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IXIA, JUST JAKE, REVMAN, IL RE TARANTOLA, FACTANONVERBA, DONSON, GRID, FUSCO, MONALISA, CORPOCELESTE: SINGOLI

IL SINGOLO DELLA SETTIMANA

Ixia
Tutto ebbe inizio
Maqueta Records / Artist First
Poi improvvisamente ti capita un brano come questo e meno male che c’è qualcuno che riesce ancora a evadere dal minimo quotidiano e metterci un po’ di fantasia.
Patrizia Ceccarelli ha cominciato con l’hip hop, prima di innamorarsi a tutto il mondo legato alle leggende celtiche, musica compresa, assumendo il nome di Ixia, prima nei giochi di ruolo, poi nel suo lavoro di cantante.
Così, dopo aver pubblicato qualche anno fa un primo lavoro in inglese, “Catherine”, incentrato sul viaggio di una donna che vuole ‘schiarirsi le idee’ sui due spasimanti che le corrono dietro, e in attesa di un secondo disco, ecco la sfida di reinterpretare e in parte reinventare quel primo lavoro in italiano.
Azzardo, considerato che la musica centurione qui da noi non è certo in cima alle classifiche, pur potendo contare su un certo zoccolo duro di appassionati.
‘Tutto ebbe inizio’ ci narra ovviamente l’inizio della storia, coi suoni tipici del genere, mescolando suggestioni folk con vaghe allusioni progressive che fanno da contorno a una dolcezza vocale che è l’elemento dominante del brano. Che la voce in questione appartenga a chi ha la bellezza eterea di un personaggio uscito da qualche leggenda, è dettaglio magari marginale, che però completa il ‘quadro’.
Insomma, si può dire che bello che ogni tanto arriva chi ci porta in altre epoche, altri mondi?

GLI ‘ALTRI’

Just Jake
Adone e Afrodite
Cosmophonix Artist Development / Artist First
Sebbene somigli a un mero pretesto per raccontare una storia d’amore totalizzante quanto fugace che al suo termine lascia le consuete macerie emotive, va comunque apprezzato il riferimento mitologico, segno che ogni tanto i giovani artisti di oggi riescono a riversare in brano troppo spesso volti al rapido consumo qualche riferimento colto.
Ugualmente apprezzabile l’idea di girare un video in in teatro antico, non ho capito quale, con tanto di tanti di statue che sembrano osservare impassibili l’esibizione del giovane Just Jake, calabrese di origine, emiliano di adozione.
Siamo di fronte a una proposta abbastanza consueta, un pop con qualche suggestione latina che tende a scivolare verso rap e varie derivazioni, col contorno del solito ‘effetto’ applicato alla voce.
Le parole non spiccano per originalità, ma resta comunque la scelta di location e titolo, che se non altro mostra la volontà di ampliare l’orizzonte culturale.

Revman
Tra di noi

Poliziotto di professione, rapper per vocazione, Sebastiano Vitale da Palermo ha scelto la”Giornata internazionale contro l’omofobia, la biofobia e la transfobia”, per pubblicare il suo nuovo singolo, brano in cui una dedica sentimentale si mescola un messaggio sulla singolarità e specialità di ognuno, ampliando il proprio a un messaggio di comprensione tra gli esseri umani, al di là qualsiasi differenza.
Non è un caso quindi che nel video sia presente un abbraccio tra ragazzi vestiti con le bandiere di Russia e Ucraina.
Rap – pop discretamente orecchiabile, ma l’importante è il messaggio.

Il Re Tarantola feat. Spasio Derozer
Aiutiamoli a casa loro comprando le loro lauree
Il Piccio Records / Artist First
Pezzo che in origine doveva chiamarsi ‘Trota’… se cercate ‘laurea Trota’ su Internet, capirete tutto.
Un sano brano di punk rock, proposto da Manuel Bonzi, non un novellino (tre dischi e un EP all’attivo), in collaborazione con Spasio Derozer che dell’omonima band è il batterista, ma qui interviene ai cori.
Registrato a casa propria durante la clausura collettiva di due anni fa, dipinge con chitarre sferraglianti quadro in cui talvolta si immaginano lavori improbabili, per poi prendere atto che chi li fa sul serio, arriva fa qualche parte: le lauree sono materiale da compravendita…
Ogni tanto, ci vuole.

Factanonverba
Impossibile
Red Owl
Attivi, con alterne fortune, dalla seconda metà degli anni ’90, Marco Calisai e Paolo Vodret, sardi di Sassari, tornano con un rock alternativo con qualche venatura noise che invita a non guardarsi indietro, a rimpiangere il tempo magari sprecato, e a fermarsi a riflettere sulla necessità di un rapporto migliore e più ‘sano’ col tempo stesso.

Donson
Facile
Artist First
Si respira già aria d’estate, in questo nuovo singolo di Andrea Domini, alias Donson.
‘Facile’, ma ‘facile’ non è, il quotidiano coi suoi piccoli / grandi problemi, a cominciare da quelli sentimentali.
Pop sintetico, tinte solari, umori malinconici.

Grid
Nomade
Cosmophonix Artist Develpoment / Altafonte Italia
‘Nomade’ come simbolo di libertà: “Ho bisogno di cambiare quando chiama il vento”, canta (rtndendo all’hip hop) Fabiana Mattuzzi da Padova, con tutta la vitalità dei suoi vent’anni e anche una certa ‘consapevolezza’: già qualche singolo all’attivo, ma soprattutto un percorso avviato fin da ragazzina.
Libertà di percorrere la propria strada, viaggiare fisicamente, ma forse soprattutto interiormente…
Un pop dalle tinte estive che non rinuncia a una componente di ‘seduzione’: Grid è una bella ragazza e lo dimostra (senza esagerare) con la complicità di un video tipicamente ‘balneare’.

Fusco
Comfort Zone
Franco Fusco, o semplice Fusco, nel suo nuovo singolo invita l’acoltatore a muoversi e lasciare la sua ‘zona di conforto’.
Invito, diciamocelo, di questi tempi un po’ banalizzato, come se tutto dipendesse solo ed esclusivamente dal singolo e non da tutta un’altra serie di fattori che riguardano – in certi casi, purtroppo – il vivere all’interno di ‘gruppi sociali’ coi quali alla fine bisogna fare i conti…
La sostanza del messaggio può essere quindi più o meno condivisibile, la forma, un rock arioso a là Foo Fighters può risultare gradevole.

Monalisa
Fruit Joy
Gotham Dischi
Tormenti personali e pene d’amore dei trentenni di oggi, in questo singolo del trio dei Monalisa; l’incapacità di adeguarsi nei tempi attuali porta a rifugiarsi nel passato, nelle estati della propria infanzia, quando tutto sembrava più semplice…
Concetti non nuovissimi, espressi con un pop-rock dalla facile presa.

Corpoceleste
Oblio
Massimo Bartolucci, un paio di singoli all’attivo, sceglie ‘Corpoceleste’ come pseudonimo per il suo nuovo progetto, inaugurandolo con questo singolo.
Un fantasma è la presenza silenziosa del video simbolo, forse, di tutti coloro che vorrebbero essere ‘altro’ da ciò che sono e, non riuscendovi, finiscono in esistenze evanescenti, consegnandosi, appunto, all’oblio.
Pop con qualche aspirazione cantautorale, che per suoni e stile vocale fatica a discostarsi da tante altre proposte del genere: del resto Corpoceleste è giovane e ha ancora tempo per trovare un proprio stile.

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RICHARD BENSON (1955 – 2022)

Tutti, più o meno, abbiamo una sorta di ‘pantheon’, costruito tra l’adolescenza e i vent’anni, fatto di volti e parole: personaggi che tornano poi ogni tanto per gli anni e i decenni a seguire nelle battute, nei ricordi, nelle imitazioni.

Chi è stato giovane e giovanissimo a Roma negli anni ’90, soprattutto chi ascoltava metal, prima o poi si sarebbe imbattuto, sulla rete locale TVA 40, in “Ottava Nota”, trasmissione di novità discografiche condotta da un singolare personaggio il quale, come si dice ‘non la mandava a dire’, demolendo – talvolta letteralmente – il disco di turno, elevando, all’opposto, il tal chitarrista al rango di ‘mostro’, addentrandosi in interminabili disquisizioni su formazioni, biogafie, etc…

Già all’epoca il personaggio non era del tutto sconosciuto: qualcuno ne poteva ricordare gli sparuti trascorsi come musicista o le apparizioni nei programmi di Arbore; Verdone, che è un formidabile osservatore, capì prima di tanti le potenzialità del personaggio e lo portò sul set di “Maledetto il giorno che t’ho incontrato”.

Con Richard Benson, insomma, siamo cresciuti, anche assistendo, purtroppo, a un declino passato attraverso un grave incidente dai contorni mai chiariti, spettacoli dal vivo in cui il nostro si prestava al ludibrio generale, apparizioni televisive volte solo ad esaltarne gli aspetti più oltre le righe, fino alle tristi comparsate in un noto programma del pomeriggio.

Dispiace perché sembrava che negli ultimi tempi Richard Benson stesse tornando un po’ alle origini: l’aspetto sembrava migliorato, c’era, sembra, finalmente un disco ‘serio’ in fase di progettazione.

Avrebbe meritato altro percorso: non so quanto scientemente l’abbia voluto lui e quanto, purtroppo, il ‘sistema’ abbia cercato solo le urla, senza andare oltre: la cultura musicale era indiscutibile, ma il metal, il progressive e in generale la musica pop – rock suonata da chi sa suonare raramente viene considerata.

Resta quel filo di amarezza e tristezza per un pezzetto dei propri vent’anni che se n’è andato.

CIRCOLO LEHMANN, “IL RE DELLE LEPRI” (LIBELLULA MUSIC)

Secondo lavoro sulla lunga distanza (terzo, contando il disco dedicato a Leonard Cohen, in collaborazione con il trio degli Archimedi) per il quartetto piemontese.
Un concept album, o quasi: al centro dei 13 brani la vicenda di un uomo che ‘nel mezzo del cammin…’, si potrebbe dire, si ritrova a un punto morto, fresco di un fallimento sentimentale e con un lavoro asfissiante.
Il nostro intraprende quindi un viaggio fisico e spirituale, alla ricerca di quella che viene definita una ‘decrescita esistenziale’, prendendo le mosse da un racconto dell’argentino Federico Falco, da cui il disco prende il nome, e dalle riflessioni dei filosofi Zygmunt Baumann e Serge Latouche.
L’esito finisce per essere radicale: intraprendere una vita da eremita appare l’unica strada per la riaffermazione di sé in rapporto a sé stessi, in contrapposizione a una società in cui questa affermazione passa ormai esclusivamente attraverso il confronto con gli altri.
Confronto che peraltro diventa spesso ‘competizione’, svolta magari sui ‘social’, se non vera e propria prevaricazione.
Una serie di tematiche e riflessioni svolte in modo per lo più indiretto, a tratti con riflessioni scarne, giustapposte, talvolta ai limiti del flusso di coscienza: è un disco cantato soprattutto ‘tra sé e sé’.
La proposta sonora, a suo modo variegata, si snoda all’insegna di un indie dalle venature folk, spesso e volentieri a ‘bassa fedeltà’, in cui l’uso di effetti, echi e riverberi finisce quasi per ‘distanziare’ voci e suoni dalla ‘realtà circostante’, come se venissero da un vago ‘altrove’.
Non mancano episodi più volti verso il rock, o a un pop vagamente sghembo.
Un lavoro a suo modo ‘denso’, in cui certi momenti ellittici portano l’ascoltatore a fermarsi, a riflettere, opera che trova il proprio culmine nella title track, una ‘suite’ in tre movimenti che anche solo per la lunghezza non può non restituire sapori ‘progressive’.

BRANDES, “MELTINGPOT” EP (AUTOPRODOTTO / LIBELLULA MUSIC)

Un EP che alla fine è quasi un full length (nove brani, quasi mezz’ora di durata) è l’esordio di questo giovane quintetto milanese.

Il ‘Meltingpot’ del titolo rappresenta la volontà di mescolare i generi e i variegati riferimenti dei componenti della band. Il disco sembra però muoversi su due coordinate dominanti: da un lato un più immediato pop rock venato di indie, dall’altro una maggiore complessità fatta di riferimenti ‘classici’ che si spinge a sfiorare territori prog, e che più spesso ricorda certe soluzioni adottate dai Muse.

Giungere a una sintesi efficace non è facile, un particolare per una band agli inizi e qua e là la fusione appare un po’ forzata, come se certe digressioni strumentali siano quasi giustapposizioni, più che sviluppi organici. Qua e là c’è forse qualche ‘barocchismo’ di troppo. I testi sono volti per lo più interiorità:si parla di conflitti, ‘fughe’ (magari solo immaginate o sognate), momenti di maturazione. Lo sguardo verso il mondo esterno è affidato a brano dal sapore ambientalista.

L’obbiettivo non era facile,  l’uso di elementi ‘colti’ è sempre un’arma a doppio taglio: nell’esito si mescolano limiti e potenzialità.

SIMONA ARMENISE – ARES TAVOLAZZI, “LOTUS SEDIMENTATIONS” (NEW MODEL LABEL)

Secondo capitolo della collaborazione tra la chitarrista barese e il bassista conosciuto universalmente per il suo lavoro con gli Area.

Così come il lavoro precedente “Oru Kami”, targato 2016, anche in questo caso il progetto resta ancorato alla cultura giapponese: il titolo esteso include la traduzione nipponica, “Hasu No Chikuseki”, e in giapponese sono anche i titoli dei singoli brani, mentre il fiore di loto è un forte elemento della cultura del ‘Sol Levante’, come simbolo di e conoscenza interiore.

Non poteva essere altrimenti, del resto, trattandosi di un disco ‘di ricerca’: nove composizioni, interamente strumentali, in cui la Armenise esplora le possibilità espressive della chitarra, attraverso monologhi, dialoghi a due o tre con basso, elettronica e percussioni (curate da Vito Pesole), il ricorso ad accordature inusuali o all’archetto.

L’esito è un disco liquido, che getta l’ascoltatore in una dimensione per lo più onirica, che induce al galleggiamento, a un ascolto ‘da riempire ‘ col proprio senso’.

A cavallo tra ambient, prog, e derive psichedeliche, nel senso di una sperimentazione che non diventa mai esercizio di stile, conservando intatto il rapporto emotivo con chi ascolta, accendendosi improvvisamente sul finale, con colori più accesi e suoni più duri.

THE FENCE, “EVERYDAY” (NEW MODEL LABEL / AUDIOGLOBLE)

Veneziani, nati come quartetto e successivamente ampliatisi con l’arrivo di un tastierista, i The Fence raggiungono l’importante traguardo del primo disco ‘lungo’, dando seguito a un precedente EP.

Dieci brani all’insegna di un rock che non necessita di troppi aggettivi, saldamente ancorato nella ‘tradizione’, nei classici degli anni ’70, tra ‘omaggi’ (qua e là sembrano affacciarsi i Queen, i Pink Floyd, la scuola prog, italiana e non solo) tutto sommato inevitabili e tentativi di di ‘attualizzare’ certe sonorità.

Un tempo lo si sarebbe chiamato’aor’- adult oriented rock, definizione adatta a un hard rock che evita ogni ‘esagerazione’ per mantenere una certa gradevolezza d’ascolto.

Interamente cantato in inglese, “Everyday” veleggia tra momenti accesi e parentesi più tranquille, non disdegna qua e là un approccio più pop, con testi che, come suggerisce il titolo, affrontano il ‘quotidiano’ nelle sue varie sfaccettature.

Talvolta si ricorre a soluzioni un po’ troppo ‘di maniera’, pur rimanendo un ascolto nel complesso gradevole.

JURI, “ESTETICA” (NEW MODEL LABEL – CONSORZIO ZDB)

‘Estetica’ come ‘esperienza emotiva’, in contrapposizione al, concetto oggi prevalente, di puro insieme di ‘dati formali’.

I non avvezzi alla filosofia potranno trovare ostico il concetto, tuttavia ogni tanto c’è anche bisogno che qualcuno rifletta sulle motivazioni del ‘fare musica’.

È il caso di Juri Panizzi, chitarrista e compositore con vari progetti e collaborazioni all’attivo (tra cui Gianni Nocenzi del Banco del Mutuo Soccorso).

Qui lo troviamo in quattro lunghe composizioni (in un caso si superano i 14 minuti ( per chitarra solista – elettrica e acustica – con isolati inserti si synth e piano, il ricorso alla loop station, l’utilizzo di registrazioni ‘d’ambiente’.

Varie le suggestioni di partenza: l’abbandono della macchina per immergersi nella natura, la forza dirompente del sopraggiungere di un’idea, la necessità che a volte si presenta di un taglio netto col passato e una storia d’amore, ispirata a “La leggenda di Olaf” di Roberto Vecchioni.

Disco dilatato, ‘ambient’ è termine abbastanza immediato, con allusioni blues e qualche reminiscenza prog.

Varie soluzioni tecniche – l’uso dell’archetto, l’alternanza tra i canali stereo, il ricorso ad accordature alternative – accrescono la varietà della grana sonora del disco.

Uno di quei lavori dai quali lasciarsi avvolgere ancora più che in altre occasioni, anche per dare compiutezza all’obbiettivo di ‘esperienza estetica’ voluto dall’autore.

ANDREA PELLICONE VAN GOGH PROJECT, “CRIXSTRIX SUITE” (NEW MODEL LABEL)

Sette pezzi sono il primo risultato di questo nuovo progetto del cantante e polistrumentista Andrea Pellicone.

Un concept, incentrato sulle vicissitudini di un alieno – che dà il nome al titolo – alla ricerca di nuovi pianeti.

Siamo in pieni territori prog, con accenni alla ‘scuola di Canterbury’, in parte alla felice stagione del progressive di casa nostra e, immancabilmente, vista l’ambientazione ‘spaziale’, riferimenti al rock ‘cosmico’ degli Hawkwind.

Un disco per chitarre e tastiere, prevale la componente strumentale, gli interventi vocali,’filtrati’, hanno un piglio quasi narrativo.

Cavalcate arrembanti e momenti di maggiore tranquillità vanno a comporre un lavoro che rifugge la tentazione di un eccesso di ‘vintage’ per mostrare, in fondo, come certe formule conservino ancora oggi una loro validità.

CINQUE UOMINI SULLA CASSA DEL MORTO, “KAIRÒS” (AUTOPRODOTTO / LIBELLULA MUSIC)

Nell’antica Grecia, ‘Kairós’ era un particolare concetto di tempo, legato all’azione, traducibile, alla lontana, come ‘occasione’, ‘opportunità’. Concetto che sembrerebbe adattarsi bene all’idea dell’uscita, di un lavoro – il secondo, per i friulani (di Cividale) Cinque Uomini Sulla Cassa Del Morto – che assume una certa importanza.

Il quintetto ha apportato alcune correzioni alla propria formula, continuando certo a prediligere la strumentazione acustica, legata alla matrice folk, inserendo con parsimonia elementi elettronici, dando vita a un lavoro per lo più orientato a un rock la cui componente acustica riporta a vaghe ascendente country, guardando talvolta a una certa tradizione italiana, anche con qualche allusione prog, pur senza sottovalutare il lato ‘pop’ della questione, senza eccessivi ammiccamenti.

Lavoro che nasce – dichiaratamente – più che mai come disco d’insieme, in cui i cinque componenti hanno forse provato a ‘scavare’ maggiormente nel proprio vissuto, anche a seguito di certe critiche di eccessiva ‘leggerezza’; i temi sono comunque ‘canonici’: frequentemente si va a ‘sbattere’ sui sentimenti e le complicazioni annesse, con qualche parentesi dedicata all’introspezione, allo sguardo al tempo che passa, alle scelte, alle occasioni perse, alle opportunità, e qui si ritorna al titolo del disco.

Un lavoro corposo, che non si risparmia: 13 pezzi per quasi un’ora di durata non sono poi frequentissimi, per un’autoproduzione.

Un lavoro che si lascia ascoltare.

ARCANO 16, “XVI” (AUTOPRODOTTO / LIBELLULA MUSIC)

Il nome – e il titolo del disco – l’hanno preso dai Tarocchi (il XVI Arcano – per chi se ne intende – è La Torre).

Questa del quartetto piemontese, qui al primo disco, così come la copertina, sembra rimandare vagamente al filone del prog italiano degli anni ’70, e in effetti qualcosa di ‘progressivo’, nei dieci pezzi presenti, si intravede, o meglio: ‘intrasente’.

Intendiamoci: nessuna ‘suite’ di stampo classico, né voli pindarici di sperimentazione; semmai una certa attitudine alla ‘complicazione’, alla non linearità di brani che si svolgono all’insegna di continui cambi di umore e andamento, con un alternarsi di quiete e ira non così prevedibile.

Non viene lasciata fuori dalla porta una certa sensibilità pop che permette alla band, pur in una proposta non certamente ‘easy listening’ , di mantenere vivo il contatto con l’ascoltatore.

Un disco dai tratti psichedelici, schegge di furore elettrico, elettronica post-industriale, parole spesso gridate a dare voce a incomunicabilità e disorientamento, in quello che alla fine risulta uno strano ibrido, come se il Bugo degli inizi avesse guidato i primi Bluvertigo.

Lavoro obliquo, che procede per vie traverse, preferendo vicoli dal fondo sconnesso e le mura sbrecciate a strade lastricate di fresco.

Proposta che incuriosisce e si fa apprezzare in questo suo voler evitare percorsi ‘facili’.