Archive for ottobre 2014

ILA ROSSO, “SECONDO ME I BUONI”(INRI)

Secondo disco sulla lunga distanza per Ilario ‘Ila’ Rosso; torinese, classe ’76, Rosso aveva già attirato le attenzioni della critica col suo precedente lavoro, “Bellapresenza”, prodotto da Cristiano Lo Mele e Gigi Giancursi dei Perturbazione, che Rosso ha accompagnato in varie date del tour 2012, avendo così modo di farsi conoscere anche dal pubblico.

“Secondo me i buoni” si inserisce in quel filone del cantautorato italiano ‘serio-ma-non-troppo’, pronto a riflettere sulle storture del mondo che ci circonda, ma sempre con un accenno di sorriso, a volte sarcastico, a volte semplicemente amaro.

Dodici brani che guardano alla nobile tradizione, citando di sfuggita De André o Dalla, ma anche a tempi più recenti: il gusto per il cambio di marcia e d’atmosfera, il costante attraversamento dei generi non può che ricondurre a Capossela, con tutti i debiti distinguo e sottolineando come Rosso non sia un semplice imitatore, ma cerchi comunque di dare un’impronta stilistica sufficientemente autonoma alle proprie composizioni.

Ballate folk, marce funebri in stile New Orleans, pezzi per piano e voce, pop ‘di classe’, qualche accenno rock sono i territori che Rosso attraversa nello scorrere del disco, dietro al microfono ed imbracciando la chitarra, mentre un manipolo di compagni di strada contribuisce ad ogni tappa con archi e fiati.

Vite instabili, indecise o semplicemente incompiute, vissute all’insegna di sogni più o meno irrealizzabili; esistenze ai margini, in cui il mondo viene filtrato dal vetro di una bottiglia o dalle sbarre di un carcere; una società sbandata, in cui l’azzurro del cielo è stato sostituito da quello di una maglia da calcio, dove domina l’ansia della competizione…a salvarsi, forse, sono giusto i puri di cuore o, in conclusione, i morti… e il cantante si mette in gioco in prima persona, riflettendo sulla totale mancanza di sicurezza insita nella scelta della professione, affidando i propri destini ad una ‘Canzone cafona’ probabilmente destinata ad avere più successo di qualsiasi brano ‘impegnato’.

Ila Rosso propone temi non nuovi in una veste forse non originalissima, ma comunque discretamente personale; lo fa il più delle volte col sorriso sulle labbra e con modi talvolta apertamente ludici e questo lo rende più gradevole di molti colleghi di ‘ultima generazione’ che sembrano raggiungere il successo solo imbracciando la chitarra e attaccando a lamentarsi…

Chi vuole, può ascoltare il disco qui.

 

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GUARDIANI DELLA GALASSIA

Cinque personaggi in cerca d’autore, cani sciolti abituati a starsene per conto loro si trovano a dover collaborare per evitare un genocidio planetario, (ri)scoprendo nel frattempo il valore dell’amicizia…

La Marvel si prende una pausa: in attesa di tornare a raccontare le gesta dei Vendicatori (è di questi giorni l’uscita del trailer del prossimo film), si abbandona la Terra per una vacanza ‘spaziale’, raccontando le gesta dell’ultima versione dei Guardiani della Galassia. Peter Quill è un terrestre rapito da bambino dagli alieni (il cui unico legame col proprio passato è una cassetta piena di hit degli anni ’70 e’80) divenuto una sorta di avventuriero cosmico, che si trova a capitanare un variegato gruppo di individui: una bella ed altera guerriera dal colorito verdastro (no, Hulk non c’entra nulla), un uomo in cerca di vendetta, una coppia di cacciatori di taglie composta da un procione antropomorfo con la passione delle armi (spesso più grosse di lui) e un albero umanoide che si esprime con la sola frase “Io sono Groot”, e anche il tormentone è servito…

Diciamocela tutta: la Marvel ha fatto centro anche stavolta, a partire dalla scelta di concentrarsi su personaggi di ‘seconda schiera’ rispetto ai soliti ‘grossi calibri’, da un lato intrigando i fumettofili, dall’altro dando al pubblico dei non appassionati la possibilità di confrontarsi con protagonisti dal passato meno ‘ingombrante’. L’azione si sposta nello spazio, creando una cesura col classico ‘mondo di riferimento’ degli eroi Marvel (pur conservando alcuni legami coi film precedenti), consentendosi, in una certa misura, di ‘sperimentare’.
Certo, ‘sperimentazione’ è una parola grossa, ma l’impressione è che questo film sia servito per concedersi qualche libertà non permessa dai precedenti lavori. Il fattore comune è quello di una fantasmagoria visiva che compie ulteriori passi in avanti, complice l’ambientazione aliena / cosmica che permette di sbizzarrirsi, peraltro con momenti quasi ‘lirici’; per altro verso, però, ci si diletta pigiando l’acceleratore sul registro comico: in questo senso va sottolineato l’utilizzo efficacissimo della colonna sonora, con effetti di contrasto ed alleggerimento in alcune parentesi che altrove sarebbero state dedicate al pathos ed alla tensione. Gag a profusione in aggiunta, dominate dalla bizzarra coppia del procione – albero, ma affidate anche allo stesso Quill, alla vaga stupidità del guerriero Drax e a volte perfino allo scontrosa Gamora. In questo senso, ma non solo, Guardiani della Galassia è forse il più disneyano dei film dedicati ai supereroi della Marvel: se combattimenti, eroismo e quant’altro hanno comunque il giusto spazio, maggiormente sottolineati sono certi concetti – l’amicizia, l’unità nella diversità – tipiche dei prodotti della ‘Casa del Topo’; del resto, cosa c’è di più disneyano di un procione e un albero parlanti.
Il film si snoda all’insegna di uno svolgimento prevedibile, momenti di combattimento (duelli a due, scontri di massa, battaglie spaziali) abbastanza consueti, caratteri tipici: il cast se la cava, complice una sceneggiatura che non tocca certo vertici da capogiro; tuttavia, va almeno sottolineato come Chris Pratt (fin qui noto per serie tv e ruoli marginali sul grande schermo) colga al meglio la ‘grande occasione’ offertagli col ruolo di Quill’; assieme a lui, una Zoe Saldana il cui personaggio è per lo più affidato al sex appeal dai riflessi verdastri e la stella del wrestling Dave Bautista che tutto sommato se la cava. Il film andrebbe poi visto in lingua originale per godere delle presenza di Vim Diesel, voce dell’arboreo Groot e di Bradley Cooper, inteprete del procionesco Rackoon: partecipazioni che fatalmente si perdono nel doppiaggio italiano; trai ruoli di rincalzo, si possono citare John C. Reilly, Glenn Close, Benicio del Toro e  Michael Rooker. Impalpabili o quasi i ‘cattivi’ della situazione, la cui presenza alla fine finisce per essere quasi pretestuosa.

Guardiani della Galassia è insomma un buon prodotto di evasione, che mantiene tutto ciò che promette e che tra un combattimento e l’altro offre più di un’occasione di divertimento e per autentiche risate; un riuscito esempio di avventura volta alla commedia, parentesi fordr anche necessaria rispetto ai climi spesso plumbei dei Marvel-movies; rispetto agli ultimi prodotti del genere, un modo diverso di cercare altre strade rispetto a Capitan America – Soldato d’Inverno (il quale però si faceva forse preferire coi suoi risvolti da spy story anni ’70), ma comunque un passo in avanti rispetto al poco riuscito Thor – The Dark World, nel quale l’elemento comico era inserito spesso e volentieri in modo poco pertinente, con effetti deleteri.

FRANCOBEAT, “RADICI” (BRUTTURE MODERNE / AUDIOGLOBE)

Fin dai primi lavori discografici, Francobeat (all’anagrafe Franco Naddei) si è dedicato alle contaminazioni tra musica e letteratura, con lavori – anche teatrali – ispirati alle opere di Rodari, Sciascia, Manganelli; poi, un paio di anni fa, una proposta: musicare i testi scritti dagli ospiti della residenza per disabili mentali “Le radici” di San Savino, nei pressi di Riccione.

Proposta che diventa sfida, impegno, impresa, un lavoro di due anni nel quale Francobeat ha progressivamente coinvolto una serie di amici, trai quali John DeLeo, Sacri Cuori, Diego Spagnoli degli Aidoru. Il risultato sono questi quattordici brani, cui Francobeat ha conferito varie vesti sonore: spesso e volentieri all’insegna di atmosfere elettropop (il suo principale riferimento sonoro), ma anche di folk acustico, di indie-rock vagamente sbilenco, con episodi che rimandano a Tricarico, Bugo, volendo Elio e le Storie Tese.

Il materiale è di quelli delicati, da ‘maneggiare con cura’: ascoltato così, senza conoscerne la storia, “Radici” è uno di quei dischi che possono fare la felicità degli amanti del nonsense, delle atmosfere surreali e sbilenche, del flusso di coscienza, dell’attitudine ludica pronta a trasformarsi in meditazione crepuscolare… ma col senno di poi, non si può non ascoltare il lavoro sapendo che questi testi sono frutto di un disagio reale… come quando si abusa del termine ‘matto’, per definire una persona semplicemente ‘fuori dagli schemi’, dimenticandosi troppo spesso le vittime del vero disagio, della reale malattia.

Non che per questo ad ascoltarlo ci si debba per forza immalinconire, o peggio impietosire: forse, invece, incuriosire, magari intenerire, spesso e volentieri riflettere, su questi testi: talvolta semplicemente fantasiosi, che in altre occasioni rappresentano il proprio vissuto, la propria storia, il modo di guardare a sé stessi e alla realtà circostante… quello che succede, in fondo, per qualsiasi autore, di canzoni, poesie od altro.

E allora, forse, il pregio maggiore di questo progetto è portare all’esterno un mondo che, troppo spesso, si preferisce pensare ‘a parte’, come se all’interno delle mura delle strutture di cura vivessero solo persone chiuse nel buio della propria inconsapevolezza, incapaci di comunicare all’esterno, o di farlo in modo comprensibile… magari, spesso, si preferisce pensarlo, forse perché più ‘comodo’ perché la disabilità mentale (e non solo) mette a disagio… e invece “Radici” mette in scena i sogni, l’immaginazione, le riflessioni di persone che la disabilità mentale rende certo ‘diverse’, ma non per questo poi così distanti dai cosiddetti ‘normali’.

ANTONIO FIRMANI & THE 4TH ROWS, “WE SAY GOODBYE, WE ALWAYS STAY” (SLOW DOWN RECORDS /AUDIOGLOBE)

Disco d’esordio per questo quartetto napoletano, riunitosi circa un anno fa: dieci pezzi (tra cui uno strumentale) all’insegna di un indie-pop / rock sospeso tra climi sognanti (fino qualche ‘rarefazione islandese’ appena accennata) e climi più orientati verso il cantautorato folk d’oltreoceano; voce e chitarra, basso e batteria, cui si aggiungono spesso e volentieri piano e tastiere varie, occasionalmente archi e fiati, qua e là sonorità ‘giocattolate’ a dare quella sorta di ‘infantile leggerezza’ tipica di certi lavori.

Il cantato (per lo più in inglese, con il solo brano di chiusura in italiano). ‘titolare’ di Firmani è costantemente discreto, quasi dimesso, non di rado accompagnato da voci femminili e cori con un effetto avvolgente; partecipa, tra gli altri, il concittadino Gnut. Un disco caratterizzato da una certa dolcezza, di suoni e di modi, un’attitudine ‘da ninna nanna’, una malinconia di fondo pronta talvolta ad esplodere in variopinte sventagliate sonore, senza mai tradire il fascino sottilmente onirico del disco.Eppure, nonostante tutto questo, a leggere i testi, “We say goodbye, we always stay” è un disco tutt’altro che ‘dolce’, tutt’altro che sognante: come suggerisce il titolo, è un lavoro se vogliamo dedicato all’incapacità di decidere, di prendere una direzione, alla consapevolezza della propria inadeguatezza, della necessità di cambiare, ma all’incapacità di farlo, anche nelle relazioni sentimentali.

Un lavoro all’insegna di suoni, atmosfere e sensazioni non nuove, ma che le riprende con personalità e una discreta capacità di suggestione.

Per chi volesse farsi un’idea, il disco è ascoltabile qui.

ANTINOMIA, “MANTRA” (AUTOPRODOTTO)

L’Italia e il metal: una vicenda ormai lunga e variamente articolata, con risultati talvolta eccellenti, altri un po’ meno… ad arricchire il novero di band italiche dedite al ‘metallo’, sono giunti nel 2011 gli Antinomia, sestetto proveniente dalla provincia torinese che con “Mantra” giunge al secondo lavoro sulla lunga distanza, dopo aver ottenuto un buon discreto da parte di pubblico e critica, oltre al sostegno dei Litfiba, che dopo la vittoria del Grande nazionale rock contest da loro organizzato, li hanno voluti con sé come gruppo di supporto in alcune date.

Oltre ad essere il lavoro di una band che finora compiuto un percorso più che soddisfacente, “Mantra” parte sotto i migliori auspici anche sotto il profilo produttivo, con la firma di Madaski e la partecipazione di Mauro Tavella (già collaboratore degli stessi Litfiba e di Linea 77 e Africa Unite).

La tecnica della band, assieme alla produzione, raggiunge lo scopo di assemblare un disco dai suoni pieni, quasi ineccepibile sotto il profilo estetico; tuttavia nello scorrere delle undici tracce, il lavoro appare mostrare qualche limite. L’impressione di fondo è che si sia voluta mettere un po’ troppa carne al fuoco: l’apprezzabile scelta di fondo del ricorso ad un heavy di stampo classico, si scontra con l’utilizzo un filo troppo invasivo dell’elettronica, con accenti cyber e talvolta allusioni eighties che, pur efficaci a tratti, spesso e volentieri finiscono per annacquare un po’ l’impronta di base; il susseguirsi di citazioni hard rock, gotiche, psichedeliche, più che di una band eclettica, dà l’idea di un gruppo forse un po’ indeciso sulla strada da prendere.

Non aiuta la lunghezza, talvolta eccessiva, dei pezzi, in cui trovano puntano spazio digressioni strumentali non sempre efficaci e funzionali ai fini della riuscita dei brani: non è un caso, forse, che gli episodi più riusciti appaiono essere Il sognatore, posto in apertura, e la title track, in cui la band ha utilizzato maggior sintesi. I testi, tra ansie contemporanee e rapporti interpersonali, sono interpretati con personalità, sebbene a tratti con una rabbia che appare un po’ forzata.

“Mantra” ci mostra insomma una band tecnicamente matura, ma che forse ha ancora bisogno di inquadrare meglio il proprio stile, concretizzando potenzialità ancora inespresse.

MARIAN TRAPASSI, “BELLAVITA” (ADESIVA DISCOGRAFICA / SELF)

Dalla Sicilia al mondo e ritorno: Marian Trapassi si è fatta conoscere ed apprezzare ad inizio anni 2000, con l’esordio “Sogno verde” e i due dischi successivi; poi, un lungo periodo di pausa, esperienze extramusicali e parentesi fuori dall’Italia, tra le quali un anno passato a Siviglia… e arriviamo così all’oggi, con “Bellavita”, quarto lavoro da studio che forse rappresenta l’apertura di un nuovo capitolo nella biografia musicale della cantautrice siciliana.

Riferimenti biografici fin dalla title-track posta in apertura, riflessione ironica e sottilmente amara sulla professione del cantante e sui mestieri dello spettacolo in genere; ampio spazio ai sentimenti, spesso con un retrogusto nostalgico; brani all’insegna di un rassicurante raccoglimento domestico (A casa); il sogno del volo di Modugno (Giovanni) e personaggi di Bukowsky (Barfly), Armstrong che incontra i Doors (Finimondo) e citazioni della Vanoni (L’attesa), fino ad una parentesi in spagnolo (Por el amor del amar).

Marian canta, all’insegna di una leggerezza solare spesso e volentieri ombreggiata di melanconia e un filo di disincanto, accompagnata da un nutrito manipolo di musicisti per brani che ondeggiano tra canzone d’autore e suggestioni popolari, blues e swing, folk e qualche accento rock.

Un lavoro che fa appunto, della sua leggerezza (apparente) la sua dote migliore, che scorre via fresco come la brezza di fine estate, che intiepidisce un sole reso meno brillante dai primi accenni di autunno.

Per chi vuole, il disco lo si può ascoltare qui.

AA.VV., “TRA LE PALE DEI MULINI” COMPILATION (LIBELLULA MUSIC)

Libellula Music è una delle tante etichette che affollano il sottobosco sonoro italiano, quello che va comunemente sotto l’aggettivo di ‘indipendente’; per presentare Ronzinante, la propria divisione booking, viene pubblicata questa compilation, scaricabile gratuitamente online.

Otto pezzi per otto tra cantautori (la maggior parte) e band: nomi ancora ben al di là dal raggiungere l’audience del ‘grande pubblico’, ma nemmeno dei perfetti esordienti: autori che con i loro primi lavori hanno già offerto prove di livello: dall’attitudine ludica di Losburla, all’ironia disincantata di Edoardo Cremonese, passando per l’ispirazione folk di Nicolas J. Roncea (questi già recensiti in questo blog) fino al cantautorato di stampo un filo più ‘classico’ di Marco Notari.

Gli Eugenio in Via di Gioia ripercorrono i sentieri della musica popolare e gli Etruschi from Lakota alzano il ritmo e offrono il loro contributo in termini di ‘far casino’; le suggestioni vagamente jazz dei Med in Italy si affiancano alla solarità southern dei Solotundra.

Ce n’è, insomma, per tutti i gusti o quasi: una nuova, ottima occasione, per scoprire nomi fuori dai soliti circuiti del pop di consumo nazionale.

PICCOLI ANIMALI SENZA ESPRESSIONE, “CERCO CASA VISTA MARTE” (IRMA RECORDS)

Secondo lavoro per il progetto di Andrea Fusario, già trai membri fondatori dei Virginiana Miller, nei quali ha suonato il basso nei primi due dischi (Gelaterie sconsacrate ed Italia Mobile).

Il titolo sintetizza una sorta di ossimoro: la ricerca di una stabilità ‘casalinga’, che sia però il risultato di una fuga dal presente, verso altri mondi e altri luoghi: il filo conduttore dei dieci pezzi che compongono il disco appare del resto essere una continua critica a certi aspetti deleteri della realtà circostante, sui quali viene gettato uno sguardo spesso e volentieri ironico, un filo sarcastico.

La crisi economica (‘Eurozero’) forse non è nemmeno l’aspetto più deleterio della situazione, se paragonata con la mania imperante per i farmaci (‘Istant Pharma’) o la diffusione di certe professioni ai limiti, e oltre, del paradosso, come il ‘Life Coaching’… e allora la salvezza corre verso altri mondi (‘Mission to Mars’), affidata al sogno di tecnologie che permettano fughe istantanee (‘Teletrasporto’), o finisce per essere ricercata nei primi amori (‘L’amore ai tempi del Liceo’) o nella tenerezza del quotidiano domestico (‘Ninna nanna per Rita’).

Fusario assembla una serie di brani all’insegna di un pop elegante, che si accompagna volentieri a qualche sferzata elettrica con ascendenze new wave, ovvero un po’ lo stesso marchio di fabbrica che contraddistingueva la sua precedente esperienza coi Virginiana Miller; ad accompagnare Fusario, i sodali Edoardo Bacchelli e Gianluca Pelleschi, il nuovo arrivato Luca Brunelli Felicetti, che dietro alla batteria dona al disco maggiore calore rispetto all’ampio ricorso all’elettronica dell’episodio precedente; tra gli ospiti, Antonio Bardi, ex compagno di strada nei Virginiana, e soprattutto Robin Guthrie, già chitarrista dei leggendari Cocteau Twins nell’eterea ‘Sarà di nuovo estate’.

Un disco che riesce a coniugare contenuti di un certo peso ad una costante leggerezza di atmosfere, che si lascia piacevolmente ascoltare dall’inizio alla fine.