Posts Tagged ‘Lo chiamavano Jeeg Robot’

TOP 10 2016 – CINEMA

1)  Lo chiamavano Jeeg Robot

2) Indivisibili

3) Veloce come il vento

4) The Hateful Eight

5) La grande scommessa

6) Fuocoammare

7) Dio esiste e vive a Bruxelles (2015)

8) Creed

9) Batman contro Superman

10) Tommaso

INDIVISIBILI

Daisy e Viola sono due gemelle. Siamesi, attaccate al fianco.
Girano, cantando, per la Campania, per lo più nella provincia di Caserta: Comunioni, matrimoni, etc…
L’incontro fortuito con un medico le rende consapevoli di poter essere separate, senza troppi rischi: Daisy è la più determinata delle due, ansiosa di vivere tutte le esperienze che una vita ‘in comune’ con la sorella le nega e probabilmente le negherà; più titubante Viola, in fondo spaventata dalla prospettiva della separazione.
Le due incontreranno l’opposizione di una famiglia che campa su di loro, sfruttandole come un fenomeno da baraccone, a partire da un padre – padrone senza scrupoli e da una madre perennemente ‘fatta’, ma consapevole e rassegnata al fatto che alla fine il momento delle domande e della ‘presa di coscienza’ sarebbe arrivato.
Seguirà una fuga nel corso della quale le gemelle incontreranno prima la ben poca comprensione di un parroco, più simile a un boss della Camorra che a un ‘uomo del Signore’, anche lui interessato a sfruttarle come una sorta di ‘sante miracolate’, per poi cadere nelle mani di un torbido impresario…

Una ‘favola nera’, recitata in dialetto (il fim è sottotitolato in italiano) raccontata da Edoardo De Angelis, qui alla terza regia, dopo “Mozzarella Stories” e “Perez”, assieme, su tutti, a Nicola Guaglianone, autore anche del soggetto e che si conferma come una delle firme emergenti più interessanti del cinema italiano, considerato che è stato tra gli artefici di quel capolavoro di ‘cinema di genere’ che è stato “Lo chiamavano Jeeg Robot”.
Le gemelle Fontana (Angela – Daisy e Marianna – Viola) occupano la scena dall’inizio alla fine, con efficacia, punte dell’iceberg di un cast in cui si distinguono Massimiliano Rossi, il padre – padrone più che mai detestabile e Gianfranco Gallo, nel ruolo del prete più vicino ai ‘Don’ della malavita che non a quelli di Santa Romana Chiesa.
Antonia Truppo (vista proprio in “Lo chiamavano Jeeg Robot”) conferma le proprie doti interpretando una madre borderline.
Un film che riecheggia il Ferreri de “La donna scimmia” (non a caso, il lascivo impresario interpretato da Gaetano Bruno si chiama proprio Marco Ferreri) e certe oniriche atmosfere lynchiane, con Pinocchio a fare da nume tutelare.

Una bella sorpresa: un film insolito, capace di strappare qualche risata, con momenti di commozione e qualche svolta improvvisa, che potrebbe spiazzare, commentato dalle splendide musiche di Enzo Avitabile.
Uno dei ‘film dell’anno’, almeno per il cinema italiano.

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VELOCE COME IL VENTO

Emilia, terra di motori: Giulia, giovane promessa delle gare della categoria Gran Turismo, perde improvvisamente il padre, che la segue e l’assiste da bordo pista; oltre a dove fare i conti con la perdita di un punto di riferimento e con la pressoché totale mancanza di prospettive per sé stessa e il fratello più piccolo, Giulia dovrà fare i conti con l’improvvisa irruzione nella sua vita del fratellastro tossico Loris, anche lui con un passato nel mondo delle corse, una carriera breve ma intensa.

Dopo lo scontro iniziale, trai due non tarderà a nascere un forte legame, cementato dall’amore comune per la velocità: per Giulia, Loris diventerà una sorta di nuovo punto di riferimento; Loris ovviamente, troverà nel sostegno a Giulia sulla strada del successo, un modo per riscattarsi e trovare una luce in fondo al tunnel… fino a quando non commetterà un’altra cazzata, rischiando stavolta di perdere tutto…

L’ultimo film che avevo visto al cinema era stato “Lo chiamavano Jeeg Robot”; e incidentalmente, uscendo dalla visione di “Veloce come il vento”, mi sono ritrovato a fare una considerazione analoga: i registi italiani sembrerebbero aver imparato finalmente a fare certi film.
Forse non è un caso, forse è una questione generazionale, ma l’impressione è che si sia capito che è possibile costruire certi film anche in Italia, rispettando i ‘canoni del genere’, senza ricorrere alla facile scorciatoia di tradurre tutto in chiave italica, magari col solito registro comico, buttando tutto in burletta: facendo un gioco di parole, si sta finalmente trovando una via italiana senza per forza girare pellicole ‘all’italiana’.

“Veloce come il vento” appartiene al filone delle grandi storie di sport (peraltro in questo caso ispirate a vicende reali) che si sovrappongono a piccoli – grandi drammi famigliari; il mondo delle corse è stato peraltro più volte frequentato dallo stesso cinema americano, esempio più recente quello di “Rush”, e a pensarci è abbastanza singolare come invece in Italia, patria della Ferrari, il tema sia stato poco o nulla toccato.
Il regista Matteo Rovere ha quindi in un certo senso colmato una lacuna, usando in modo efficace tutti i canoni del genere: la giovane promessa e l’ex campione sbandato ma ancora in grado di trasmettere il suo sapere; gli allenamenti (strizzando l’occhio a Rocky) e il conflitto generazionale / famigliare… e, dato che parliamo di corse in auto, non poteva nemmeno mancare una divertente e riuscitissimo inseguimento che alle avenue americane, sostituisce le stradine del centro di Ferrara (o almeno, mi sembra di aver riconosciuto il Castello degli Estensi); né mancano coinvolgenti sequenze di gara, immancabili in un film del genere e rese in modo spettacolare.

Non manca nemmeno una generosa dose di commedia (la risata nasce spontanea più volte), intendiamoci di quella che fa parte del dna del cinema italiano, pronta a trovare il lato buffo e paradossale anche nelle situazioni più complicate, ma questo senza che per forza il film diventi una barzelletta, “perché tanto gli italiani sanno fare solo le commedie, quindi qualunque film di genere deve finire per forza per diventare una commedia dai buoni sentimenti”; no: questo è innanzitutto un film di sport e di relazioni famigliari complicate… che poi ci scappi la risata ogni tanto, come dire… è la vita, in fondo.

“Veloce come il vento” è interamente affidato alle interpretazioni dei due protagonisti: Stefano Accorsi dà vita ad uno dei ruoli più riusciti della sual carriera, si reimpossessa delle sue inflessioni originali, si spoglia completamente di tutto ciò che in un passato più o meno recente l’ha portato allo status di ‘sex symbol nazionale’, dando vita a un personaggio sopra le righe, sboccato, disperato e sull’orlo del baratro.
Due parole in più merita la giovane Matilda de Angelis (che qualcuno, me compreso ha già avuto modo di appprezzare nella riuscita fiction RAI “Tutto può succedere”); il parallelo tra l’attrice e il suo personaggio risulta abbastanza immediato: c’è un momento del film in cui il fratellastro Loris le fa notare come le ‘manchi il fisico’ per diventare una pilota completa: collo esile, spalle strette, gambe fini… ecco, l’impressione è che alla De Angelis prima di questo film mancasse forse il ‘fisico artistico’ per interpretare un ruolo del genere, che fosse ancora un filo acerba per poter sostenere una parte che la vende in scena dall’inizio alla fine.
Eppure non si può fare altro che considerare che il ‘fisico’ in qualche modo bisogna farselo: che ai giovani, anzi: ai giovanissimi, bisogna dare proprio la possibilità di cimentarsi in ‘imprese’ che forse possono apparire un filo al di sopra delle proprie capacità proprio per ‘costruirsi’ la propria identità (in questo caso, artistica, ma si potrebbe fare lo stesso discorso per la vita in generale) e aprirsi la propria strada.
Quindi un plauso al regista Matteo Rovere per dato una possibilità a questa giovane attrice, della quale sono convinto continueremo a sentir parlare molto e bene negli anni a venire; in fondo poi, da qualche parte le nuove generazioni devono pur cominciare.

“Veloce come il vento” è, insomma, un gran bel film: e fa veramente piacere parlare nuovamente bene di un film italiano quest’anno, soprattutto perché ciò di cui stiamo parlando non è la solita commedia, o il film d’autore, ma qualcosa di, una volta tanto, molto diverso.

LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT

Un bagno nel Tevere già di per sé non è un’idea eccezionale… figurarsi se a quelle acque non proprio cristalline si aggiungono non meglio precisate sostanze chimiche… E’ quello che capita a Enzo Ceccotti, delinquente di mezza tacca, per salvarsi da un inseguimento.
Enzo è il classico ‘delinquente per necessità’, che si arrangia tra scippi e furti per assicurarsi la mera sopravvivenza in un buco nella periferia degradata di Tor Bellamonaca, passando il tempo a rimpinzarsi di budini e film porno in egual misura.
Succede però che quel bagno fuori programma abbia degli effetti imprevedibili, donando a Enzo una forza sovrumana e rendendolo pressoché invulnerabile: il nostro fin da subito utilizzerà le sue nuove abilità per scardinare bancomat e assaltare furgoni blindati; l’incontro con Alessia, una giovane donna che ha trovato nel mondo fantastico di Jeeg – Robot d’acciao la via di fuga da una vita che l’ha colpita troppo duramente, porterà Enzo a cambiare punto di vista, mentre all’orizzonte si staglierà la più proverbiale delle nemesi…

Attendevo questo film da mesi: da quando cominciai a leggerne in occasione della presentazione alla Festa del Cinema di Roma; per le imperscrutabili dinamiche della distribuzione, arriva nelle sale solo oggi, e…

Questo film è una bomba: uscito dal cinema non ho trovato nulla di meglio che definirlo, su Facebook, ‘una figata assurda’.

Già è abbastanza straordinario che un film come questo lo si sia riusciti a fare in Italia; ma poi, “Lo chiamavano Jeeg Robot” funziona per conto suo come ‘film di genere’: se fosse stato un film indipendente americano, sarei qui a lodarlo comunque, ma cavolo, questo film è stato fatto in Italia, girato in gran parte a Roma.

Il punto è che quando non si può ricorrere a effetti speciali a tonnellate, all’uso smodato del computer; quando non si possono mostrare costumi, mantelli, martelli, scudi, armature, auto fantascientifiche, astronavi, mostri spaziali e quant’altro, cosa resta?

Resta il realismo: non si ha altra strada se non quella di abbandonare la fantasmagoria di un ‘altro mondo’ dove gente ipermuscolata in calzamaglia si prende a mazzate e dare a un ladruncolo della periferia romana la possibilità di scardinare un bancomat a mani nude. L’uovo di Colombo? Forse… sono state ‘uova di colombo’ i ‘supereroi con superproblemi’ di Stan Lee, quelli repressi di Alan Moore; i ‘politici’ o i ‘realistici’ di Mark Millar…

“Lo chiamavano Jeeg Robot” è l’uovo di colombo dei film di supereroi: eliminiamo il contorno, togliamo i costumi, riduciamo tutto all’osso e dotiamo di facoltà inimmaginabili un poveraccio: il risultato è una versione ‘in negativo’ di Peter Parker, incrociata col protagonista di “Kick-Ass”, piazzata in un contesto a metà strada tra Romanzo Criminale, Gomorra, e i film poliziotteschi degli anni ’70, qualche esagerazione ‘tarantiniana’.
L’uovo di Colombo, certo, ma guarda caso quest’uovo nessuno l’aveva mai messo in piedi prima e a farlo è stato il regista romano Gabriele Mainetti che non ringrazierò mai abbastanza, assieme agli sceneggiatori Nicola Guaglianone e Menotti che, non a caso è uno che, prima che autore per la tv e il cinema, è un esponente della nostra ‘narrativa disegnata’.

Un film che vive su un continuo alternarsi di tensione e rilassamento: sospensione, risate, pathos, dramma: tutto attentamente mescolato, senza mai cadere nella farsa, nella barzelletta o nel melodramma, in cui sono presenti tutti i ‘topoi’ del percorso di ‘formazione’ del supereroe, nel classico percorso che va dall’uso dei superpoteri a fini egoistici, fino all’assunzione delle proverbiali ‘grandi responsabilità’ fino all’attesissimo ‘showdown’ finale, che arriva puntuale, rispondendo alle aspettative.

Claudio Santamaria è efficacissimo nel ruolo del protagonista, che gli calza alla perfezione e che con tutta probabilità gli frutta la sua migliore interpretazione: un attore che a dire il vero ho sempre sopportato poco ma che qui è perfetto.

Luca Marinelli è eccezionale nel disegnare un ‘criminale da fumetto’ che portato nel mondo reale diventa a tratti inquietante… una sorta di Joker di borgata, che a incrociarlo per strada non sai mai se ridere o cambiare strada di corsa.
Ilenia Pastorelli, fin qui nota alle cronache televisive per una sua passata partecipazione al Grande Fratello, mostra di avere tutte le carte in regola per una futura carriera cinematografica, interpretando un personaggio fragile e indifeso, che per ripararsi dai colpi della vita ha cercato rifugio in un improbabile ritorno all’infanzia.

“Lo chiamavano Jeeg Robot” è il film che aspettavano (aspettavamo) in tanti, stufi di botte da orbi tra palestrati in calzamaglia; “Lo chiamavano Jeeg Robot” è un film italiano: e allora, godiamocela!!!

Grande, grande, grande.