Un parco giochi scalcinato, in mezzo disarmo, tra attrazioni mezze abbandonate, altre perfettamente funzionanti, tra le quali aggirarsi con un pugno di ‘Gettoni’ in saccoccia…
Jacopo Gobber, compositore e sound designer che ha collaborato, tra gli altri, anche con Disney, viene improvvisamente ‘fulminato’ dall’idea di unire canzone d’autore, psichedelia ed elettronica, da quella delle ‘tastierine’ anni ’80 alla techno anni ’90 e qualche accento ‘sguaiato’.
Assieme ad alcuni compagni di strada, Gobber assembla otto pezzi in cui, dietro l’apparente gioco di costruzione di mosaici sonori di varia ispirazione – in qualche caso si arriva ai limiti del ‘Blob’, come con la citazione pavarottiana inserita nell’apripista ‘Turandot’, emerge uno sguardo disincantato, più amaro che cinico, sulla realtà e in particolare certi ‘meccanismi’ nei quali quali ci si trova proprio malgrado, come ad esempio la burocrazia con la quale si è costretti a fare i conti anche in situazioni delicate come la malattia di un parente.
Prevale talvolta il nonsense, il gusto per il calembour, mentre altrove ci si ritrova a riflettere sulla propria identità di musicista e qua e là si fa spazio la riflessione, più o meno esplicita, su certi ‘riti’ come i ritrovi in spiaggia o in piazza.
Il risultato può ricordare certe esperienze di un passato più o meno prossimo: possono venire in mentre a tratti gli Amari (per chi li ricorda), del resto citati esplicitamente in una ‘lista di gradimenti’ che va da Syd Barrett ad Achille Lauro, passando per Flaming Lips e Aphex Twin.
Un disco obliquo, che per la sua natura di ‘patchwork’ sonoro invoglia all’ascolto ripetuto, sempre alla ricerca di ciò che in precedenza era sfuggito.