La vita quotidiana a Lampedusa ai tempi delle migrazioni: da un lato l’esistenza ‘ordinaria’ degli abitanti dell’isola, che vengono seguiti nella vita di tutti i giorni, all’insegna appunto di un minimo quotidiano; su tutti, assistiamo alle vicende del piccolo Samuele, tra i giochi, i compiti a casa, i momenti famigliari, anche le visite mediche (personalmente mi sono molto immedesimato con lui quando l’oculista gli ha prescritto la ‘benda’ per stimolare l’occhio ‘pigro’… ci sono passato anche io, da bambino, esperienza ben poco piacevole).
Parentesi dedicate alla radio dell’isola che trasmette per lo più musica di altri tempi, ascoltata spesso e volentieri da attempate casalinghe intente alle faccende domestiche.
L’altra faccia è quella degli arrivi: le operazioni di soccorso, i ‘salvati’: a volte in condizioni critiche, altre sani e salvi, a raccontare col canto le vicende che li hanno portati fino lì, altre a passare il tempo giocando a pallone in tornei ‘per squadre nazionali’; ma anche, purtroppo, i ‘sommersi’, quelli che non ce l’hanno fatta, i cadaveri a volte letteralmente ammassati.
Dopo averci mostrato la varia umanità che affolla quella sorta di moderna ‘cinta muraria’ che è il Grande Raccordo Anulare di Roma, con esiti che spesso inducevano alla risata, o magari alla scoperta incuriosita, Gianfranco Rosi cambia decisamente registro, mettendoci di fronte al dramma dell’immigrazione, senza negarci nulla: il buono, rappresentato dal classico ‘pallone’ che finisce per essere una sorta di ‘collante’ nella permanenza lampedusana di chi viene da tante terre diverse, ma anche il tragico, non risparmiandoci nemmeno lo sguardo su quei corpi senza vita, spesso accatastati alla meglio per pura mancanza di spazio, corpi che a dire la verità spesso finiscono fuori dagli obbiettivi dei telegiornali nazionali, per motivi ‘di opportunità’ facilmente immaginabili.
Allo stesso tempo, e in questo soprattutto si possono trovare dei punti di contatto col precedente lavoro, si seguono le vicende dei lampedusani, con momenti stranianti e inquietanti, come l’immersione notturna di un pescatore col mare quasi in burrasca, parentesi di ‘alleggerimento’, come il pasto di Samuele con la famiglia, dominato dal risucchio insistito col quale il bambino mangia gli spaghetti (il momento se vogliamo più divertente di tutto il film) ed episodi ‘lirici’, come l’incontro, ancora una volta notturno, dello stesso Samuele con un uccellino, per nulla intimidito dalla presenza umana, a evocare un contatto ‘primitivo’ con la natura che forse oggi è privilegio quasi esclusivo proprio degli abitanti delle isole.
Due tipi di esistenza che sembrano appartenere a dimensioni diverse, mondi diversi, distanti non pochi chilometri, ma centinaia, apparentemente indipendenti, se non fosse per la figura del medico Bartolo, che sembra essere una sorta di crocevia dimensionale, intento a prendersi cura degli abitanti dell’isola, come vorrebbe l’ordinarietà del suo mestiere, ma che nelle condizioni attuali passa gran parte del suo tempo a curare i nuovi arrivati, spesso giunti in condizioni estreme dopo aver passato giorni e giorni accalcati in una stiva ma anche, spesso e volentieri a dover redigere gli esami sulle salme di chi è arrivato qui senza vita.
Dietro alla ‘descrittività’ tipicamente documentaristica di Fuocoammare, sembra dunque intravedersi una riflessione sulla fondamentale inconciliabilità di due mondi che destinati a non toccarsi eccetto che in rare occasioni.
Quest’impressione di ‘altro mondo’ che le persone hanno guardando certe immagini riprese a centinaia di chilometri di distanza, appare ripetersi anche sulla stessa isola, dove la distanza è ridotta a poche centinaia di metri: due dimensioni che, anche così vicine, sembrano spesso e volentieri destinate a non incrociarsi, se non in rari casi, come in quello del medico; se anche sulla stessa isola la reale percezione delle dimensioni del fenomeno migratorio finisce per essere così limitata, le probabilità che lo si possa comprendere a centinaia, migliaia, di chilometri di distanza si riducono quasi a zero, finendo per impedire in tutto o in parte la ricerca di strade percorribili per affrontare il fenomeno migratorio.
Gianfranco Rosi nel giro di pochi anni è arrivato ad affermarsi come uno dei nostri cineasti di punta: allo stato dell’arte, forse il migliore: si potrebbe dibattere di se e quanto i premi nei vari Festival siano la vera misura delle dimensioni di chi fa cinema e oggetto di altrettante considerazioni potrebbe essere il confronto tra la ‘pura fiction’ cinematografica e il documentario, ma non si può negare che aver vinto consecutivamente i premi a Venezia e a Berlino abbiano comunque un significato.
Resta il fatto che come il suo predecessore, anche “Fuocoammare” finisce per fare alzare lo spettatore dalla sedia come emozioni contrastanti, se possibile ancora più conflittuali che in GRA, perché in questo caso il confronto stridente è proprio tra la vita e la morte, la vita pacifica scandita lentamente e l’esistenza di chi parte alla volta delle nostre coste senza nemmeno sapere se vedrà sorgere il sole l’indomani.