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RICHARD BENSON (1955 – 2022)

Tutti, più o meno, abbiamo una sorta di ‘pantheon’, costruito tra l’adolescenza e i vent’anni, fatto di volti e parole: personaggi che tornano poi ogni tanto per gli anni e i decenni a seguire nelle battute, nei ricordi, nelle imitazioni.

Chi è stato giovane e giovanissimo a Roma negli anni ’90, soprattutto chi ascoltava metal, prima o poi si sarebbe imbattuto, sulla rete locale TVA 40, in “Ottava Nota”, trasmissione di novità discografiche condotta da un singolare personaggio il quale, come si dice ‘non la mandava a dire’, demolendo – talvolta letteralmente – il disco di turno, elevando, all’opposto, il tal chitarrista al rango di ‘mostro’, addentrandosi in interminabili disquisizioni su formazioni, biogafie, etc…

Già all’epoca il personaggio non era del tutto sconosciuto: qualcuno ne poteva ricordare gli sparuti trascorsi come musicista o le apparizioni nei programmi di Arbore; Verdone, che è un formidabile osservatore, capì prima di tanti le potenzialità del personaggio e lo portò sul set di “Maledetto il giorno che t’ho incontrato”.

Con Richard Benson, insomma, siamo cresciuti, anche assistendo, purtroppo, a un declino passato attraverso un grave incidente dai contorni mai chiariti, spettacoli dal vivo in cui il nostro si prestava al ludibrio generale, apparizioni televisive volte solo ad esaltarne gli aspetti più oltre le righe, fino alle tristi comparsate in un noto programma del pomeriggio.

Dispiace perché sembrava che negli ultimi tempi Richard Benson stesse tornando un po’ alle origini: l’aspetto sembrava migliorato, c’era, sembra, finalmente un disco ‘serio’ in fase di progettazione.

Avrebbe meritato altro percorso: non so quanto scientemente l’abbia voluto lui e quanto, purtroppo, il ‘sistema’ abbia cercato solo le urla, senza andare oltre: la cultura musicale era indiscutibile, ma il metal, il progressive e in generale la musica pop – rock suonata da chi sa suonare raramente viene considerata.

Resta quel filo di amarezza e tristezza per un pezzetto dei propri vent’anni che se n’è andato.

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SUGAR FOR YOUR LIPS, “SPLEEN” (OVERDUB RECORDINGS)

Il dato geografico stavolta ha un peso: la Calabria e Cosenza non sono certo il ‘centro’ del rock italico, anzi: probabilmente fanno parte della periferia, più o meno estrema.

E tuttavia la convizione nei propri mezzi può portare una band come gli Sugar For Your Lips a calcare le scene per quasi un decennio, vivere delle difficoltà, rinascere, giungere a ribalte nazionali come Sanremo Rock (non chissà che, ma qualcosa conta) e, finalmente, a pubblicare il proprio primo lavoro sulla lunga distanza. Non resilienza, ma autentica resistenza.

Non si può quindi non guardare con occhio benevolo questi nove brani, che partono da Baudelaire e dallo Spleen, il ‘male di vivere’ che diventa fonte di creazione artistica, che toccano “Il Visconte Dimezzato” di Calvino, e lambiscono la ‘caverna’ del mito platonico prima di arrivare a una sorta di pacificazione dove il malessere iniziale è quanto meno mitigato dalla consapevolezza che tutti ‘valiamo’ qualcosa (e mi scuso se questo ricorda uno slogan pubblicitario) a prescindere dagli altri e dal contesto e che in questo possiamo trovare se non una soluzione, almeno un minimo di conforto.

In mezzo, un mix di rabbia, dolore e altre forti emozioni, a descrivere un percorso che porta soprattutto a un conflitto con sé stessi, alla ricerca forse di una propria personalità, a tentare vie di fuga, a cercare di comprendere se dietro all’impressione di essere ‘ombre’ di qualcun altro o ‘fantasmi di sé stessi’ ci sia poi qualcosa di vero.

“Spleen” cerca insomma di rispondere a certe classiche domanda sul ‘senso’, specie in un periodo in cui sembra sempre più evidente la frattura tra chi cerca di imporre la propria personalità su tutto e tutti e chi questa personalità non sembra nemmeno sicuro di averla veramente.

Il tutto tradotto con suoni e un’attitudine che possono ricordare un certo ‘rock italico’ un filo ‘di maniera’ (vedi alla voce: Le Vibrazioni), ma tentando almeno di ‘depurarlo’ di certe eccessive concessioni al ‘facile consumo’, con scelte sonore più ‘taglienti’, a tratti rumorose e con accenti talvolta ‘metallici’.

La dimostrazione che anche non essendo al centro di certi ‘circuiti’ tradizionali, si possono raggiungere dei risultati.

KRAIT, FRANCESCO MORRONE, CLAUDIO RIGO, CEROLI, RUGGERO RICCI: SINGOLI

Krait

Slate

Produzione: A-Kurt

Sì fa chiamare Krait, si chiama Michela Di Mauro, e ha scelto di buttarsi anima, corpo e soprattutto voce, sul versante più duro del rock: attività ben avviata coi Deceit Machine, affiancata dai primi passi da solista, giunta al terzo singolo.

Accompagnato da un video ‘pulp’ che riporta a Robert Rodriguez e più in là a Tarantino, tra gangster e donne fatali, ‘Slate’, prodotto da A-Kurt, è un pezzo che strizza l’occhio a certo rock ‘industriale’ (Nine Inch Nails, Alec Empire, qualcosina dei Fear Factory) e che gioca ovviamente gran parte delle sue sorti sull’attitudine e la performance della vocalist, che fa flirtare screaming ‘metallico’ e cadenze hip hop.

L’esito, pur non fenomenale, è comunque più che gradevole, specie per chi magari è un po’ stanco di artiste votate a soul e affini.

Il pianeta rock di casa nostra a cercarle può ancora riservare delle sorprese.

Francesco Morrone

L’amore non conviene

Autoprodotto / Believe

Secondo singolo dell’anno per Francesco Morrone, cosentino di nascita, ‘nomade’ per vocazione, in attesa di pubblicare il suo secondo lavoro da solista.

Riflessioni sparse sull’amore, le insicurezze che portano alla fine delle storie, l’impossibilità, nonostante tutto, di chiudersi ai sentimenti; voce e chitarra con suggestioni orientali che conferiscono al pezzo un sapore quasi onirico, complice un’interpretazione quasi sussurrata, sempre sotto traccia, all’insegna di una parola più parlata che cantata con qualche reminiscenza di Fosssati.

Claudio Rigo

Giorni e Colori

DK Records

Nuovo singolo per Claudio Rigo da Torino, cantautore con un passato e presente da imprenditore, e la passione per la musica, portata avanti in parallelo.

Un caleidoscopio di colori come metafora della vita coi suoi alti e bassi, e come fonte di speranza verso il futuro.

Voce e piano con inserti di chitarra elettrica, per un brano nel solco del classico cantautorato – pop di casa nostra, senza scosse.

Ceroli

Tre Giorni In Hangover

Biscottificio Records

Abbruzzese di Lanciano, un trascorsi di batterista nei Management Del Dolore Post Operatorio (qualcuno forse li ricorderà), Ceroli ha fa qualche tempo avviato la carriera da solista, con un EP e qualche singolo, in un percorso che punta, a breve, all’uscita del primo lavoro sulla lunga distanza.

Cantautorato indie, per un brano che descrive il naufragio di una relazione con un cantato minimale e quasi sussurrato che si perde in un’atmosfera sonora evanescente, tra effetti e riverberi assortiti.

Sì lascia ascoltare.

Ruggero Ricci

È un’altra notte

VR Digital

Un’altra notte per voltare pagina rispetto a una storia finita e ricominciare: notturno il riferimento, danzereccia l’impostazione, per un brano che strizza l’occhio ad r’n’b e soul, a cominciare da una vocalità abbastanza ‘consueta’.

Ruggero Ricci (un passaggio a X-Factor, ormai parecchi anni fa), prosegue il suo percorso all’insegna di un pop decisamente ‘piacione’ e ammiccante, anche troppo…

NICHELODEON / INSONAR & RELATIVES, “INCIDENTI – LO SCHIANTO”(SNOWDONIA)

Nichelodeon è il progetto che il cantante e polistrumentista Claudio Milano porta avanti da oltre un decennio: con questo lavoro, e quelli collegati, siamo giunti al sesto disco;

InSonar & Relatives è il faraonico ensemble che l’autore ha assemblato per l’occasione: oltre 40 elementi che hanno contribuito a creare e formare quest’opera.

“Incidenti – Lo Schianto”, che giunge a sette anni di distanza dal precedente lavoro, frutto di una gestazione di cinque anni (2014 – 2019), subendo poi i ritardi di pubblicazione connessi alla situazione degli ultimi due anni è…

Cosa sia, è difficile spiegarlo: si farebbe prima a dire: “Andatevelo ad ascoltare… se avete il coraggio”.

“Incidenti – Lo Schianto” non è un disco ‘comune’, nemmeno per chi scrive, che insomma, con un minimo di ‘presunzione’ è abituato a percorrere anche sentieri sonori poco battuti…

17 tracce, che vanno a coprire gli 80 minuti, durata limite di un cd, che gettato l’ascoltatore in un vortice: avant-metal, folk medievale di tradizione italica, elettronica, jazz, è l’elenco stilato dallo stesso Milano, cui si aggiunge la musica colta, che fa da collante, attraverso un’esposizione vocale che viaggia tra suggestioni liriche, che sfociano nell’operistica, e recitativi, e l’ensemble strumentale, concepito come una formazione da ‘camera’, in cui elementi classici, violino in primis, dialogano con l’avanguardia elettronica, la ‘tradizione attualizzata’ (ghironde e arpe elettrificate), strumentazione ‘rock’ (chitarre, moog), pianoforte preparato, fiati, fisarmonica e l’elenco potrebbe proseguire.

Un viaggio e un vortice sonoro che viene definito ‘Senza Valore’, forse per tagliare la testa al toro nei confronti di qualsiasi polemica o critica, una sorta di “Così è se vi pare”; un lavoro che per stessa dichiarazione dell’autore nasce dalla rabbia e come tale non può che essere immediato (proprio nel senso di ‘senza mediazioni’) e viscerale, semplice, ma non ‘facile’, essenziale e diretta espressione di un’emozione.

Lavoro che come tale rinuncia, e anzi non prende nemmeno in considerazione, l’idea di ‘farsi piacere’, di creare un ‘canale di comunicazione’, per lo meno dal punto di vista superficiale.

Poi nel profondo è altro discorso, perché in controluce, tra le righe di queste canzoni sghembe, i vocalizzi che riecheggiano Demetrio Stratos, l’atteggiamento talvolta irridente, sardonico, tra litanie, versioni aliene di ‘Mamma dammi 100 lire’ e cori dei puffi in versione manicomiale, ci sono le emozioni, che appunto sono semplici e dirette e basta aprirsi ad esse per riuscire ad intercettarle.

ALEX SAVELLI – IVANO ZANOTTI, “ITALIAN KIDD” (RADICI MUSIC RECORDS)

Un ‘discone’, sotto vari punti di vista, a cominciare dal fatto che non accade tutti i giorni di trovarsi di fronte a 15 pezzi che superano ampiamente l’ora di durata.

Non è pero solo questione ‘numerica’: Alex Savelli e Ivano Zanotti, qui al primo episodio della loro collaborazione, mettono insieme un disco di sano, arrembante e direi anche ‘necessario’ rock italiano.

Come già avvenuto in un precedente progetto dello stesso Savelli, l’idea è stata di aprire il progetto a un ampio nuemro di collaboratori, in questo cantanti: 11 per la precisione (e vabbé, si torna sui numeri), provenienti da gruppi poco o per nulla conosciuti, a fare una sorta di ‘punto della situazione’, per quanto ovviamente non esaustivo, di come si faccia ‘rock’ oggi in Italia.

Il ‘rock’, intendiamoci, più o meno ‘classico’, certo pronto a colorarsi qua e là di tinte vagamente ‘indie’ o ‘alternative’, ma qui diciamocela tutta, le chitarre (curate da Savelli, polistrumentista con collaborazioni che vanno da Francesco Guccini a Paul Chain, passando per Ares Tavolazzi, e che qui è anche autore di tutti i brani) sono le protagoniste, che abbiano le tinte più spiccatamente ‘hard’ e vagamente metal, un po’ à la AC/DC, sia che sforino in territori vagamente grunge, o che assumano tinte psichedeliche (‘The Sheperd’ i nove minuti) passando per momenti funk, fino a suggestioni cinematografiche, con parentesi che sembrano rimandare a certe colonne sonore dei film ‘di genere’ degli anni ’70 (‘Spears’). Il pezzo conclusivo, ‘Noi siamo soli’, l’unico in italiano, appare come una sorta di versione ‘nera’ e decadente di certi episodi del repertorio dei nostri anni ’60.

Un caleidoscopio, una ‘mezza maratona’ che trova il tempo anche per momenti più compassati, in uno scenario che mantiene elevati tensione e decibel.

La batteria di Zanotti (di nuovo: uno che ha calcato in lungo e in largo i palchi, a fianco di Ligabue e Vasco Rossi, ma anche di Alan Sorrenti e Loredana Bertè) fa da adeguato e inesausto contraltare / sostegno / abbinamento.

Le voci – tre delle quali femminili – fanno il resto, con le loro singolo personalità e grane emotive.

I ‘fenomeni del momento’ hanno certo contribuito a fare – almeno in parte – riaccendere i riflettori sul rock italiano; dischi come questo mostrano che al di là dei successi sanremesi ed eurofestivalieri, il rock in Italia è vivo e lotta insieme a noi.

DAGMA SOGNA, “INTERNO 11” (DISCHI SOTTERRANEI / ARTIST FIRST / LIBELLULA MUSIC)

Terzo lavoro (il quarto, considerando un EP) per i liguri Dagma Sogna.

Nove pezzi all’insegna di un rock a tinte hard che non disdegna da un lato di flirtare (e forse qualcosa di più) col metal, complice il risalto dato alle chitarre, efficace accompagnamento a un cantato aggressivo, ma mai sopra le righe; la sezione ritmica chiude il cerchio con puntualità.

Non si disdegna qualche passaggio più pop, in un lavoro con più di un episodio radio – friendly.

Un lavoro sul filo della disillusione – sentimentale o generazionale – i trent’anni sono un momento di bilanci, senza cedere al pessimismo, ma trovando motivi per reagire e cercare un cambiamento, trovando anche spazio per un omaggio ai propri genitori, che nonostante tutto continuano a essere gli ‘eroi’ della propra infanzia.

Un lavoro che convince per attitudine ed energia.

LE PICCOLE MORTI, “VOL.1” (NEW MODEL LABEL / AUDIOGLOBE)

Attivi in fase embrionale dal 2010, due dischi sfornati a nome Old Scatchiness, i cinque componenti de Le Piccole Morti aprono una nuova fase della loro biografia sonora con questi cinque brani.

Definiscono la loro proposta ‘Noir Rock’, che nei fatti finisce per essere un nuovo modo di catalogare ciò che si radica nel filone dell’alternativo italiano più o meno recente, dai primi Litfiba agli Afterhours, passando per i Timoria: ricorre un’atmosfera plumbea, dai tratti decadenti con qualche suggestione gotica, a definire rapporti sentimentali e con sé stessi sempre travagliati. Si gioca la carta del ‘non detto’, con testi che accennano al flusso di coscienza, un affastellarsi di pensieri.

Si parte con la wave, si prosegue con ardori che sfiorano il metal, si conclude con una vena cantautorale che ricorda gli Afterhours. I tentativi di ‘articolare’, inserendo qualche elemento jazz restano soprattutto nelle intenzioni, o in certe atmosfere notturne.

Musicisti rodati, e si sente, avvertendosi anche la necessità di una maggiore focalizzazione stilistica.

ANDREA LORENZONI, “SENZA FIORI” (DIMORA RECORDS / NEW MODEL LABEL)

Secondo disco per il bolognese Andrea Lorenzoni, poeta oltre che cantante con un paio di pubblicazioni all’attivo.

A colpire, stupire per certi versi, è la varietà di un disco capace di cambiare ‘pelle’ in ognuno dei dieci pezzi: tra cantautorato, parentesi elettroniche che riecheggiano certo pop anni ’80, o all’insegna di maggiori dilatazioni, fino a sventagliate apertamente rock, con accenni grunge e qualche vaga allusione metal.

Il rischio di cadere nella ‘trappola’ di una serie di esercizi di stile finire a sé stessi è abilmente evitato, anche grazie a una sequenza che non rende troppo drastico il salto tra un’atmosfera e un’altra.

Testi spesso vagamente ermetici, giustapposizioni di pensieri, soliloqui, riflessioni su di sé, gli immancabili ‘sentimenti’ che però per una volta non sono dominanti.

“Senza fiori” è un disco di cantautorato atipico, in cui la musica è tutt’altro che secondaria rispetto alle parole, un lavoro che si stacca per suoni e temi dall’andazzo generale di troppa musica corrente italiana, ‘indie’ o meno.

MILDRED, “IL COLORE DEGLI INVERNI” (AUTOPRODOTTO / LIBELLULA MUSIC)

Secondo capitolo della biografia dei Mildred, quintetto proveniente dalla Sardegna, già questo degno di nota, viste le obbiettive difficoltà per chi vive sull’isola di far giungere la propria voce al di là del mare…

Dieci pezzi in cui fronte è l’impronta di certo alt.metal d’oltreoceano, mescolato a una ricorrente componente ‘sintetica’: l’esito è un continuo tira e molla, fatto di tensioni e rilassamenti, ‘stop and go’, rabbia anche urlata e parentesi più dimesse, anche all’interno dello stesso brano.

Un andamento sincopato che si accompagna a sonorità piene, con la matrice metal che, accompagnata alla componente elettronica, restituisce atmosfere post industriali, vagamente cyber.

La scrittura è immediata, arrembante, all’insegna di una classica urgenza comunicativa (in italiano) condita da qualche citazione (Benjamin Button, Figaro), il tutto al servizio del classico ‘noi contro il mondo intero’, nella ricerca di una propria realizzazione.

La confezione è comunque gradevole: i suoni si lasciano apprezzare, tecnica discreta così come la costruzione dei brani.

Giovani ‘metallari’ dei giorni nostri crescono.

NOSEXFOR,”NOSEXFOR” (AUTOPRODOTTO)

Un duo, quello formato dai vicentini Severo Cardone e Davide Tonin e dieci pezzi per un esordio che rappresenta una sorta di ‘valvola di sfogo’, di nuova strada rispetto alla collaborazione che già da tempo li lega nel portare avanti lo Shoegaze Studio.

Un lavoro che, rispondendo all’idea di ‘smuovere’ le acque, non poteva che essere immediato e viscerale.

Un muro sonoro memore, non a caso, dello shoegaze e del noise degli anni ’90, che si innalza e si estende fino a restituire suggestioni grunge e post e momenti esplicitamente metal.

Le parole sono quelle che spesso vengono dette in questi frangenti: un’osservazione cinica della realtà, tra precarietà lavorativa, una società che spesso ignora il merito, raffronti generazionali, tentativi di fuga, la ricerca del denaro e degli ‘oggetti’ fino alle più estreme conseguenze, il lento spegnimento delle città di provincia; dal lato interiore, la difficoltà dei rapporti con gli altri e spesso con sé stessi, la pervasività dei social network e l’esortazione a conservare la propria individualità; in mezzo, un omaggio alla hendrixiana ‘Voodoo Child’.

Un lavoro diretto, suoni che colpiscono duro e parole che vanno dritte al punto.