Quattro anni di attività e oltre 250 concerti, aprendo o condividendo i concerti di un elenco di nomi che va da Rita Pavone agli Eiffel 65, da Peppino Di Capri ai Tre Allegri Ragazzi Morti: una robusta gavetta che porta il trio marchigiano dei Capabrò (il nome deriva dalle iniziali dei rispettivi cognomi) alla meta dell’esordio sulla lunga distanza.
Siamo nel nobile filone di ‘quelli che non si prendono troppo sul serio’, preferendo farsi due risate di fronte ai paradossi della vita e della società, piuttosto che intristirsi guardandosi le scarpe.
Otto pezzi (nove, contando un breve intermezzo) che tengono sempre alto il ritmo, tra marcette irridenti, walzer alticci, suggestioni sudamericane, che evocano la ‘scuola milanese’ di Cochi, Renato e Jannacci da un lato e il Rino Gaetano più sarcastico dall’altro.
L’automobile come oggetto di autoerotismo (strizzando l’occhio a Ballard); la ‘rivoluzione’ ai tempi dei ‘social’, immaginata al riparo di un touch screen; il sorriso – o il ballo – come antidoti metaforici e non al grigiore della vita quotidiana; l’amore ‘intergenerazionale’ (pure troppo…); cani ‘difettosi’, libertà presunte e un pezzo finale che parla d’amore con un ghigno sardonico nei confronti del ‘canone’ della canzone italiana.
I Capabrò ci offrono una mezz’ora di sano divertimento, ideale per cominciare la giornata.