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FERNANDO FIDANZA, “OLD FOLK FOR NEW POETS” (NEW MODEL LABEL / AUDIOGLOBE)

Nasce un po’ per caso e un po’ per noia, magari nel corso di certi apatici pomeriggi che quasi tutti abbiamo vissuto nel corso del lockdown, questo progetto di Fernando Fidanza, che ha musicato 13 testi inviatigli da altrettanti poeti.

Romano, classe ’76, Fidanza ha vissuto 14 anni in Cina, scrivendo colonne sonore, pubblicando un lavoro con la sua band creata lì e girando in lungo e in largo per il Paese… che dato che parliamo della Cina significa più o meno aver attraversato un continente.

Lo ritroviamo a Roma, in piena ‘clausura’ a sperimentare appunto la sonorizzazione di una poesia del fratello Luca. Parte da qui l’idea di estendere l’esperimento a un progetto più corposo, ottenendo il riscontro positivo di una manciata di poeti, per un progetto il cui titolo mescola appunto la ‘nuova’ poesia, al ‘vecchio’ folk, inteso più come attitudine e scelta di vita basata sul viaggio e sull’incontro col prossimo.

I tredici brani presenti sono per lo più orientati a una dimensione acustica o semiacustica, in cui l’elettricità è presente, ma con discrezione e isolatamente prende il sopravvento, in episodiche parentesi più volte al rock.

Forse non poteva essere altrimenti, dato che i testi poetici necessitavano comunque di un adeguato risato; dominano le chitarre, che si stagliano su ritmiche essenziali e qualche vago effetto di sottofondo.

Se l’indole ‘metallara’ di Fidanza, che cita Iron Maiden, Metallica e Slayer tra le proprie influenze, non appare immediatamente percettibile (forse giusto in qualche vaga melodia che starebbe bene anche su qualche ‘ballata’ del genere), più evidente è invece l’influenza dei Pearl Jam più acustici e quella di Guccini, in particolare in un cantato che sovente si fa quasi discorsivo.

Testi poetici (per pura statistica segnalo che tra gli autori presenti si contano sei poetesse) per lo più volti a un certo intimismo.

La riflessione finale è che se certo, da un lato, l’obbiettivo era quello di affiancare un ‘vecchio’ da non intendersi come il proverbiale ‘classico indiscutibile’ e il ‘nuovo’, da non intendersi come ‘nuovismo’ e se l’intento era quello di superare certe diffidenze personali che caratterizzano il mondo dell’arte, impedendo di ‘fare fronte’ verso uno scopo, dall’altro mi pare che l’esperimento rappresenti il tentativo di trovare un terreno comune tra musica e poesia.

Non che non sia già stato fatto in passato, intendiamoci, ma spesso c’è questa idea secondo cui la poesia sia sempre un gradino sopra la canzone: spesso per lodare un cantautore si dice: “Quello non è un cantante, è un poeta” come se il fatto di scrivere testi destinati ad essere accompagnati, o ad accompagnare, la musica, sia in qualche modo squalificante.

In questo caso i testi nascono probabilmente in maniera autonoma e il lavoro sonoro è successivo, ma l’esperimento è comunque riuscito.

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GAPPA, “PASSEGGERI” (PRIVATE STANZE / NEW MODEL LABEL / AUDIOGLOBE)

Psichiatra, cantautore e scrittore, Giuseppe Palmieri, in arte Gappa, ha percorso una strada artistica che lo ha portato a collaborare con Guccini, mentre col progetto Psicantria ha unito i due mondi.

“Passeggeri”, secondo lavoro sulla lunga distanza, è un disco più personale e squisitamente cantautorale.

Si parte col mito platonico de ‘La Caverna’, riflessione sulla libertà e sul coraggio di chi magari sceglie di abbandonare apparenti ‘sicurezze’ per andarsela a conquistare; si chiude con ‘Siddharta’e la sua illuminazione: forse due ‘eccezionalità: chi il viaggio intraprende, chi lo porta a termine: in mezzo, le persone normali, i ‘Passeggeri’ del titolo, con le loro esistenze spesso dominate dall’incertezza e magari dal tentativo di resistere di fronte a ciò cui la vita li mette di fronte, trovando sicurezze nei sentimenti, nell’amicizia, nella famiglia: commuove la dedica di ‘E cammina, cammina, cammina’ con tanto d’intervento della figlia. Esortazioni migliorare il mondo per le generazioni future, una dedica alla natia Modena colpita da terremoto del 2012.

Sprazzi blues e ballate rock, un’impronta per lo più semiacustica, vena cantautorale con echi della tradizione, ma con uno stile discretamente personale.

L’AVVERSARIO, “SANGUE SANGUE” (NEW MODEL LABEL / AUDIOGLOBE)

Il varesino Andrea Manenti, cantante e polistrumentista, pubblica il suo secondo lavoro con lo pseudonimo de L’Avversario.

Il titolo è per nulla rassicurante, i riferimenti letterari espliciti – che fin dall’inizio caratterizzano l’opera dell’autore – vanno da Schopenhauer a Houellebecq, passando per Sartre, lasciando così intuire come i cinque pezzi che compongono il disco siano improntati a una visione non proprio ottimista della realtà attuale.

Non che in realtà vi sia molto di esplicito: sono frammenti, di conversazioni e di esistenze smarrite, prese in una nebbia reale o metaforica, vissute all’insegna di rapporti ‘pratici’, spesso ‘burocratici’ – non a caso, si citano il commercialista, l’avvocato – che ovviamente non portano a nulla, all’interno di città che ‘stanno male’.

Il ‘sangue’ del titolo appare alla fine un oscuro presagio, un fiume sotterraneo pronto a esondare travolgendo le fragili certezze su cui si basa una società piena di contraddizioni.

Un lento fluire come quello dei suoni, trainati dalle note di un piano da club notturno, chitarre riverberate, atmosfere che ricordano la musica da film di Sakamoto,

La voce filtrata, l’uso del ‘famigerato’ autotune, rappresentano una scelta stilistica volta a bilanciare il calore degli strumenti con una sorta di spersonalizzazione.

Accompagnato da Andrea Tsuna Tomassini (chitarra), Ivan Schapira (batteria) e Francesca Tavino (basso), Manenti – ‘L’Avversario’ dà vita a un lavoro che, pur nella descrizione di un mondo in cui prevale la solitudine, riesce ad essere avvolgente e tutt’altro che’freddo’ od emotivamente distaccato.

 

LE PICCOLE MORTI, “VOL.1” (NEW MODEL LABEL / AUDIOGLOBE)

Attivi in fase embrionale dal 2010, due dischi sfornati a nome Old Scatchiness, i cinque componenti de Le Piccole Morti aprono una nuova fase della loro biografia sonora con questi cinque brani.

Definiscono la loro proposta ‘Noir Rock’, che nei fatti finisce per essere un nuovo modo di catalogare ciò che si radica nel filone dell’alternativo italiano più o meno recente, dai primi Litfiba agli Afterhours, passando per i Timoria: ricorre un’atmosfera plumbea, dai tratti decadenti con qualche suggestione gotica, a definire rapporti sentimentali e con sé stessi sempre travagliati. Si gioca la carta del ‘non detto’, con testi che accennano al flusso di coscienza, un affastellarsi di pensieri.

Si parte con la wave, si prosegue con ardori che sfiorano il metal, si conclude con una vena cantautorale che ricorda gli Afterhours. I tentativi di ‘articolare’, inserendo qualche elemento jazz restano soprattutto nelle intenzioni, o in certe atmosfere notturne.

Musicisti rodati, e si sente, avvertendosi anche la necessità di una maggiore focalizzazione stilistica.

GASPARAZZO BANDABASTARDA, “PANE E MUSICA” (NEW MODEL LABEL / AUDIOGLOBE)

Giungono all’ottavo disco gli scavezzacollo della ‘Banda Bastarda‘ che in tempi complicati sembrano voler andare al ‘nocciolo’ alle cose iMportanti: “Pane e Musica”, appunto e tanto basta.

Lo fanno coi loro consueti modi scanzonati, ludici ma senza lasciare a casa l’impegno.

Un disco che ci riconsegna la solita scorribanda tra i generi: reggae, spezie balcaniche, la canzone popolare italiana, funk e calypso.

I sei musicisti che coprono lo Stivale, dalla Puglia all’Emilia passando per l’Abruzzo, omaggiano Scola e il calciatore antifascista Bruno Neri, scrivono odi alla ‘O’ (intesa come vocale) e alla ‘Patata’ (intesa come tubero, ma anche altro volendo) inni allo za’vov, un tributo al poeta curdo Hisam Allawi

Un disco solare e dai colori vivaci, che invita al movimento, coprendosi improvvisamente di nubi minacciose sul finale, quando il preoccupato sguardo sulla realtà quotidiana di casa nostra prende il sopravvento.

ELLEN RIVER, “LOST SOULS” (NEW MODEL LABEL / AUDIOGLOBE)

Lei si chiama Elena Ortalli, ma ha scelto l’alias di Ellen River, quasi a voler identificarsi con quel ‘fiume’ che è uno dei classici ‘luoghi dell’anima’ della musica popolare americana, dal folk al blues fino ad arrivare al rock.

Tradizione in cui Ellen si è totalmente immersa, avviando un viaggio (o forse una navigazione) che la porta ora al secondo lavoro sulla lunga distanza.

“Lost Souls”, anime perdute: un altro topos dell’epica d’oltreoceano, che evoca locali fumosi o sperdute tavole calde lungo le ‘highways’; esistenze ai margini, solitudini urbane, i rapporti con gli altri, perdite; ma anche la natura come presenza salvatrice.

Elena / Ellen dà vita a otto pezzi intensissimi, radicati nella nobile tradizione del cantautorato d’oltreoceano, in fondo inutile citare i riferimenti, intuibili e scoperti.

La accompagna in questo viaggio una band di prim’ordine: Antonio ‘Rigo’ Righetti, Mel Previte e Roby Pellati calcano la scena rock italiana da un quarto di secolo abbondante, tra i Rocking Chairs e la lunga collaborazione con Ligabue e mettono arte ed esperienza a sostegno della più giovane, ‘Ellen’, idee chiare, sentimenti e spesso grinta per personalità e stile già ben delineati.

GIUSEPPE FIORI, “SPAZI DI VITA SCOMODI” (DISCIPLINE / AUDIOGLOBE)

Dopo aver partecipato al progetto Rezophonic (una ‘All-Star’ benefica che raccoglie nomi del calibro di Caparezza, Roy Paci e Cristina Scabbia, giunta al terzo disco) ed essere entrato a far parte degli Egokid, il ‘bassista e non solo’ Giuseppe Fiori si cimenta nella prima prova solista.

Gli “Spazi di vista scomodi” sono quelli con cui più o meno tutti prima o poi hanno a che fare: le delusioni e insoddisfazioni quotidiane, i rimpianti, il disagio più o meno accentuato derivante da modi, stili, dinamiche di vita ‘subite’ o forse ‘accettate’ fin troppo supinamente, senza dimenticare le piccole / grandi traversie sentimentali; il contrasto, in fondo, tra ciò che si è come si vive e come in fondo si vorrebbe, che spesso produce – come mostra la copertina firmata Roberta Maddalena Bireau – una mente e un’esistenza ‘a compartimenti stagni’ in cui spesso la ‘facciata’ non corrisponde all’interno.

Prima o poi i nodi vengono al pettine, qualcosa si rompe, ed è necessario pervenire a un cambiamento: la soluzione è allora la fuga, mentale o fisica, immaginaria o reale; affidarsi al Caso, abbracciare fino in fondo una scelta – in questo caso quella di suonare, allo stesso tempo giocando (partendo dal duplice significato del verbo inglese ‘to play’); e anche in questo caso, l’amore può costituire uno stimolo, una spinta verso il cambiamento.

Temi per lo più ‘universali’, almeno in questa fase ‘sociale’, in cui il senso di ‘indefinitezza’ riguarda tanti 30 – 40 enni, cresciuti più o meno loro malgrado con una certa idea di futuro… solo che quando il ‘futuro’ è arrivato, quelle ‘idee’ e quei ‘disegni’ si sono rivelati più o meno erronei.

Divagazioni socio – storiche a parte, Giuseppe Fiori dà a questi concetti una veste tendente a un rock abbastanza ‘tradizionale’, a tratti discretamente sanguigno (qua e là con qualche accentazione new wave) cercando qua e là, nello scorrere dei dieci brani presenti, di dare un certo risalto al lato cantautorale della faccenda e senza dimenticare qua e là una certa gradevolezza pop.

Coadiuvato da un manipolo di collaboratori, tra i quali Lele Battista, qui anche in veste di produttore, Andy dei Bluevertigo e il thereminista Gak Sato, già al lavoro con Vinicio Capossela, Giuseppe Fiori assembla un disco lungo il quale a tratti si cerca forse di smussare un po’ troppo certi spigoli, mentre a mostrare maggiore efficacia sono proprio i brani più ‘tirati’

TWOAS4, “MAREA GLUMA” (LIBELLULA MUSIC / AUDIOGLOBE)

Secondo lavoro per la creatura del cantante e chitarrista Oscar Corsetti accompagnato da Alan Schiaretti e Luminita Ilie.

Si prendono le mosse dal precedente lavoro, “Audrey in Pain English” , e non solo da un punto di vista cronologico: la continuità, anche concettuale, è sancita dalla title – track, versione in rumeno del brano conclusivo del disco precedente.

Un lavoro che rappresenta la componente sonora di un progetto multidisciplinare che include la scrittura, attraverso il racconto incluso nel booklet, una sorta di taccuino di riflessioni e appunti ‘di vita’, forse un po’ difficile da fruire, viste la ridotta dimensione dei caratteri, e la grafica, con una serie di quadri – eseguiti con varie tecniche – che accompagnano quel testo.

Un disco stratificato, per un verso strettamente legato all’attività dal vivo della band, tra rielaborazioni del proprio repertorio, prime esecuzioni in studio di pezzi abitualmente suonati nei live e che per l’altro riprende idee e materiali anche abbastanza remoti.

Disco dalla gestazione in parte complicata – Schiaretti (batteria e tastiere) ha abbandonato il progetto, anche se dopo aver comunque suonato le proprie parti – in parte arricchita dalla partecipazione di alcuni ospiti esterni, a cominciare da Andrea Bergesio ( Ezio Bosso, Eskinzo, Marco Notari) e dal suo apporto essenziale in sede di elaborazione del materiale di partenza passando a Stefano Vivaldi, in passato bassista nei Baustelle, il cantante, musicista e videomaker londinese Jon Roseman (già al lavoro con Dylan, Rolling Stones, Queen).

Undici brani, caratterizzati da un approccio multilingue, tra inglese, italiano e il rumeno di Luminita Ilie, in cui si mescolano new wave e no wave, post punk e art rock; con un cantato che più volte si avvicina al parlato (vengono in mente i ‘soliti’ Massimo Volume e Offlaga Disco Pax) e che nel suo snodarsi trasmette l’impressione di trovarsi, più che di fronte a un semplice disco, a una sorta di installazione, di performance, in questo ricordando a tratti i primi CCCP.

Frustate elettriche, abrasioni, accenni industriali, passando per una cover obliqua di ‘I wanna be your dog degli Stooges’, e sfocando nella rilettura post apocalittica dell’’Ave Maria’ di Gounod.

Un lavoro che richiede attenzione, che tiene l’ascoltatore sulla corda, i cui mutamenti di registro linguistico costituiscono il primo elemento di stimolazione; un lavoro che vive sia nella sua autonoma identità sia nel suo essere parte del più ampio progetto che mescola suoni, parole e grafica.

CIRCOLO LEHMANN, “DOVE NASCONO LE BALENE” (LIBELLULA MUSIC / AUDIOGLOBE)

Nel 2011 il musicista Ghego Zola e lo scrittore Marco Magnone danno vita al primo nucleo del Circolo Lehmann, nome ispirato al “Il signor Lehmann”, libro dello scrittore tedesco Sven Regener; il progetto si caratterizza inizialmente per un mix tra reading, canzone d’autore, improvvisazioni; nel 2013, la mutazione definitiva in band, un trio formato dallo stesso Zola, e in seguito la stabilizzazione nell’attuale formula a cinque membri, che qui arriva all’esordio discografico.

Banalmente, dando seguito al titolo, si potrebbe affermare che le balene nascono nel mare… l’affermazione diventa forse un po’ meno anonima, considerando che il mare appare il filo conduttore di questi undici brani (uno dei quali ‘dono’ dell’amico- collega LoSburla): è un mare che di volta fa da teatro al minimo quotidiano di relazioni sentimentali, usato come metafora della condizione dell’animo umano, ed evocato, come una sorta di ‘altra dimensione’ nel lungo strumentale dedicato a Ulisse.

Insieme a ‘mare’, la seconda parola che forse meglio descrive il disco del Circolo Lehmann è ‘ellisse’: e non è forse un caso, se proprio questo termine è trai primi pronunciati nel disco: nello scorrere dei brani, spesso dedicati ai rapporti sentimentali, tra episodi di serenità e piccoli – grandi scontri quotidiani, si fa spesso strada l’impressione di non detto – accresciuta anche dal frequente ricorso a metafore, quando non ad allegorie – c’è sempre una sorta di spazio ‘bianco’, magari accecante come quello di certe case inondate dal sole, spazio il cui riempimento è lasciato alla libera interpretazione e sensibilità dell’ascoltatore….

Il paesaggio sonoro dipinto dal Circolo Lehmann è più che mai variegato: da momenti di ‘elettricità’, anche intensa, vicina magari allo shoegaze, a dilatazioni dal sapore psichedelico, sconfinamenti quasi ambient ed episodi caratterizzati da un’impronta più spiccatamente cantautorale; una varietà di paesaggi frutto dell’analoga ampiezza della gamma strumentale: chitarra, basso e batteria, con ampi interventi di piano, tastiere e fiati, il contributo occasionale della sezione di archi degli Archimedi, della voce femminile di Susy Amerio, del produttore Andrea Bergesio.

“Dove nascono le balene” è uno di quei dischi che cresce al susseguirsi degli ascolti: rivelando progressivamente nuove sfumature, sia sonore che di senso; un disco evocativo, il cui pregio maggiore è forse quel richiedere uno sforzo in più, un contributo all’ascoltatore, portato in più di un occasione a dare ai brani il proprio significato, al propria lettura emotiva.

BIFOLCHI, “MI FAI SCHIFO MA TI AMO” (LIBELLULA MUSIC / AUDIOGLOBE)

Il secondo lavoro dei toscani Bifolchi giunge a solo un annetto di distanza dall’esordio, segno forse di una certa ‘urgenza’ – creativa e produttiva – di dare forma concreta a spunti e idee maturati nel corso di degli ultimi mesi, trascorsi per lo più esibendosi dal vivo, spesso e volentieri in compagnia di altre band dell’area maremmana / livornese: prova ne sia il cospicuo numero di ospiti che ha collaborato all’esecuzione di questi otto brani.

Disco breve, quindi, come del resto breve era stato anche l’esordio: i Bifolchi non sembrano starci tanto a pensare su, quasi che i personaggi che popolano, le impressioni, le idee, che popolano i loro lavori rischiassero di sfuggire, scappare via tra la folla.

Come il precedente, infatti, anche questo nuovo lavoro presenta personaggi e situazioni che sembrano prese a caso da un marasma circostante: dai novelli sposi del brano di apertura, al protagonista di Palloncino: un emarginato dalla società a causa del proprio fisico, ma che proprio in quello sembra trovare alla fine la forza di librarsi sopra alla cattiveria nei confronti di chi non risponde a determinati modelli; dalla fan degli Afterhours, prototipo di coloro che ‘giocano’ a fare gli indipendenti e gli ‘alternativi’ grazie ai soldi di papà ai sognatori che, nonostante tutto, non si arrendono.

Profili, spunti, caricature, tradotti in una miscela sonora che continua a strizzare l’occhio allo swing e al jazz, ma allo stesso tempo pronta a colorarsi di accenti mariachi e suggestioni circensi, a flirtare col surf e col rockabilly.

Il quartetto assembla un lavoro che, pur mantenendo una certa componente ‘ludica’, sembra caratterizzato da uno sguardo in cui il sarcasmo sembra progressivamente cedere il passo al disincanto, come se dopo tutto l’osservazione della realtà, al di là del ghigno suscitato da certi paradossi, lasci dietro di se un retrogusto amaro, come quello di certe feste di Capodanno – come quella che chiude il disco – dove tutti si sforzano di sorridere in mezzo al caos, celando dentro di se il peso della propria solitudine.