Posts Tagged ‘psichedelia’

DEATH MANTRA FOR LAZARUS, “DMFL” (VINA RECORDS / BELIEVE)

Tanta ne è passata, di acqua sotto i ponti, dal precedente disco – ed esordio – degli abbruzzesi Death Mantra For Lazarus, targati 2010.

Nove anni dopo i nostri si riunivano per dare vita al seguito che, complici clausure collettive e quant’altro, vede la luce solo oggi.

La scelta è di cambiare impostazione nel segno di una maggiore compattezza, anche se i profumi post rock e, in misura minore, prog, che avevano costituto il modello di partenza, si possono ancora riscontrare in queste sette composizioni.

Disco quasi del tutto strumentale (fa eccezione ‘Like Dolphins’, con le voci di Jester At Work e Giulia Flacco), “DMFL” vive su una chitarra rverberata che si accompagna a basso e synth, con occasionali interventi di archi (Valeria Vidini) e l’episodica partecipazione di una tromba (Francesco Di Giandomenico).

È un lavoro dai contorni onirici in cui la consistenza ferrosa della chitarra, sfumata attraverso il dialogo con basso e synth, con la batteria da tenue contorno, trasferisce l’ascoltatore in un ‘altrove’ che assume talvolta connotati vagamente psichedelici, sfiorando le costruzioni sonore vagamente noisy dello shoegaze.

La scelta di uno disco affidato quasi del tutto agli strumenti è discretamente coraggiosa, in un’epoca di parole che a volte sono anche troppo eccessive: i suoni si riprendono la scena, consentendo all’ascoltatore di darne una lettura personale legata al proprio vissuto e / o immaginario.

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MARCO BONVICINI, “WILD SILENCE” (NEW MODEL LABEL”)

Ha una storia lunga e articolata, Marco Bonvicini: dal prog, al funky fino al rock senza troppe etichette; dalle band alla carriera solista, alle numerose e svariate collaborazioni.
Nuovo capitolo della vicenda discografica del cantautore bolognese, “Wild Silence” trasporta l’ascoltatore in territori sospesi in ‘terre di confine’; decisa l’impronta di certo folk americano contemporaneo, in una formula semiacustica che unita a qualche effetto, dà a tratti l’idea di parole e musica provenienti da un ‘altrove’ vagamente discostato dalla comune realtà.
Costante la suggestione di quegli spazi aperti in cui il ‘Silenzio Selvaggio’ della natura prende il sopravvento sul ‘rumore di fondo’ della società.
La dimensione per certi versi onirica di certi brani, talvolta a lambire territori psichedelici, trova un contraltare in brani da una vocazione più apertamente rock, tinte accese e solari.
Un lavoro dalle tinte variegate, in cui Bonvicini è affiancato da un manipolo di compagni di strada, ad arricchire un ensemble musicale che, facendo praticamente a meno delle percussioni, eccetto un isolato battito di mani, si fonda su chitarre e bassi, piano e hammond, cori di accompagnamento.
Un lavoro capace di farsi riascoltare.

MISTERISEPARLI, “SPEEDBEFOREDEATH” (VINA RECORDS / BELIEVE)

Disco d’esordio per questo duo pescarese (Pepi ed Andrew i ‘nomi di battaglia’), primo traguardo di una collaborazione che dura già da qualche anno.
Frutto di jam session e collaborazioni assortite, i sei brani che compongono “Speedbeforedeath” si snodano all’insegna di un’elettronica dalle varie consistenze e suggestioni, dal coloratissimo funky iniziale, dai tratti dance, al fluire quasi liquido di suggestioni orientali che chiude il lavoro.
In mezzo, si toccano territori cosmici e divagazioni psichedeliche, si lambisce il lounge e si flirta con suggestioni etniche.
Rari gli interventi vocali: il refrain ripetuto del brano di apertura, il testo della title track, unica ‘concessione’ a un accenno di forma – canzone all’insegna dell’ironia.
Una serie di tappe, alcune delle quali non si ritraggono dall’ampliarsi fino a 9 – 10 minuti di durata, offrendo all’ascoltatore occasioni di straniamento ed immersione.
Un lavoro che, per quanto affidato a beat, basi e loop, non rinuncia a una vivace componente percussiva o interventi di chitarra, in un caso quella dell’ospite Lorenzo Conti (già con Negative Trip e Santo Niente).
È insomma un’elettronica che lavora di cesello su parti e campioni di musica ‘suonata’ che offre all’ascoltatore il proverbiale viaggio sonoro…

DEAR, “NEW ROARING TWENTIES / HUMAN DECISION REQUIRED” (NEW MODEL LABEL)

Due dischi (da qui i due titoli), 34 tracce, quasi 160 minuti di durata.

Bastano forse questi dati a inquadrare il nuovo lavoro di Davide Riccio, alias DeaR, musicista, polistrumentista, scrittore con 40 canni di carriera alle spalle.

Una di quelle storie sconosciute, restate nell’ombra, lontano dai riflettori, eppure andate avanti per decenni.

Non un lavoro ‘facile’, perché contraddice tutti o quasi gli ‘imperativi’ odierni: nell’epoca dei brani centellinati sulle piattaforme digitali, dei dischi ‘lunghi’ fatti uscire spesso col contagocce e mille ripensamenti, della vellocità e del ‘tutto-e-subito’, il progetto DeaR è un mastodonte, un leviatano che chiede, per certi versi ‘pretende’ addirittura, l’attenzione dell’ascoltatore.

Una maratona in due parti, un esercizio di pura ‘resistenza’, una sfida con pochi compromessi, per un progetto che ci riporta – e non solo per la ‘struttura’, agli anni ’70, regno dei concept album e degli ascolti interminabili.

Decenni di acqua sono passati sotto i ponti e anche i più avvezzi, i più abituati, i più ‘aperti’ finiscono per essere in un certo senso ‘disorientati’, semplicemente perché ormai manca l’abitudine a questo tipo di progetti e insomma, non è che per esempio si ascolti tutti i giorni “Ummagumma” dei Pink Floyd.

Il piatto, oltre a essere abbondante, se non ottimo, è ben più che discreto: le suggestioni sono tante: David Bowie su tutti (fino a un pezzo esplicitamente dedicato, tra i migliori del lotto), assieme a Lou Reed, David Sylvian (anche quello di certe ‘escursioni orientali’), gli stessi Pink Floyd, mescolati con un’ampia dose di elettronica che può rimandare alle vivaci stagioni degli anni ’70 e ’80.

Su tutto si staglia la vocalità di Riccio, il cui ‘vissuto’ è evidente in ogni pezzo, restituendo intensità.

Un disco senza compromessi, un ascolto che potrà essere estremamente o all’opposto diventare addirittura estenuante, ma in ogni caso una sfida, pronta ad essere accolta da chi ha curiosità e soprattutto disponibilità a dedicare alla musica un’attenzione che vada ben oltre ciò che oggi spesso e volentieri è semplice ‘sottofondo’.

“MAX ALOISI TRIO” (VINA RECORDS / BELIEVE DIGITAL)

Trent’anni di esperienza alle spalle, passati a suonare in giro per il mondo (anche in location non ‘scontate’, come l’Indonesia), Max Aloisi ha spesso trovato nel trio la forma più adatta a esprimere le proprie idee sonore, come già avvenuto nell’esordio, “Blues Machine”, uscito ormai parecchi anni fa.

Oggi, ecco arrivare il secondo capitolo, che vede Aloisi affiancato dal sodale di lungo corso Alex Paci e dal batterista Lou Thor.

Nove pezzi all’insegna di un rock blues che alterna momenti dai colori sgargianti e l’energia quasi prorompente a parentesi dalla vena psichedelica, i cui argomenti, da riflessioni sulla solitudine personale a sguardi su un mondo che sembra prendere una china sempre più folle, sono più che mai in linea coi tempi attuali, per quanto siano stati scritti prima dell’esplosione della situazione che stiamo vivendo da ormai quasi un anno e mezzo.

L’intento dichiarato, riproporre la validità del ‘caro, vecchio blues’, offrendolo con una veste più ‘attuale’, non disdegnandone il lato ‘ballabile’, è raggiunto attraverso un lavoro vivace, che tiene viva l’attenzione, senza mai ‘sedersi’, ma offrendo una discreta varietà di ‘scenari’ e umori.

ALEK HIDELL, ‘YOLK’ – SINGOLO (TROVAROBATO)

Singolo introduttivo di “Ravot”, disco di esordio di questo produttore e compositore sardo – al secolo: Dario Licciardi – in uscita il aprile.

Un episodio dimenticato, drammatico e per certi versi oscuro, avvenuto in quel di Buggerru, è il punto di partenza di tutto il lavoro, anticipato da questo brano ruvido, tagliente, che reca con se echi della psichedelia e della stagione del ‘krautrock’, con accenti onirici nel segno dell’inquietudine.

LUCA DELL’OLIO, “QUASARIDIOMA” (LIBELLULA MUSIC)

Sonorità ‘Made in USA’, passate e presenti, nell’esordio del cantautore, comasco di nascita, torinese d’adozione.

Luca dell’Olio si con presenta otto brani in cui forti sono le influenze – sonore e non solo – di tutto un’immaginario che dal folk psichedelico di Crosby, Stills, Nash e Young, arriva fino a noi, con Wilco e simili.

Voce e chitarra per lo più, ma lo stesso dell’Olio è un po’ un ‘factotum’, con un pugno di collaboratori che arricchisce la sostanza sonora del tutto.

Rivoluzioni sognate ma mai realmente realizzate, riflessioni esistenziali, errori di percorso, le immancabili traversie sentimentali.

La California che si trasfigura nella più vicina Sardegna, al sole estivo della quale il disco è stato concepito: colori vividi e un cantato per lo più vivace, con episodi in cui le atmosfere si fanno più rilassate, rarefatte, con accenni quasi ‘spaziali’.

GIOSTRE, “GETTONI” (XO PUBLISHING / LIBELLULA MUSIC)

Un parco giochi scalcinato, in mezzo disarmo, tra attrazioni mezze abbandonate, altre perfettamente funzionanti, tra le quali aggirarsi con un pugno di ‘Gettoni’ in saccoccia…

Jacopo Gobber, compositore e sound designer che ha collaborato, tra gli altri, anche con Disney, viene improvvisamente ‘fulminato’ dall’idea di unire canzone d’autore, psichedelia ed elettronica, da quella delle ‘tastierine’ anni ’80 alla techno anni ’90 e qualche accento ‘sguaiato’.

Assieme ad alcuni compagni di strada, Gobber assembla otto pezzi in cui, dietro l’apparente gioco di costruzione di mosaici sonori di varia ispirazione – in qualche caso si arriva ai limiti del ‘Blob’, come con la citazione pavarottiana inserita nell’apripista ‘Turandot’, emerge uno sguardo disincantato, più amaro che cinico, sulla realtà e in particolare certi ‘meccanismi’ nei quali quali ci si trova proprio malgrado, come ad esempio la burocrazia con la quale si è costretti a fare i conti anche in situazioni delicate come la malattia di un parente.

Prevale talvolta il nonsense, il gusto per il calembour, mentre altrove ci si ritrova a riflettere sulla propria identità di musicista e qua e là si fa spazio la riflessione, più o meno esplicita, su certi ‘riti’ come i ritrovi in spiaggia o in piazza.

Il risultato può ricordare certe esperienze di un passato più o meno prossimo: possono venire in mentre a tratti gli Amari (per chi li ricorda), del resto citati esplicitamente in una ‘lista di gradimenti’ che va da Syd Barrett ad Achille Lauro, passando per Flaming Lips e Aphex Twin.

Un disco obliquo, che per la sua natura di ‘patchwork’ sonoro invoglia all’ascolto ripetuto, sempre alla ricerca di ciò che in precedenza era sfuggito.

EMILIANO MAZZONI, “EMILIANO MAZZONI” (PRIVATE STANZE / NEW MODEL LABEL / AUDIOGLOBE)

È una scrittura sospesa, quella di Emiliano Mazzoni: c’è questo susseguirsi di sprazzi di ricordi, tra infanzia, adolescenza e maturità, c’è qualcosa di ancestrale: una ‘Natura’ che fa sempre da sfondo: ricorre l’erba, intesa proprio come terreno, e poi il vento, la nebbia, la Luna, la luce; del resto, Mazzoni (qui al quarto lavoro) è originario di un paese dell’Appennino modenese.

C’è un’idea dei rapporti umani, anche sentimentali, che sembra cercare essenzialità, una mancanza di filtri, un po’ come succede col contatto con la natura.

Analogo il percorso proseguito dalla proposta sonora, accompagnata da un’interpretazione costantemente sottotraccia, a tratti quasi dolente, che pur riportando qualche suggestione psichedelica e riferimenti d’oltreoceano, appare radicata nella tradizione popolare (oltre che cantautorale) delle proprie origini.

ROSGOS, “LOST IN THE DESERT” (AREASONICA RECORDS)

Secondo lavoro per il progetto di Maurizio Vaiani, in precedenza attivo nei Jenny’s Joke; a due anni di distanza da “Canzoni nella notte”, Vaiani sceglie di tornare all’inglese (come negli stessi Jenny’s Joke) cercando un ‘respiro internazionale’.

Undici pezzi, prodotti con l’aiuto di Marco Torriani (Bugo), che appaiono guardare al cantautorato neo-folk d’oltreoceano, senza disdegnare u e asprezze tipiche di certo rock alternativo anni ’90, con accenni a noise e psichedelia e dando un’occhiata qua e là a un pop – rock, con qualche lontana somiglianza coi Coldplay.

“Lost in Desert” finisce così per essere un lavoro discretamente variegato, ma che conserva una certa coerenza interna; per il progetto RosGos forse un nuovo punto di partenza.