Posts Tagged ‘De Gregori’

AGNESE VALLE, “I MIEI UOMINI” (AUTOPRODOTTO)

Dopo tre dischi per lo più di inediti Agnese Valle, cantante e clarinettista (o clarinettista e cantante?) capitolina il cui esordio festeggia quest’anno anno dieci anni, si cimenta con il ‘canzoniere italiano’, più e meno recente, in quella che è la prima fase di un progetto più ampio, che in primavera avrà la sua realizzazione compiuta in uno spettacolo di teatro – canzone.

Undici brani – includendo il breve intro, ‘Chi è di scena’, e ‘Sipario’, una vera e propria lista dei ringraziamenti prefazione sta in conclusione, che già danno al lavoro una veste teatrale – che vanno da De Gregori a Tenco, da Zero a Morgan, da Dalla a Brunori Sas, con l’aggiunta di ‘La Fioraia’, inedito firmato da Pino Marino.

Un disco di ‘cover’, quindi, dove il rispetto degli originali non si traduce in una copia carbone, ma in una riproposizione in cui la

sensibilità della cantautrice e del manipolo di musicisti che l’accompagnano, si traduce in una dimensione semiacustica, accompagnata da un uso frequente, ma non invasivo, dell’elettronica.

L’interpretazione sembra a tratti un po’ trattenuta, come se Agnese Valle avesse approcciato i brani in punta di piedi, con un po’ di timore reverenziale.

L’esito comunque trasmette calore, offre un’idea di raccoglimento, evoca già quella dimensione ovattata da ‘poltroncine di velluto’ per la quale il disco è stato concepito.

GTO: GO GTO GO 1993 – 2023 (MUSIC FORCE / EGEA MUSIC)

30 anni di attività, 6 dischi, innumerevoli concerti, in Italia e all’estero, qualche discreto riscontro (la vittoria ad Arezzo Wave nel 1998), lungo una carriera vissuta in gran parte nelle retrovie.

I GTO, umbri di Bastia, rilanciano celebrando i tre decenni con una doppia raccolta – monster: 38 brani e circa due ore e mezza di durata.

Tanto; troppo forse, così come forse troppa è la carne messa al fuoco dal quintetto umbro, che mostra un ventaglio d’influenze che val dal blues al ‘rock made in Italy’ (vaghe assonanze coi Negrita), dalla tradizione popolare (ricorrente il ricorso a fisarmonica e mandola) al folk vagamente ‘combattente’ al cantautorato (si omaggia, in apertura, De Gregori con ‘Rimmel’, c’è qualche episodio che richiama De Andrè, qua e là si è tentati di evocare Bertoli), dal reggae allo ska a echi ‘mariachi’.

Testi che vanno da un gusto vagamente favolistico al classico vissuto della provincia.

C’è del discreto e del meno, in due CD di 19 pezzi l’uno all’interno dei quali è facile perdersi, dimenticando ciò che si ascoltato all’inizio di un CD e magari in quello precedente.

UMBERTO TI, “LA CASA SULLA SABBIA” (NEW MODEL LABEL)

Secondo ‘disco lungo’ per Umberto Ti., che giunge a un paio di anni di  distanza dall’EP “Non credo basterà).

La formula continua a essere quella di un cantautorato figlio di Dylan e De Gregori sostenuto da sonorità che strizzano l’occhio a cavallo tra rock e folk, con qualche rimando ai Velvet Undergroun e qualche allusione new wave.

Nove tracce all’insegna di storie personali e non, con uno sguardo costante, ora più scoperto, ora meno evidente, al mondo circostante e alle sue incertezze.

Un ensemble sonoro ‘tradizionale’, arricchito occasionalmente da un violino e più spesso da fiati (con esiti vagamente springsteeniani), per un lavoro che si lascia ascoltare.

MICHELE ANELLI, “SOTTO IL CIELO DI MEMPHIS” (DELTA RECORDS)

È andato a ‘sciacquare i panni’ nel Tennessee (o meglio, in Alabama, come vedremo)di Michele Anelli, per il suo nuovo lavoro, ennesimo capitolo di una carriera trentennale, cominciata coi Groovers e poi proseguita da solista, affiancando e aggiungendo all’attività di cantante, cantautore e chitarrista, l’attività di scrittore, dando più volte vita a progetti e collaborazioni che appunto mescolavano la parola cantata a quella scritta.

Solo musica e parole invece stavolta per questo “Sotto il cielo di Memphis”, nato appunto in occasione di un viaggio negli States, culminato con una sosta presso Fame Recording Studios di Muscle Shoals, Alabama, dove è stata avviata la produzione del disco.

Otto tracce la base di partenza, ma alcune versioni del disco offrono varie aggiunte, fino ad arrivare a quindici brani.

L’impressione è quella di un viaggio nel tempo: un lavoro che per suoni (a partire dal frequente uso di tastiere vintage) modi, umori, atmosfere, sembra uscito dritto dagli anni ’70.

Le suggestioni sono varie: domina un vissuto personale che può ricordare vagamente un De Gregori (certo con esiti molto meno ‘ellittici’) c’è, volendo, una spruzzata di certo ‘prog’ cantautorale (vedi alla voce Le Orme) e c’è, anche e soprattutto, l’ombra lunga della ‘premiata ditta’ Mogol – Battisti, con i riferimenti da ‘minimo quotidiano’ e un cantato costantemente velato di malinconia e disillusione.

È un lavoro pieno di riflessioni dai toni appunto malinconici, disincantati, spesso in forma di ballate, dai toni in chiaroscuro.

Manca forse, qualche brano ‘killer’: ci si aspetta che prima o poi si dia ‘fuoco alle polveri’, magari accendendo le chitarre, alzando il volume, lasciando un po’ sciolte le briglie e invece tutto resta in penombra, in una dimensione dai tratti evanescenti e talvolta onirici e con toni che spesso fin troppo dimessi.

L’impressione finale è che insomma il lavoro tragga gran parte della sua linfa, più che dagli assolati panorami del Tennessee e dell’Alabama, dalle brume del Lago Maggiore su cui si affaccia Stresa, città di origine del cantautore.

TOSCHES, “FINDING MYSELF EP” (SEAHORSE RECORDINGS)

Esordio per il torinese Nicolò Vignolo, alias ‘Tosches’, formazione da chitarrista classico, riferimenti che vanno da De Gregori ai Dire Straits, ma un esito che appare più vicino a certi ultimi sviluppi della tradizione cantautorale / folk americana.

Cinque pezzi, impianto semiacustico, voce e chitarra a farla da padrone, con piano e qualche tastiera a fare da rinforzo col consueto contorno di sezione ritmica.

Suggestioni da camere di motel isolati lungo autostrade che corrono in spazi sterminati, si riflette su sé stessi o si parla di affetti, citando sul finale i Pink Floyd di ‘Wish You Were Here’.

Niente di nuovo, ma il materiale è maneggiato con sicurezza, la lezione è stata appresa bene e per essere un saggio / assaggio della proposta di un ventitreenne, il tutto risulta assai convincente, soprattutto in prospettiva.

TEO HO, “I GATTI DI LENIN” (NEW MODEL LABEL)

Matteo Bosco: poeta e cantante di strada, tra il Friuli e Milano; una carriera tutta vissuta nella dimensione ‘live’, che ora giunge al primo capitolo discografico.

Immediato nella forma sonora: dieci pezzi per voce, chitarra, spesso armonica e poco altro, all’insegna di una produzione essenziale, quasi del tutto priva di aggiunte.

Criptico nella scrittura, come ci si può almeno in parte aspettare da chi le parole le ‘maneggia’ da una vita: testi in cui prevalgono le metafore, le allegorie, il flusso di coscienza, un susseguirsi di immagini apparentemente sconnesse.

Emerge tra le righe l’esperienza di chi si definisce soprattutto come un osservatore: personaggi ai margini, la paura dell’altro, del ‘diverso’ il rischio delle ‘guerre tra poveri’; sparuti i riferimenti diretti alla realtà, tra il G8 di Genova e Bobby Sands.

De Gregori è un riferimento manifesto e dichiarato; per estensione si guarda a Dylan e lo sguardo agli ‘ultimi’ non può non ricondurre a De André. Canzone popolare, folk, un pizzico di blues.

“I gatti di Lenin” è il classico disco ‘prendere o lasciare’ di un autore che non si preoccupa di risultare comprensibile a tutti i costi, né di risultare gradevole nell’esecuzione:il cantato è spesso gridato, a tratti quasi sguaiato, l’atteggiamento vagamente irridente, conservando l’attitudine ‘stradaiola’.

Non un disco ‘facile’: questo essere ‘senza filtri’ potrebbe essere interpretato come pura ‘emergenza espressiva’ e, all’opposto, come ‘arroganza’: ‘prendere o lasciare’, appunto; resta comunque una certa curiosità per i possibili sviluppi, comunque non scontati, vista l’indole dell’autore, più incline all’esecuzione pubblica che non alle sale di registrazione

LA LINEA DEL PANE, “UTOPIA DI UN’AUTOPSIA” (QB MUSIC)

Esordio sulla lunga distanza per questo trio milanese, capitanato da Teo Manzo, cantante, autore dei testi, chitarrista; con lui Marco Citrini e Kevin Avery a costituire la sezione ritmica di una strumentazione essenziale, cui si aggiunge, episodicamente, il violino di Martino Pellegrini.

“Utopia di un’autopsia”: un gioco di parole per un lavoro che molto ‘gioca’: non tanto con i suoni o con le parole, quanto con le idee, le sensazioni, le suggestioni, le impressioni.

Gli undici brani presenti (più la ‘ghost track’ finale)costituiscono una galleria di storie e personaggi, di ambientazioni in un ‘altrove’, spaziale o temporale, difficilmente inquadrabile (ad eccezione di Occhi di vetro, esplicitamente ambientata a Parigi) forse non così lontano da noi, ma comunque separato dal ‘qui ed ora’, seppure magari solo da un lieve velo onirico.

La scrittura è frammentata, procede per narrazioni non lineari, scene giustapposte, stralci di pensieri, brandelli di riflessioni, all’insegna di un’ellissi che alla fine non spiega, apparendo piuttosto lasciare all’ascoltatore il compito di riempirla col proprio ‘vissuto’, le proprie personali sensazioni.

Un’arma a doppio taglio, se si vuole, perché se da un lato il risultato è indubbiamente suggestivo, lirico a tratti, il rovescio della medaglia è quello di una dispersione di senso: si ha insomma l’impressione che i testi parlino di qualcosa volendo parlare d’altro, ma questo ‘altro’ non è alla fine così immediatamente comprensibile… un termine di paragone, con tutti i distinguo del caso, potrebbe essere il primo De Gregori.

Suoni all’insegna di una costante alternanza tra raccoglimento acustico e momenti in cui le chitarre costruiscono più solidi ‘muri elettrici’: ma “Utopia di un’autopsia” è in fondo un disco incentrato più sulle parole che non sui suoni, cui alla fine è affidata una funzione per lo più di semplice accompagnamento; la voce, più che interpretare, ‘narra’, e la ‘grana emotiva’ dei pezzi in parte ne risente. Elementi che, aggiunti alla lunghezza dei brani (raramente si scende sotto ai tre minuti, allungandosi a volte oltre i sette), rendono il lavoro un po’ troppo monolitico, a tratti un filo ripetitivo.