Posts Tagged ‘shoegaze’

ONCEWERESIXTY, “THE FLOOD” (BEAUTIFUL LOSERS / UGLYDOG RECORDS)

Disco d’esordio per questo trio proveniente da vicenza, nato dalle ceneri di una precedente esperienza – i Mr60 – animata da due dei componenti del gruppo.

Nove i pezzi presenti, sospesi tra dreampop, vaghe suggestioni new wave, accenni shoegaze, all’insegna di una ‘bassa fedeltà’ fatta di una continua e sottile ruvidità, accompagnata da qualche allusione ‘rumoristica’ e dall’emergere, qua e là, di costanti tentazioni psichedeliche, frutto di una produzione volutamente – e orgogliosamente – ‘artigianale’, per un disco realizzato (anche se ‘costruito’ rende forse più l’idea) in garage, senza l’apporto di trattamenti digitali.

Il risultato è un disco di un pop ‘sghembo’ per certi versi abbastanza ‘classico’ (almeno tenendo presente i generi di riferimento), in cui tutto, a cominciare dalle voci, sembra provenire da una dimensione, da un mondo, leggermente discostato dal nostro, del quale a noi arrivano solo echi vagamente disturbati.

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NOSEXFOR,”NOSEXFOR” (AUTOPRODOTTO)

Un duo, quello formato dai vicentini Severo Cardone e Davide Tonin e dieci pezzi per un esordio che rappresenta una sorta di ‘valvola di sfogo’, di nuova strada rispetto alla collaborazione che già da tempo li lega nel portare avanti lo Shoegaze Studio.

Un lavoro che, rispondendo all’idea di ‘smuovere’ le acque, non poteva che essere immediato e viscerale.

Un muro sonoro memore, non a caso, dello shoegaze e del noise degli anni ’90, che si innalza e si estende fino a restituire suggestioni grunge e post e momenti esplicitamente metal.

Le parole sono quelle che spesso vengono dette in questi frangenti: un’osservazione cinica della realtà, tra precarietà lavorativa, una società che spesso ignora il merito, raffronti generazionali, tentativi di fuga, la ricerca del denaro e degli ‘oggetti’ fino alle più estreme conseguenze, il lento spegnimento delle città di provincia; dal lato interiore, la difficoltà dei rapporti con gli altri e spesso con sé stessi, la pervasività dei social network e l’esortazione a conservare la propria individualità; in mezzo, un omaggio alla hendrixiana ‘Voodoo Child’.

Un lavoro diretto, suoni che colpiscono duro e parole che vanno dritte al punto.

POVEROALBERT, “MA E’ TUTTO OK” (AUTOPRODOTTO / LIBELLULA DISCHI)

“Ma è tutto ok” è ciò che in genere si dice quando ‘tutto ok’ proprio non è: una frase autoconsolatoria, talvolta un modo per esorcizzare, con sé stessi e con gli altri, ciò che non va, magari rimandando questioni in sospeso, nodi da sciogliere. Il fatto è che prima o poi i nodi bisogna affrontarli e prima o poi la facciata del ‘tutto ok’ si sgretola, lasciando il posto all’espressione dei propri sentimenti repressi.

I nove pezzi (incluso l’intro strumentale) che compongono il disco d’esordio dei campani Poveroalbert arriva dopo una gavetta quasi decennale, partita sotto altro nome e con cover dei Radiohead, inizio di un flirt mai interrotto con certe sonorità d’oltremanica, un insieme di riferimenti sonori che mescola accenni a rumorismi shoegaze, sprazzi dilatati a cavallo tra il dreampop e la sperimentazione dei Mogway, allusioni più o meno marcate all’ondata neo-new wave di Interpol, Editors e soci, una spolverata di elettronica.

Il risultato è un disco che procede a cavallo tra rabbia e rassegnazione volta al disincanto; un lavoro di cui lo stesso quintetto nega la ‘tristezza’, ma che sembra portare in se la sofferenza tipica di ogni momento in cui si affrontano, tutti insieme, determinati nodi.

Una scrittura mai del tutto esplicita, che procede per idee, pensieri, appunti giustapposti, tutto incentrato sul rapporto con il sé e con gli altri, scendendo spesso sul terreno accidentato di vicende sentimentali complicate o definitivamente concluse, con consueto campionario di recriminazioni e rimpianti su cose non successe, gesti non compiuti, parole non dette, in una sorta di seduta di auto-analisi sonora.

I Poveroalbert riescono così a coniugare il bisogno di dare libero sfogo senza filtri a sentimenti dalla grana abrasiva, quasi urticante e la necessità di tradurli in una forma sonora compiuta, attraverso sintesi e compattezza (il disco non arriva alla mezz’ora di durata complessiva) in un esordio che convince.

LUPRANO, “SOGNAVO SEMPRE” (AUTOPRODOTTO / LIBELLULA PRESS)

Esordio solista per il cantante e chitarrista Ivan Luprano, non esattamente un novellino, sia dal punto di vista anagrafico (classe ’77), sia sotto il profilo artistico (un paio le esperienze pregresse all’attivo).

“Sognavo sempre”: il titolo lascia intuire una via di fuga, le difficoltà della vita reale che finiscono per indurre ad una scappatoia onirica… eppure, nonostante il titolo, gli undici brani presenti sono fermamente ancorati alla realtà, in un mix di storie di vita vissuta e considerazioni introspettive.

Si parla di fughe da gabbie esistenziali, anche portate alle estreme conseguenze, finendo per cadere nell’abisso della dipendenza; si parla di persone che cercano di riempire la propria esistenza con troppe attività, non riuscendone a portare avanti nessuna; di relazioni sentimentali complicate, che finiscono per realizzarsi solo attraverso il conflitto e di conversazioni attorno all’amore; di persone che tirano le somme della propria vita, di consapevolezza e solitudine…

Un disco che nelle parole dello stesso autore parla della difficoltà delle persone sensibili di vivere nel mondo attuale; da quella sensibilità deriva non solo la vulnerabilità nei rapporti personali, ma anche la consapevolezza di quanti dei ‘massimi sistemi’ proposti dalla società siano in fondo caratterizzati da un vuoto. Il sogno, forse, finisce per costituire l’unico ‘centro di gravità permanente’ per chi in questo mondo si sente fuori posto…

Luprano declina le proprie idee attraverso un cantautorato folk attraversato da frequenti venature abrasive, memori di certo indie anni ’90 (si sente a tratti, molto in lontananza, l’eco dei Dinosaur Jr.), conditi con una certa dose di rumorismo shoegaze e spezie dreampop.

“Sogavo sempre” appare il classico nuovo inizio di un autore che avvia la propria carriera solista, pur se – grazie alla partecipazione di un manipolo di collaboratori (si ricordano Matilde Davoli degli Studiodavoli e la giovane e promettente Lucia Manca) – si ha spesso l’impressione di trovarsi al lavoro di una band… Qualche incertezza e qualche passaggio a vuoto sono prevedibili, in quello che appare come un disco di transizione verso la definitiva maturità stilistica ed artistica.

FELPA, “PAURA” (SUSSIDIARIA / AUDIOGLOBE)

Dopo l’“Abbandono” è quasi naturale che subentri la “Paura”: è lo stesso percorso disegnato da Daniele Carretti (Offlaga Disco Pax, Magpie) nel suo progetto solista “Felpa”; ‘paura’, che non solo marca il disco fin dal titolo, ma che ricorre come parola, lungo tutta la sua durata.

Tuttavia, i dieci brani (una quarantina di minuti la durata complessiva) non rappresentano tanto un ‘inno alla disperazione’, quanto piuttosto un costante stimolo ed incoraggiamento a non averla, la paura: in effetti il concetto più frequente è proprio quello di ‘non aver paura’, quando si è stati lasciati o si è lasciato qualcuno; non a caso, uno dei brani è intitolato proprio ‘Paura mai’.

Carretti / “Felpa” traduce il filo conduttore del disco in suoni che procedono tra echi e riverberi con ascendenze shoegaze e tenui tessiture chitarristiche dalle radici new wave, in un lavoro rarefatto, dilatato, in cui un raccoglimento quasi domestico è pronto a socchiudere le finestre su panorami sterminati, quasi cosmici. Un disco a tratti ipnotico, ricco di suggestioni oniriche, in cui forse la “Felpa” che dà il titolo al progetto rappresenta quel calore rassicurante, quando si rischia di smarrirsi di fronte alla ‘Paura’ del titolo.

Un lavoro che, pur non raggiungendo picchi di eclatante originalità, riesce a coinvolgere con le sue suggestioni avvolgenti.

THE CHILD OF A CREEK – “THE EARTH CRIES BLOOD” (SEAHORSE RECORDINGS / AUDIOGLOBE)

Ormai The Child Of A Creek gira già da un pò: dal 2005 in poi, il progetto, dietro al quale si nasconde una ‘one man band’ di stanza a Livorno, è arrivato al quinto lavoro, con un sesto già in rampa di lancio.

Una carriera all’insegna di continui cambi di direzione: il suo precedente lavoro, “Whispering Tales Under An Emerald Sun”, prendeva certe pregresse sonorità indie folk, declinandole in atmosfere a cavallo tra il gotico e l’apocalittico; nel caso di “Earth Cries Blood”, la strada cambia nuovamente, stavolta all’insegna di una maggiore varietà di soluzioni: a fianco di suggestioni gotiche, atmosfere shoegaze ed escursioni accennate in territori ambient, si trovano con maggiore frequenza ballate che sembrano uscite dal repertorio del periodo d’oro dell’hard rock / heavy metal di inizio anni ’80, una certa ‘corposità’ chitarristica messa al servizio di atmosfere cerpuscolari.

Il filo conduttore appare proprio essere quelle dei climi, vagamente nuvolosi, di tinte ombreggiate, serali, anche se forse mai del tutto notturne: una ‘costante umorale’ compassata, spesso malinconica (accresciuta da un cantato intenso, ma mai sopra le righe, cui in un episodio contribuisce Pantaleimon di Current 93)), declinata però con una certa varietà di stili che conferiscono al disco un certo dinamismo, mantenendo viva l’attenzione dell’ascoltatore.

Child Of A Creek aggiunge dunque un nuovo efficace ed interessante tassello al mosaico della propria biografia musicale.

FRANCIS M. GRI, “GHOST DREAMERS TOWN” (KRYSALISOUND)

Avevamo lasciato Francis M. Gri con “9th Crysalis”, affascinante primo lavoro per per il progetto Revglow; lo ritroviamo ora per questa nuova avventura solista, nel segno di quell’impronta sperimentale che ne ha sempre caratterizzato lo stile.

La città dei sognatori fantasma: quella che, nel breve racconto che allegato al disco lo introduce, è quella in cui il protagonista si ritrova a girare; una città improvvisamente abbandonata da tutti, alla ricerca di un modo di ‘un’altra vita’, come canterebbe Battiato.

Nove tracce, interamente strumentali, nel segno di un’efficace mix di acustica ed elettronica pronto di volta in volta a cambiare veste: da avvolgenti battiti ipnotici a tessiture chitarristiche dalla consistenza setosa, da rarefazioni che sfiorano l’ambient a momenti all’insegna di una saturazione che rasenta lo shoegaze, da suggestioni sognanti ad accennate derive psichedeliche, fino a parentesi in cui a prendere le redini della situazione è un piano dai tratti impressionisti.

Un viaggio che affascina, a tratti seduce, spesso avvolge l’ascoltatore in modo quasi rassicurante, per un disco efficace in cui Francis M. Gri mostra nuovamente di avere parecchie frecce ancora da scoccare.

IN COLLABORAZIONE CON LOSINGTODAY

EL MATADOR ALEGRE (CABEZON RECORDS)

El Matador Alegre è il titolo del disco, El Matador Alegre è lo pseudonimo scelto da colui che ha interamente eseguito e prodotto il disco. Viene da chiedersi se il contrasto sia voluto; probabilmente si: in effetti di ‘alegre’ in questo disco c’è ben poco, sia nell’accezione di allegro, che in quella di lievemente ‘brillo’. Non che sia un male, comunque.

Dodici composizioni, all’insegna di un riuscito connubio tra elettrica e acustica da un lato e elettronica dall’altro.

Rimandi shoegaze, allusioni dreampop, suggestioni slow-core, delicate avvolgenze ambient, qua e là qualche abrasione ad animare un pò la situazione.

La lentezza, con rare eccezioni, come filo conduttore, in brani dilatati cantati con un tono all’insegna di una lieve malinconia, disincanto o magari semplice rilassatezza.

Un disco senza fretta, in cui ogni brano si prende il suo tempo, svolgendosi lungo i poco più di cinquanta minuti di durata evocando scenari suggestivi e panorami incontaminati.

Un lavoro che pur non brillando per originalità, riesce a imporsi all’ascolto per sincerità e immediatezza.

IN COLLABORAZIONE CON LOSINGTODAY

AIM, “WE ARE SAILING” (VIA AUDIO RECORDS)

Dopo un inizio di carriera all’insegna di sonorità post-hardcore, e un secondo disco che mostrava la volontà di dare una svolta al proprio stile, con “We are sailing” gli AIM proseguono quella svolta.

Il trio composto dal frontman Marco Fiorello (chitarra voce e testi) e dai gemelli Camisasca confeziona un lavoro quasi diviso in due parti.

Il disco comincia infatti con una manciata di brani dalla forte impronta eighties: chitarre dalle sonorità spesso à la Cure si accompagnano a un cantato maggiormente deciso, a una sezione ritmica più incisiva: ne esce un ibrido anche abbastanza riuscito, una rilettura di certi suoni che, se può far immaginare l’appartenenza al filone del revival post-punk degli ultimi anni (leggi Interpol, Editors e soci), ne è invece lontana. Il risultato è una sorta di revisione un tantino più ‘dura’ di quanto proposto da Robert Smith e soci, che certo non sfiora nemmeno quei picchi di intensità e liricità, ma che si fa piacere.

Un certo retrogusto pop, sornione nella ricerca di riff accattivanti, ma mai eccessivamente ammiccante è la spezia che rende questa prima parte del lavoro tutto sommato godibile.

Nella seconda parte del disco tuttavia, si mollano gli ormeggi da tale porto (anche abbastanza ‘sicuro’) per imbarcarsi nella ricerca di quella che forse vuole essere una maggiore sperimentazione, tentando ad esempio le carte di urticanti sonorità industriali, piuttosto che quella di certi muri chitarristici che ricordano lo shoegaze messi al servizio di ariosità dall’afflato quasi epico: un gruppo di brani dei quali, pur facendosi apprezzare la volontà di tentare qualcosa di diverso, lasciando quella che per certi versi è una certa ‘facilità’ che caratterizza i primi pezzi, si fa notare però una certa mancanza di direzione, un orientamento indeciso: il disco, inizialmente coerente e strutturato, appare perdere compattezza.

Testi tutto sommato riusciti, che alternato inglese ed italiano completano un lavoro che si lascia ascoltare, pur perdendo coesione sulla lunga distanza: per gli AIM appare alla fine un disco di ‘passaggio’, che forse tradisce una certa indecisione sulla strada da far prendere al proprio stile.

 IN COLLABORAZIONE CON LOSINGTODAY

REPLACE THE BATTERY, “DAILY BIRTHDAY” (IN THE BOTTLE RECORDS)

Disco di esordio per questo quartetto proveniente dalla provincia di Padova: otto brani nei quali viene proposta la rilettura di varie esperienze sonore, riconducibili a un’ ampia area che, partendo dallo shoegaze, fiinisce per addentrarsi nei territori di certo ambient – noise dai contorni psichedelici.
I punti di riferimento sono quindi abbastanza prevedibili: si va dai My Bloody Valentine e, magari dagli Spacemen 3 (anche se con effetti meno ‘invasivi’), per arrivare alle esperienze, più vicine ai tempi attuali, di gruppi come Mogway o Explosions In The Sky (anche in questo caso senza raggiungerne gli effetti dirompenti).
Alternando brani strumentali a pezzi cantati (in inglese), il quartetto veneto riesce a dare vita a un disco che, pur scoprendo fin da subito i propri punti di riferimento sonori, riesce comunque a mostrare una certa personalità, grazie all’insegna di una formula che mescola una certa ‘piacevolezza sonora’ (qua e là anche con qualche esito quasi ‘radio-friendly’), all’intenzione di rispettare le coordinate della propria rotta.
Il risultato è un disco anche abbastanza vario, all’insegna di una costante ‘densità elettrica’ dagli effetti a tratti stranianti, che alterna momenti più improntati all’emotività (e a volte a un intimo raccoglimento), ad aperture più irruenti, pronte quasi a sfociare nella cavalcata siderale.
Un disco che appare ancora più riuscito nel suo essere un esordio e nel mostrare quindi una band probabilmente non ancora sviluppato pienamente le proprie potenzialità.

IN COLLABORAZIONE CON LOSINGTODAY