare ad una gara il cui scopo è ‘ringraziarsi’ Briatore… soprattutto non capisco da cosa queste persone siano mosse, quale sia il loro obbiettivo: fare soldi, avere successo, fama, finire sulle riviste di gossip o partecipare a party esclusivi? Non so, in tutto questo ci vedo un ‘vuoto di senso’ abissale. Uno dei concorrenti, parlando del suo ‘mestiere’, ha affermato di fare l’avvocato, occupandosi di transazioni di grandi pacchetti azionari… insomma, una carriera – probabilmente anche strapagata – basata sul nulla, su quell’economia ‘immateriale’ che ci ha portato dove siamo ora. Li vedo, questi concorrenti, tutti intenti a indossare costantemente delle maschere, stamparsi un sorriso da paresi sulla faccia per poter concludere un accordo o vendere un prodotto… mi ha fatto simpatia, alla fine, un concorrente che ha mandato palesemente affan***o una possibile cliente che, sapendo di avere in mano il pallino della trattativa,  insisteva a sottolinearne la scarsa puntualità….

E mi chiedo se davvero queste persone abbiano scelto di impostare la loro esistenza in questo modo, costringendosi ad indossare maschere e ad esporre sorrisi ed atteggiamenti compiacenti dalla mattina alla sera, solo per portare a casa il ‘deal’ (come lo chiama Briatore); mi chiedo se si rendano conto che non è una bella vita, o meglio: una vita del genere la puoi condurre per cinque – dieci anni, accumulando i soldi necessari a vivere in seguito di rendita, ma una vita così… insomma, i maschi sono destinati ad arrivare a 60 anni con un paio di matrimoni falliti alle spalle, accompagnati da giovincelle più giovani dei loro figli, probabilmente col fegato spappolato, l’apparato digerente sballato e forse pure con gravi problemi cardiaci…  Le  donne? Sessantenni ultraliftate per sembrare di trent’anni più giovani, accompagnate da prestanti gigolò che le cornificano puntualmente… e tutto questo, per cosa? Per i soldi, il successo, le riviste, i party esclusivi.

Guardo quel programma e mi rendo conto di quanto io sia alieno da quel contesto, sarà che io sono una persona fin troppo da ‘sono così, prendere o lasciare’, completamente rigida nel mio carattere e per niente disponibile alle mascherate a dover recitare una parte… normalmente ci troverei anche da ridere in quei personaggi che si prendono tutti tremendamente sul serio, che fanno battute solo per compiacere il probabile cliente, rigidi come stoccafissi, insaccati nei loro abiti firmati… ma alla fine non trovo nemmeno da riderci sopra, non mi ispirano nemmeno inquietudine od orrore, ma mi chiedo se davvero il ‘modello’ oggi sia questo,  mi domando se davvero si possa offrire alle persone l’obbiettivo di ‘diventare come Briatore’, anziché, boh, quello di diventare come l’astronauta Parmitano o come i tanti sconosciuti che fanno ricerca in scantinati male attrezzati, mentre c’è gente che fa soldi a palate con ‘le transazioni di grandi pacchetti azionari’: è evidente e banale affermare che in tutto questo ci sia qualcosa di storto e sbagliato, ma il punto non è nemmeno quello, che poi si rischia di scadere nella demagogia…

Il punto, forse – a rischio di debordare fin troppo nei massimi sistemi’ – è domandarsi se davvero che di fronte alla domanda ultima sul senso dell’esistenza, la risposta sia ‘diventare come  Briatore’.

LUDOPATIA, PORTAMI VIA…

…OVVERO: DEL COME, QUANTO E PERCHE’ GIOCO (E PERDO)

Mi rendo conto che tutto ciò può essere archiviato alla voce ‘pippe mentali’, tuttavia alla fine queste pagine servono anche come ‘sfogatoio’, ai lettori abituali dico e non : nessuno vi obbliga a leggere da cima a fondo le mie elucubrazioni, se non vi va, passate oltre.
L’UMORE ONDEGGIA, GLI ALTRI VINCONO E TU PERDI

La cosa peggiore del gioco è che ti cambia l’umore: o meglio, il tuo umore comincia a dipendere strettamente dai successi – rari – o dagli insuccessi (molto più frequenti): perdi? La tua vita fa schifo e sei un fallito. Vinci? Il mondo è luminoso e una speranza c’è; e questo credo a prescindere dall’ammontare della vincita o della perdita. A mia ‘discolpa’, come ho scritto precedentemente, c’è l’essermi posto dei paletti, lo stabilire dei ‘firewall’ che mi consentano di non ‘tracimare’… vado in sala scommesse e ne vedo tante. Questo forse è il lato più ‘simpatico’ della situazione, ti accorgi che in fondo non sei quello messo peggio, che a fronte del tuo euro di media buttato via ogni giorno, c’è gente che spende dieci volte tanto… a volte però è difficile stabilire una relazione; anzi, per quegli strani processi mentali che si attivano, ti sembra che gli altri vincano sempre e che tu sia l’unico a rimetterci… poi in realtà pensi: si però, se io vinco un euro ogni cinque che ne spendo, c’è gente che ne vince 20, si, ma ogni 100. Però alla fine è difficile, pensare così razionalmente, c’è sempre qualcosa che ti porta a pensare che gli altri vincono e tu perdi.
DELLA RICERCA DI UN ‘SISTEMA’…

Spesso si è portati a pensare (almeno io, lo sono), che è una questione di ‘resistenza’, che dai e dai poi vinci… Il problema è che bisogna quanto tempo passa (e quanti soldi scommetti) prima di vincere: prendiamo per esempio che una persona scommetta costantemente su un evento dato a ‘3’: giochi un euro la prima volta, ti va male, giochi la seconda, ti va male, giochi la terza e vinci: in questo caso, ha giocato 3 euro e 3 te ne sono entrati. Il problema nasce dal fatto che la ‘quota’ non rispecchia le probabilità ‘reali’: è difficile, insomma, che un evento dato a ‘3’ si verifichi il 33% delle volte. Questo vuol dire che alla quarta volta, si dovranno ‘investire’ 2 euro per ottenerne 6 e andare sopra di uno, e ala quinta bisognerà investirne 3 per incassarne 8 e andare in totale sopra sempre di uno… ma giunti alla quinta volta, per ottenere un ‘profitto’ di ‘1’ si sono già ‘investiti’ 8 euro e non è detto che la vittoria arrivi:  man mano che si va avanti bisognerà ‘investire’ sempre più soldi anche solo per restare ‘in pari’…

 

…E DELLA SUA MANCATA APPLICAZIONE

Il problema dell’insistenza o se volete della ‘resistenza’ è questo: prima o poi si vince, ma bisogna vedere quanto si sia disposti a perdere prima. Il mio problema fondamentalmente è che mi stufo presto, o meglio non riesco ad adottare una logica coerente: ieri per dirne una, ho perso quattro euro, ma se avessi adottato la logica dello ‘scommetti sempre sulla stessa tipologia di risultato’, probabilmente sarei venuto via con 3 euro in più… Perché questo succede? Perché a un certo punto, salta la ‘logica’, perché stando lì uno viene attratto da ‘altro’ e sviato dal suo ‘percorso’… poi arriva il momento in cui ti appare il tipo di scommessa su cui ti sei dato come principio di puntare, ma la quota ti sembra troppo alta, rinunci e alla fine quella scommessa ti sarebbe risultata vincente.
PERDERE E’ ‘UMANO’

Il problema di fondo è che le quote degli eventi sportivi – anche quelle delle simulazioni virtuali di gare di auto o di partite di calci o – come quelle dove scommetto io, sono fissate da sistemi computerizzati; l’uomo non è un computer, è sempre vittima delle emozioni (io in particolare sono un tipo abbastanza emotivo) e prima o poi ‘toppa’ perché permette alle emozioni di superare la ‘razionalità’.  Spesso, mi ritrovo a pensare che – paradossalmente – perdo perché a un certo punto subentra il ‘freno’, l’incapacità di rischiare oltre, la paura di perdere, il fatto che no, nonostante il principio dello ‘scommetti sempre sullo stesso oggetto’, stavolta è meglio evitare… e a quel punto puntualmente se avessi scommesso avrei vinto… o almeno questa è la mia impressione, potrebbe anche essere una percezione distorta.

 

QUANTO GIOCO E QUANTO PERDO

Scommetto, mediamente, tra 1 e 3 euro al giorno; attualmente le mie perdite del 2014 ammontano a oltre 80 euro, quindi siamo a un po’ più di un euro al giorno… guardando alle medie degli scorsi due anni, in cui ho scommesso molto di meno, facendo due conti mi pare che la mia perdita netta resti abbastanza costante, attorno al 30 – 40 per cento dei soldi scommessi… chiaramente il discorso però si fa più complicato perché se si parla di ‘valore’ assoluto, allora i numeri sono diversi… se non avessi mai scommesso da inizio anno, oggi avrei 80 euro in più, che non cambiano la vita, ma nel mio caso avrebbero significato, per esempio qualche film in più al cinema.
SCOMMETTO PERCHE’ NON HO NIENT’ALTRO DA FARE?

Se quindi dovessi accettare il principio dello ‘scommetto per rimpinguare le casse’, dovrei accettare il fatto che l’obbiettivo è fallito: l’obbiettivo sarebbe stato raggiunto se fossi stato un computer e avessi sempre scommesso adottando lo stesso principio (anche se manco è detto): ma visto che sono un essere umano, ‘deviare’ dal percorso è un rischio e un avvenimento frequente… allora, perché scommetto? Forse, perché non ho altro? Sono sempre riuscito a limitare il mio scommettere perché alla fine ‘i soldi mi servono anche per altro’: tuttavia questo ‘altro’, col tempo è andato riducendosi… una volta le mie voci di spesa ‘voluttuaria’ includevano fumetti, cd, libri, cinema, mostre, dvd, riviste musicali, la piscina, la tessera del digitale terrestre a pagamento… Poi, per un motivo o per l’altro tutto si è ridotto, progressivamente: problemi di costo, spazio, reperibilità e ‘utilità’ hanno portato progressivamente a eliminare dalla lista la tv a pagamento, i dvd, le riviste musicali; una certa ‘stanchezza’, e ‘noia’, oltre che alle tasse di Monti mi hanno fatto eliminare dall’elenco la piscina; obbiettivi problemi di spazio hanno condotto all’eliminazione della voce ‘cd’: peraltro quando ne hai migliaia, che col tempo si smagnetizzeranno senza che tu abbia avuto il tempo nemmeno di riascoltarli, ti chiedi dove sia l’utilità… lo stesso vale per i libri: mi ritrovo con centinaia di volumi, della stragrande maggioranza dei quali ho solo vaghi ricordi: alla fine ti chiedi: “ma a che serve?”; a resistere sono i fumetti (ma qui il discorso è analogo a quello dei libri: quanto passerà prima che tutto questo ‘accumulo’ mi venga a noia?) il cinema (anche se non è che ultimamente siano usciti ‘sti capolavori), le mostre (fortunatamente sotto quel profilo a Roma il 2014 è un anno formidabile) e qualche cena con gli amici… cose alle quali non riesco a rinunciare e che hanno la precedenza sulle scommesse, che tuttavia col tempo, proprio con questo progressivo ‘spegnimento’ di altre passioni, stanno acquisendo un peso maggiore. Questo mi consola, in fondo: a differenza dei ‘ludopatici veri’, non rinuncio ad ‘altro’ per scommettere; piuttosto, le scommesse sono ‘frenate’ dal dover spendere in altro… tuttavia, ribadisco, la noia fa la sua parte; probabilmente, dopo vent’anni e passa di accumulo compulsivo di fumetti, cd e libri (dovuto suppongo, alla necessità i riempire ‘vuoti’ di altro genere), uno si stufa e, più o meno  inconsciamente, cerca altro…
SCOMMETTO PERCHE’ NON HO NIENT’ALTRO IN CUI SPERARE?

Io forse questo ‘altro’ l’ho trovato nelle scommesse, anche se faccio fatica a capire perché, nonostante tutte le inca**ture che prendo, continuo ad insistere, a ‘cercare un modo per vincere’, nella speranza, probabilmente, che questo riesca a colmare in qualche modo le mie frustrazioni lavorative, l’impressione, pesante, di essere un peso morto, privo di qualità ‘spendibili’ nel mercato del lavoro, a rimorchio, come ho scritto in altri post, di quanto realizzato da altri… In fondo, mi chiedo, se anche trovassi il modo di ‘guadagnare’ con le scommesse, come userei quei soldi? E la risposta che puntualmente arriva è che probabilmente li userei per essere meno ‘dipendente’ dagli altri… mi rendo conto benissimo che questa è la ricerca di una ‘scorciatoia’ e che le scorciatoie portano spesso a ‘perdersi’, ma il problema è che sono sfiduciato, apatico, in una certa misura indolente e refrattario al volermi assumere delle ‘sfide’… e allora è più facile scendere le scale, fare cinquanta metri ed andare a tentare la ‘fortuna’, dandomi delle ‘regole’ il cui funzionamento non sono mai riuscito a testare fino in fondo, frenato dalla paura di perdere (o di vincere?) o dalla tendenza a deviare dal percorso prefissato.

Come cantava Conte, “è tutto un complesso di cose”…

DOMANDA: SONO UN LUDOPATICO?

Facciamo il punto della situazione, usando Wikipedia (che vale finché vale) e procedendo all’autoanalisi, (che vale quel che vale).

Il giocatore è diagnosticato affetto dal gioco d’azzardo patologico se presenta almeno cinque dei sintomi che seguono:

1) È assorbito dal gioco, per esempio è continuamente intento a rivivere esperienze trascorse di gioco, a pianificare la prossima impresa di gioco, a escogitare modi per procurarsi denaro per giocare: la prima abbastanza, la seconda abbastanza, la terza direi di no.

2) Ha bisogno di giocare somme di denaro sempre maggiori per raggiungere lo stato di eccitazione desiderato. Decisamente, no: semmai gioco per avere soldi da spendere in altro.

3) Tenta di ridurre, controllare o interrompere il gioco d’azzardo, ma senza successo; ‘ni’: diciamo che ci sono momenti in cui mi rompo le scatole e non gioco per diverso tempo, in genere capita nei mesi estivi.

4) È irrequieto e irritabile quando tenta di ridurre o interrompere il gioco d’azzardo: ‘ni’, nel senso nel senso che sono irrequieto e irritabile quando perdo; finora non mi è mai capitato di essere inca**ato per non aver giocato, anzi è capitato che non giocando mi sono detto: bene, oggi non ho buttato via i soldi.

5) Gioca d’azzardo per sfuggire problemi o per alleviare un umore disforico, per esempio, sentimenti di impotenza, colpa, ansia, depressione; non saprei, dovrei pensarci… in buona parte, gioco con l’obbiettivo di aumentare le mie entrate, quindi potrei affermare che almeno in parte gioco per compensare i miei fallimenti sul fronte lavorativo.

6) Dopo aver perso al gioco, spesso torna un altro giorno per giocare ancora, rincorrendo le proprie perdite: questo direi di si.

7) Mente alla propria famiglia, al terapeuta, o ad altri per occultare l’entità del coinvolgimento nel gioco d’azzardo. Questo, direi di proprio di no.

8) Ha commesso azioni illegali come falsificazione, frode, furto o appropriazione indebita per finanziare il gioco d’azzardo. ODDIO NO!!!

9) Ha messo a repentaglio o perso una relazione significativa, il lavoro, oppure opportunità scolastiche o di carriera per il gioco d’azzardo. NO. Anche perché di opportunità del genere non me ne capitano a priori.

10) Fa affidamento sugli altri per reperire denaro per alleviare la situazione economica difficile causata dal gioco, “operazione di salvataggio”. NO, le mie perdite al gioco al momento non mi hanno causato alcuna difficoltà economica.

Detto questo, abbiamo:

Si: 1. Si, in parte: 4. No: 5. Quindi boh, direi che in una scala da 1 a 10 dovrei essere tra il 5 e il 6. Situazione non grave, ma forse è bene darsi una regolata.

Detto questo, sottolineo che nel mio giocare mi sono dato un paio di regole, che finora sono riuscito a rispettare:

1) Giocare solo soldi spicci (ovvero: non cambiare soldi per giocare)

2) Mettere da parte 1 Euro per ogni euro perso (il che mi mette in parte al riparo sul piano economico)

Ho chiuso il 2012 sotto di circa 60 euro, il 2013 sotto di circa 50; il problema è che finora nel 2014 sono già sotto di un’ottantina di euro… quindi mi sa che dovrei darmi una regolata….

DI CHE TI LAMENTI?

Già: di che mi lamento? E’ una domanda che potrebbero farmi in parecchi, specie di questi tempi: un tetto sulla testa, tre pasti al giorno, la salute, una certa tranquillità economica? E allora? E allora il punto è che nulla di tutto questo è merito mio; è stato tutto ‘creato da altri’… fosse per me, per le mie scelte e per i brillanti risultati raggiunti, oggi sarei per strada a chiedere la carità, altro che blog, recensioni, film, mostre e via dicendo. E’ questo che non mi soddisfa: non poter dire “questo l’ho ottenuto grazie a me”. Certo, posso dire di avere degli amici, una cerchia ristretta di ‘pochi ma buoni’, di quelli con cui si è cresciuti insieme e di quelli acquisiti lungo la strada; una più ampia di persone coi quali fortunatamente si è in contatto grazie alle nuove tecnologie, ma coi quali forse altrimenti ci si sarebbe rapidamente persi o ci si tornerebbe a perdere (è uno dei motivi che mi hanno spinto qualche giorno fa a restare su Facebook, dopo essere arrivato a un passo dal chiudere tutto, ma questa è un’altra storia). Potrei ‘darmi da fare’ per recuperare la situazione, ma la sensazione è di non sapere come uscirne: cosa so fare? Scrivere. Si mangia oggi con lo scrivere? No, a parte un ristretto numero di casi… Cos’altro sai fare? Nulla.  Scorro gli annunci economici… la stragrande maggioranza delle offerte di lavoro richiede competenze informatiche avanzate, di cui sono privo, o la ‘faccia come il c**o’ per saper vendere (si tratti di case, assicurazioni o servizi attraverso il telefono) di cui sono parimenti privo.  Il lavoro manuale? Boh, che è? Non no né il fisico, né le competenze: l’altro giorno volevo sistemare la perdita di un termosifone, alla fine la situazione era peggiorata. Non vedo uno straccio di prospettiva. A mia discolpa posso dire di non aver mai ‘tirato la corda’: non ho mai chiesto nulla più di quanto mi è stato dato, ma può bastare, giunto alla soglia dei 40? Decisamente, no? Che mi resta? Il nulla. Una vita che si trascinerà avanti come si trascina adesso, i soliti ritmi, le solite cose, le solite passioni effimere… migliaia di letture e ascolti che alla fine a cosa mi hanno portato? A scrivere su un blog per esacerbare la mia insoddisfazione e il rimpianto di non aver piantato gli studi dopo la III Media o il Liceo per andare a lavorare… Invece no, bisogna studiare, costruirsi delle aspettative e delle speranze per vederle sfumate a fronte di un avvenire indistinto che sembra incasellato su binari predeterminati: così a 40 anni, così a 60, così a 80… tutti i giorni uguali, con l’aggiunta del decadimento fisico. Queste sono le grandi prospettive che mi sono costruito. Ma in fondo, di che mi lamento?

CHE FAI NELLA VITA?

Nella vita scrivo, mi occupo di economia dei Paesi dell’Est; lo ‘stipendio’ è irrisorio… ‘campo’ perché i miei hanno ‘costruito’ qualcosa e c’è una casa in affitto intestata a me che produce i 3/4 del mio reddito. Io, personalmente, non ho costruito nulla di ‘notevole’.

Nel tempo libero (tanto, pure troppo), scrivo: qui sul blog, di musica e d’altro, di cinema per un altro sito. Scrivere è bello, i riscontri fanno piacere e offrono la gratificazione, almeno, di sapere di non essere proprio delle capre. Però, Cristo Santo, sarebbe bello un giorno, che tutto questo potesse avere anche un adeguato riconoscimento economico, perché le gratificazioni fanno bene all’umore, ma non ci si mangia… e poi ti accorgi che lavori o collabori in realtà dove ci sono persone serie, competenti e professionali, e poi magari apri i giornali e ti accorgi di errori, refusi, titoli sbagliati, punteggiatura messa a ca**o di cane e ‘illustri critici’ che vengono pagati profumatamente per enunciare due minchiate su Vasco Rossi (vedi alla voce: Mollica)che nelle recensioni rivelano come va a finire il film (vedi alla voce Gian Luigi Rondi). Il problema in Italia è che più lavori a ca**o e in maniera approssimativa e più in alto vai…

Mi dico che se dopo la Terza Media mi fossi fermato con lo studio, oggi probabilmente starei meglio: tutto ‘sto studio, sta cultura, la stanza piena di fumetti, cd, libri e film non è servita niente. Che posso dire? Di essermi fatto una cultura. A cosa mi è servito? A UN CA**O DI NIENTE.

Perché poi la ‘cultura’ inevitabilmente ti fa venire la puzza al naso, ti fa diventare presuntuoso e guardare con sdegno a un sacco di cose… e se di tuo hai un carattere debole e non hai nemmeno intorno chi ti prende a calci il c**o, poi alla fine ti ritrovi con l’unica prospettiva di campare solo grazie a ciò che è stato costruito da altri… che intendiamoci è pure una fortuna, ma insomma è pure discretamente frustrante.

Ci si accorge  di aver sbagliato, di aver fatto degli errori, di non aver capito ‘come va il mondo’, di aver vissuto anni pensando che ‘prima o poi’, mentre si stava al sicuro e con le spalle coperte, ma insomma, averlo capito prima, o aver avuto qualcuno che fin da subito per crescere anziché la protezione, avesse usato delle sonore ‘mazzate’… Oggi forse sarei di gran lunga più ignorante, ma più soddisfatto, con un lavoro modesto ma sufficiente a campare e a dire, a pochi mesi dai 40, di essersi costruito un minimo futuro.

Invece mi ritrovo qui a recriminare sugli sbagli, sugli errori, sul carattere  e l’indole di m***a che ho e sul fatto di non aver avuto chi, fin dall’inizio, invece che assecondarmi, mi avesse dato subito una ‘raddrizzata’.

Si vive così, perennemente insoddisfatti, cercando improbabili ‘vie di fuga’ o di svolta (ad esempio nelle scommesse, dove dopo aver 60 euro in due mesi, forse è il caso di fermarsi) e incapaci di trovare una via di uscita.

FESTE MESTE

…raramente parlo di me e del mio quotidiano, qui… tuttavia ogni tanto qualche sprazzo autobiografico ‘scappa’… le feste sono finite ed io, per la prima volta, ho l’amaro in bocca. Non che a casa mia le feste siano state mai il massimo dell’allegria, per motivi troppo lunghi da spiegare hanno sempre avuto un retrogusto amaro, un clima di tensione e nervoso più o meno strisciante o palese. Quest’anno, peggio del solito: due gran litigate famigliari, una a pochi giorni dal Natale, l’altra ad un paio di giorni dall’ultimo dell’anno, hanno mandato tutto definitivamente in cacca. La colpa è stata soprattutto mia, in fondo quando uno ha (quasi) 40 anni dovrebbe avere la pazienza di sopportare le uscite di genitori ultrasettantenni… ma poi la pazienza finisce, grumi di insoddisfazione per una vita non troppo entusiasmante portano ad esplosioni di rabbia, e il risultato è stato un Natale in cui per la prima volta con l’amaro in bocca mi sono astenuto anche dalla ‘cerimonia’ dei regali… passato Natale, passato (molto meglio, con gli amici) il Capodanno… è arrivata la ‘Befana’ senza che abbia fatto nemmeno il consueto giro in centro per vedere gli addobbi o guardare qualche presepe… conto di ‘riparare’ entro fine settimana, a Roma l’Epifania le ‘feste’ non le porta mai via del tutto, e se anche il presepe di Piazza San Pietro resta lì per qualche altra settimana, si fa sempre in tempo; ma in generale, la sensazione è che sia mancato ‘qualcosa’, che questo periodo festivo sia volato senza che stavolta sia riuscito anche minimamente a godermene un frammento, come nonostante tutto succedeva sempre… mi sono reso conto di aver assistito al passare di questo periodo in maniera troppo asettica, arida; in genere un minimo di ‘calore natalizio’ lo trovavo sempre, stavolta le giornate sono passate più o meno uguali a tante altre, e questo, a pensarci, mi mette tristezza…

CANTAUTORI E / O POETI

Quando si vogliano tessere le lodi di un cantautore, la frase che si sente dire più spesso è: “… è un poeta”. Una frase che più passa il tempo, più trovo irritante, perché porta con se una montagna di errori concettuali e di metodo, che in fondo non fanno altro che mostrare la fondamentale ignoranza di chi la pronuncia.

Affermando che il cantautore  ‘x’ è un poeta, si stabilisce implicitamente una scala di valori secondo la quale il componimento poetico (ovvero: nato per essere ‘declamato’ o letto a sé stante) precederebbe quello nato per avere un accompagnamento musicale: la poesia, insomma, sarebbe ‘geneticamente’ superiore alla canzone.

Ora, non sono uno storico, né un antropologo, né un archeologo, ma ad occhio e croce, l’accompagnare testi e suoni credo sia un’abitudine vecchia quanto l’uomo, che risale ai tempi in cui la trasmissione della cultura era orale e non era sostenuta dalla pagina scritta… tali forme si sono poi ‘evolute’ fino ad arrivare alle odierne canzoni: stabilire quindi una scala di valori in cui la poesia precede la canzone appare già sbagliato da un punto di vista storico.

Chiediamoci allora il come ci si sia arrivati: l’impressione è che tutto dipenda da quanto successo negli ultimi cinquant’anni, con la diffusione della musica e delle canzoni trai ‘consumi di massa’, grazie all’evoluzione dei supporti fonografici (vinile, nastri, cd, file digitali); mentre le canzoni dunque acquisivano questa diffusione planetaria, con tutte le conseguenze che ne derivano naturalmente sotto il profilo qualitativo (non tutte le canzoni sono capolavori, anzi), la poesia non ha goduto di analoga fortuna, subendo piuttosto un drastico calo di una popolarità già non straordinaria, finendo per essere confinata negli angusti spazi dei circoli degli amatori e negli altrettanto risicati spazi negli scaffali delle librerie.

Ciò porta all’affermazione del concetto di fondo secondo cui la poesia ‘roba per pochi eletti e fine uditorio’ sarebbe dunque di per sé stessa superiore alle canzoni, ‘roba per la massa’: da qui, l’uso della parola ‘poeta’ per incensare il cantautore; ovvero: lo scrivere canzoni è un mestiere ‘sporco’ e per ottenere un’accettabilità ‘culturale’ deve ‘salire’ allo stesso livello del poeta.

Un concetto abbastanza misero, se vogliamo, e non solo per l’errore ‘storico’ di cui parlavo sopra: tanto per cominciare, affermando tale concetto si conclude che qualsiasi poesia, solo per nascere in quanto ‘poesia’ è superiore a prescindere a qualsiasi canzone; il che già mi pare abbastanza erroneo, visto che in giro è pieno di sedicenti ‘poeti’ che forse potrebbero impiegare il proprio tempo altrimenti.

In proposito però va fatta un’ulteriore osservazione: è verissimo che, in certi casi, la ‘qualità letteraria’ dei testi delle canzoni non ha nulla da invidiare a quelli delle poesie; tuttavia, non bisogna mai dimenticare che le canzoni nascono già con l’obbiettivo di avere un accompagnamento musicale e questa loro caratteristica incide fatalmente, anche solo a livello inconscio nel processo creativo: credo che nessun cantautore scriva un testo ‘a sé stante’, ma mentre lo scrive già abbia in testa più o meno, quella che ne dovrebbe essere la traccia sonora.

Astrarre il testo dalla musica appare quindi essere un esercizio nei fatti poco onesto: quando qualcuno propone di inserire i testi delle canzoni nelle antologie scolastiche,  si dimentica che quei testi traggono parte del loro senso dalla musica che li accompagna: strappare le parole dalle note appare un esercizio per certi versi addirittura violento.

La canzone è insomma una forma letteraria a sé stante: un ibrido in cui parola e musica concorrono parallelamente al risultato finale, e proprio in quanto forma letteraria autonoma, ha una dignità pari a quella della poesia del romanzo e se vogliamo anche del fumetto, altra forma ibrida, stavolta di parole e immagini, per la quale vale identico discorso.

Stabilire dunque una scala di valori, allorché lodando un cantante gli si dà del poeta, è un esercizio arbitrario, scorretto sotto vari punti di vista e che in ultima analisi denota da parte di chi lo pronuncia una profonda ignoranza o, in alternativa, una discreta disonestà intellettuale.