Posts Tagged ‘Paolo Benvegnù’

“A TUTTI PIACE FRED” (WARNER MUSIC ITALIA)

Cinque CD e oltre cento brani per omaggiare un grande fin troppo dimenticato della storia della musica italiana, nel 60° anniversario della scomparsa: Fred Buscaglione.

I primi tre dischi offrono un’ampia selezione della produzione dell’artista torinese; il quarto è una chicca per intenditori: una serie di pezzi introdotti dai commenti di Leo Chiosso, suo storico paroliere e collaboratore.

L’ultimo, offre una serie di cover, interpretate da alcuni esponenti delle nuove generazioni, da Brunori Sas a Lo Stato Sociale, con l’aggiunta di artisti più maturi come gli Statuto, Paolo Belli o Paolo Benvegnú, e gli interventi di Ornella Vanoni e ‘nientepopòdimenoche’ Mina.

A 60 anni dalla scomparsa, il ruolo di Fred Buscaglione nella storia della canzone e della musica popolare italiana è ancora privo del riconoscimento adeguato.

Dipende probabilmente dal fatto che quando preferisci i ‘gessati’ai maglioni a collo alto, lo swing agli chansonnier francesi e storielle divertenti a base di gangster sgangherati e ‘donne fatali’ ai

‘mille papaveri rossi’ e ‘i fari spenti nella notte’, già finisci per essere preso poco sul serio.

Così, Fred Buscaglione viene ricordato per la ‘piccola così’, il ‘dritto di Chicago’ o Porfirio Villarosa, dimenticandosi troppo facilmente tutto il resto.

Buscaglione appartiene a quella schiera di pionieri che nel secondo dopoguerra contribuirono a svecchiare una canzone italiana ancora legata ai modi del ‘bel canto’, arricchendola con le sonorità dello swing, del jazz, del rock provenienti da oltreoceano.

L’Italia degli anni ’50, che usciva dalla guerra e si dirigeva verso il ‘boom’ aveva del resto bisogno di leggerezza, di ridere: e Buscaglione, certo non da solo (al lato opposto dello ‘Stivale’ lo stesso faceva un altro grande poco riconosciuto, come Renato Carosone), non si tirò indietro, creandosi questo personaggio del gangster di serie B, cin l’animo del ‘conquistatore’, del ‘latin lover’ che finiva puntualmente ‘fregato’ da donne solo apparentemente inoffensive.

Prima dell’esistenzialismo cantautorale che svelava il lato oscuro del benessere degli anni del ‘boom’, prima dei ‘mal di pancia’ di Mogol e Battisti, Buscaglione e la sua generazione posero le basi di tutto ciò che venne dopo, traghettando la canzone italiana da Claudio Villa e Nilla Pizzi a Sinatra ed Elvis.

Il lascito di Buscaglione è insomma ampio e in qualche modo ancora da indagare, in larga parte sottovalutato a causa di questa maledetta tendenza a prendere poco sul serio chi si prende poco sul serio, che troppo spesso ha privato del necessario riconoscimento, chi avrebbe meritato più gloria, in vita e postuma.

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CESARE MALFATTI, “UNA CITTA’ ESPOSTA” (ADESIVA DISCOGRAFICA)

Sei capolavori (più uno) della storia dell’arte e sei luoghi scelti per la loro singolarità, o per il loro valore storico – culturale più recente, disseminati nel territorio milanese. I primi li ha scelti Alessandro Cremonesi, nell’ambito del progetto “Milano A Place To Be”, sorta di ‘braccio culturale’ dell’Expo all’interno del tessuto urbano milanese: sei opere, appunto, una per ogni mese di durata dell’Expo; poi, arriva l’idea di mettere in musica il tutto, coinvolgendo Cesare Malfatti (già compagno di avventure di Cremonesi nei La Crus), assieme ad un gruppo di eccellenze del cantautorato italiano contemporaneo.

Tredici brani, eseguiti da Cesare Malfatti partendo dai testi scritti da Paolo Benvegnù, Francesco Bianconi (Baustelle) e Kaballà, Luca Morino, Luca Gemma, Gianluca Massaroni, Luca Lezziero, Vincenzo Costantino Chinaski e lo stesso Alessandro Cremonesi; Cesare Malfatti interpreta e dà forma sonora ai pezzi.

Si potrebbe affermare che “Una città esposta” è un disco ‘discreto’: non nel senso del giudizio, ma in quello dell’approccio: del resto, quando si tratta di mettere in musica opere come il Cenacolo vinciano, la Pietà Rondinini, Il Bacio di Hayez o Il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, non si può che farlo ‘in punta di piedi’, un po’ come il visitatore che si trova di fronte a questi capolavori.

Un disco rarefatto, in cui Malfatti più che cantare ‘sussurra’, o ‘sospira’: torna il paragone con lo spettatore che di fronte alle opere non può che esprimersi con un filo di voce, per non rompere ‘l’incanto’ della magnificenza visiva cui si trova di fronte.

Suoni sospesi tra elettricità, elettronica ed acustica: chitarre che ora tessono flebili trame, ora si esprimono attraverso sferzate elettriche, tappeti sintetici minimali con qualche vaga allusione ‘rumoristica’, una sezione ritmica in alcune parentesi composta e che procede quasi per ‘sottrazione’, ma che molto più spesso si snoda flirtando con climi funkeggianti: il contraltare ad un cantato che potrebbe definirsi quasi dimesso è insomma un campionario sonoro per lo più volto al ‘movimento’ o alla luminosità dei toni, pur mantenendo un atteggiamento ‘rispettoso’ e forse un po’ di ‘soggezione’ rispetto alle opere trattate.

Nelle parole di Benvegnù, Il Quarto Stato non può che riaffermare la propria potenza nel continuare ad essere metafora del mondo del lavoro anche oggi, ad un secolo di distanza, dove allo sfruttamento si è aggiunta la dinamica del consumo a tutti i costi; lo stesso ex-Scisma scopre il mondo di passione e sensualità celato dietro al Bacio di Hayez, mentre Francesco Bianconi assieme ai Kaballa restituisce al Concetto spaziale di Fontana la sua potenza iconoclasta e libertaria, per poi viaggiare a ritroso per 2.000 anni e dare voce ai pensieri di Gesù durante l’Ultima Cena; Luca Morino esalta la tenerezza materna della Pietà Rondanini e Alessandro Cremonesi isola nello Sposalizio della Vergine di Raffaello il carattere di evento fatidico, quasi di snodo universale.

A questi sei capisaldi si aggiunge un tuffo nella contemporaneità: quello di L.O.V.E. di Cattelan, meglio conosciuto come il ‘dito che manda affanculo la Borsa”, per Luca Lezziero simbolo di una libertà di espressione – forse – tutta da riconquistare.

E poi ci sono i ‘luoghi’, caratteristici o simbolici: le strade dedicate al figlio di Mozart od Ho Chi Minh; la dedica a Bob Noorda, olandese trapiantato a Milano, quasi dimenticato autore dei marchi Coop, Feltrinelli, Mondadori, Agip, Touring Club Italiano; la memoria del Teatro Continuo di Burri, luogo di incontro e socialità restituito recentemente alla Città, e quella del Tombon de San Marc, un bacino ormai scomparso, a quanto pare luogo prediletto dei suicidi la strenua resistenza della Cascina Campazzo, simbolo di una provincia agricola che rischia di essere soffocata dal cemento (e qui in controluce si può forse leggere una critica allo stesso Expo).

Alla fine , “Una città esposta” diventa una sorta di omaggio alla Milano migliore, quella del passato più o meno remoto, quella degli anni ruggenti delle avanguardie, quella attuale che, con un’immagine un po’ scontata, si può dire rappresenti i paradossi e i controsensi dei primi decenni del millennio.

A dirla tutta, l’Expo milanese ci aveva rotto le scatole già sei mesi prima della sua inaugurazione; ha continuato a scassarci gli zebedei anche successivamente, col suo ampio campionario di ipocrisie legate all’alimentazione e al problema del nutrimento mondiale, mentre i visitatori hanno continuato a mettersi in coda per mangiare da McDonald o al padiglione Italia, come se per mangiare ‘italiano’ si avesse avuto bisogno dell’Expo e di Eataly, come se poi un bel pezzo di pizza bianca con la mortadella assemblata all’alimentari sotto casa oltre a costare di meno, non offra maggiore godimento e non sia poi così dannosa per la salute, specie se gustata dopo essersi fatti qualche chilometro camminando o di corsa).

A parziale indennizzo di questo monumentale attentato ai nostri attributi, arriva l’ultimo lavoro di Cesare Malfatti.

AA.VV., “SOTTO IL CIELO DI FRED – UN TRIBUTO A FRED BUSCAGLIONE” (PREMIO BUSCAGLIONE /LIBELLULA MUSIC / AUDIOGLOBE)

Nato nel 2010, il Premio Buscaglione, “Sotto il cielo di Fred” punta a valorizzare le band emergenti, omaggiando allo stesso tempo il cantautore torinese.

La pubblicazione di un cd – tributo era uno degli obbiettivi degli organizzatori fin dalle prime edizioni: meta finalmente raggiunta, grazie al contributo di dodici rappresentanti del cantautorato dei giorni nostri.

L’interesse di questa compilation risiede nell’essere una fotografia di buona parte di ciò che meglio ha da offrire la scena musicale italiana degli anni ’10 del ventunesimo secolo, dai Perturbazione a Paolo Benvegnù, da Dente a Lo Stato Sociale, da Brunori Sas, a Il Pan del Diavolo, e l’elenco potrebbe proseguire… certo, forse non ci sono proprio tutti – tutti (personalmente, sarei stato curioso di vedere alle prese col caro vecchio Fred gente come Il Teatro degli Orrori, per dirne uno), ma comunque il piatto, come si dice in questi casi, è ottimo e abbondante.

I partecipanti hanno rispettato il materiale di partenza, mettendoci del loro: senza dilungarsi troppo ad elencare i caratteri di ognuno, sarebbe sufficiente citare la versione quasi anni’40 di ‘Juke Box’ presentata dai Sweet Life Society, i ritmi quasi reggaeggianti con cui Lo Stato Sociale ha tradotto ‘Teresa’, gli accenti mariachi con cui gli Etruski from Lakota hanno costellato ‘Porfirio’; si fanno ricordare la lettura carica di nostalgia che Paolo Benvegnù ha dato di ‘Love in Portofino’ e soprattutto il brano più famoso dell’intera discografia di Buscaglione, ‘Eri piccola così’, qui eseguita da Bugo con la sua solita attitudine all’insegna di un disincanto quasi annoiato.

Quando il materiale di partenza è di livello e gli esecutori sono di valore, il risultato non può essere che soddisfacente… al di là degli esiti, l’importanza di “Sotto il cielo di Fred” sta proprio nell’omaggiare un artista fin troppo spesso dimenticato, almeno quando si tratta di elencare i grandi della canzone italiana: forse per il suo essere stato un ‘irregolare’ (sorte condivisa con altri ‘non allineati’, si pensi ad esempio a Ivan Graziani, o Enzo Jannacci) una sorta di ‘unicum’, per il suo costante ricorso all’ironia, talvolta allo sberleffo, per quanto amari, che lo ha distanziato dalla ‘norma’ del cantautore italiano tutto volto ad un’introspezione, spesso cupa.

“Sotto il cielo di Fred” per certi versi finisce quindi per fare in un certo senso ‘giustizia’: e per questo lo si può quasi definire un disco ‘Necessario’.

CUMBO, “CUMBO” (FARMSTUDIOFACTORY / AUDIOGLOBE)

Non è mai troppo tardi per dare voce alle proprie aspirazioni: umbro di Città di Castello, classe 1966, Stefano Cumbo ha scelto di rendere più ‘solida’ quella fino a quel momento era stata una semplice passione, peraltro in un momento per nulla facile, in piena crisi economica. Dopo aver rielaborato brani di Dylan e Cohen e i primi pezzi scritti di suo pugno, ecco il traguardo del primo disco solista, assemblato assieme a Nicola Matteaggi e Matteo Carbone e col contributo di Paolo Benvegnù in sede di registrazione.

Nove pezzi all’insegna di un cantautorato se vogliamo abbastanza ‘consueto’, che risente dell’influenza della nobile tradizione italiana del genere; introspezione, osservazione della realtà, dominata dai ‘Furbi’ (citando una poesia di Bukowsky) cui si contrappongono i pochi ‘Arditi’; dediche letterarie – ad ‘Emil’ (Cioran) – e a personaggi di cronaca, Angelo Vassallo, sindaco di Pollica ucciso dalla criminalità organizzata; una stilettata contro la tecnologia sempre più invasiva e – spesso – inutile.

Insieme sonoro anch’esso abbastanza tipico: piano, archi e fiati ad accostarsi ai canonici chitarra – basso – batteria, per brani di volta in volta orientati ad un pop di classe, a qualche scabrosità rock, impressioni jazzistiche; un cantato che può ricordare quello di Federico Fiumani dei Diaframma, espresso in modi spesso eleganti, non privi di accenti sarcastici, di parentesi malinconiche o momenti più sferzanti.

Il disco d’esordio di Cumbo nel complesso può convincere, anche se qua e là dà l’idea di una ‘perfezione’ un filo troppo ricercata; una ‘compostezza’ di modi e di toni rispetto alla quale ci si lascia andare solo episodicamente, forse rischiando di perdere di immediatezza.

Potete ascoltare qui.

MULHOLLAND DRIVE, “LA MISURA DELL’EQUILIBRIO” (PAGINA3/FARMSTUDIO FACTORY / AUDIOGLOBE)

Nati un paio di anni fa, gli umbri Mulholland Drive tagliano il traguardo del primo lavoro da studio, fregiandosi della collaborazioni, tra gli altri, di Paolo Benvegnù.
Il quartetto mescola una spiccata indole cantautorale (le parole appaiono sempre avere un certo risalto rispetto ai suoni) a sonorità rock cui certe frequenti abrasioni conferiscono non di rado tinte indie, con qualche accento new wave; non viene comunque tralasciato il lato melodico della questione, che anzi viene sempre cercato con una certa insistenza. L’insieme strumentale è abbastanza classico: ai canonici chitarra-basso e batteria si affiancano le presenze del piano e di qualche effetto ‘d’ambiente’, altrettanto consuete per queste occasioni, con funzione di ‘riempimento’ e di ‘arricchimento emotivo’.

“La misura dell’equilibrio”, dice il titolo: equilibrio rispetto ad una realtà che non piace: conflitto con un mondo circostante in cui una società all’insegna del ‘controllo’, sembra tirare fuori il peggio delle persone; conflitto non solo verso l’esterno, ma anche verso l’interno: non si sta bene con gli altri, ma forse nemmeno con sé stessi.
La soluzione allora, è la ‘fuga’, o meglio, la ricerca di momenti di ‘astrazione’: parentesi di autentica comunione con la natura, fughe nei sentimenti, vissuti o anche solo ‘ricordati’, scappatoie nell’immaginazione, in territori onirici: non a caso sia il titolo del disco che quello di uno dei pezzi omaggiano David Lynch, il cui cinema si svolge costantemente in territori indistinti a cavallo tra realtà, sogno immaginazione.
Un esordio che può convincere, pur con qualche limite e l’impressione che la band debba ancora focalizzare del tutto il proprio stile.

Chi vuole, può ascoltare qui.

AA.VV. “VOCI PER LA LIBERTA'” (MEI – ASSOCIAZIONE CULTURALE VOCI PER LA LIBERTA’)

16° FESTIVAL MUSICALE NAZIONALE DAL VIVO – UNA CANZONE PER AMNESTY

Ormai quello che con “Voci per la Libertà” è diventato un appuntamento fisso, che unisce impegno – con la premiazione dei migliori italiani dedicati ai diritti umani – alla musica indipendente italiana, puntando alla scoperta di nuovi talenti.

L’edizione 2014 di Voci per la Libertà si terrà dal 17 al 20 luglio prossimi nella consueta location di Rosolina Mare: in quell’occasione verranno assegnati i vari premi Amnesty, a partire dal principale, che quest’anno verrà assegnato a Francesco e Max Gazzè per il brano ‘Atto di Forza’.

Nell’attesa, ecco uscire puntualmente la compilation dedicata ai vincitori e finalisti dell’edizione dell’anno precedente; la struttura della selezione non cambia: il brano vincitore dell’edizione 2013, ‘Gerardo nuvola ‘e povere’ di Enzo Avitabile e Francesco Guccini, dedicato alle morti sul lavoro, affianca gli esordienti, cinque, ognuno con due brani e i contributi di alcuni illustri ospiti. Il piatto è vario: si va dal cantato dagli accenti dialettali di Leo Miglioranza (oltre che dello stesso Avitabile), alle suggestioni dei Syncage, che sembrano arrivati direttamente dalla felice stagione del folk britannico dagli accenti prog degli anni ’60 e ’70; dal cantautorato classico di Andrea Dodicianni all’eleganza jazz degli Shapes of  Sound, fino ai Durden and The Catering, tra pop – rock venato di funk e una ballata dai risvolti ludici.

Completano il disco le partecipazioni di tre grossi calibri della scena ‘indie’: italiana: Marta sui Tubi, Paolo Benvegnù e Mario Venuti, la cui ‘Addio alle armi’ è trai brani che più si fanno ricordare nell’intero lotto.

Le tematiche toccano trasversalmente i vari aspetti dei diritti umani nei tempi attuali: dalle morti sul lavoro ai bambini soldato, dalla violenza delle ‘forze dell’ordine’ all’emigrazione, per una compilation che rinnova come al solito il connubio tra impegno e musica di qualità.

 

VANDEMARS, “SECRET OF GRAVITY” (ULTRAVIOLET BLOSSOM /AUDIOGLOBE)

Tornano i toscani Vandemars, a circa tre anni di distanza dal convincente disco di esordio, “Blaze“: tre anni nel corso dei quali la band visto entrare in pianta stabile nei propri ranghi il batterista Cris Bottai (già collaboratore di Ustmamò ed Articolo 31).

Il gruppo ha avuto modo nel frattempo di accrescere la propria esperienza, compiendo con questo “Secret of Gravity” il ‘grande passo’ verso una produzione completamente autogestita (il lavoro precedente aveva visto l’efficace collaborazione di Paolo Benvegnù).

Quattordici brani, nel segno di un disco che fa della compattezza il proprio miglior pregio, e questo nonostante che proprio nel disco di esordio i brani più lunghi fossero stati i più convincenti.

Stavolta la band sceglie invece di compattarsi ulteriormente, con brani che veleggiano tutti attorno ai tre – quattro minuti di durata.

Il cammino stilistico appare volto alla ricerca di una cifra maggiormente autonoma, ad una conciliazione trai propri riferimenti sonori – quelli, anche ‘pesanti’, degli anni ’90 – ed un’attitudine almeno apparentemente più ‘pop’ (senza che il termine abbia una connotazione negativa). L’esito è una sorta di continuo dialogo tra gli strumenti, che sembrano sempre spesso lì lì per esplodere, come se scalpitassero per essere lasciati a briglia sciolta, e l’interpretazione della cantante Silvia Serrotti, spesso e volentieri improntata ad una certa malinconica dolcezza, talvolta colorata di maggiore rabbia.

Certo non mancano frangenti nei quali ci si lascia maggiormente andare, e i pezzi acquisiscono un’attitudine più sfrontata (specie nelle chiusure di alcuni pezzi, dove gli strumenti prendono il sopravvento, lasciati liberi di galoppare); ma nello scorrere del lavoro sembra comunque dominare questa ricerca di un equilibrio tra ardore sfrontato e intimo raccoglimento, complice l’ampio ricorso ad un’elettronica che talvolta rende il tutto più ovattato, vagamente onirico.

Sensazioni che ritroviamo anche nei testi: domina la riflessività, all’insegna di un continuo ritornare di un desiderio di fuga, da un realtà ostile o verso la piena realizzazione di sé stessi, talvolta esplicitamente dichiarata, in altri frangenti filtrata attraverso l’immaginazione o il sogno.

Quattordici pezzi (contando anche il breve intro ed un intermezzo strumentale), completamente registrati in presa diretta, che mostrano una band forse ancora alla ricerca di una propria compiutezza stilistica: come se  “Secret of Gravity” rappresentasse quasi un nuovo inizio, il lavoro di una band che, ormai consapevole dei propri mezzi e potenzialità, ma ancora in attesa di capire come realizzarle.

E alla fine questa è la stessa impressione comunicata dal lavoro: una band capace, un’intepretazione efficace, ma sullo sfondo forse un filo di incertezza sulla strada da percorrere.

 

SALUTI DA SATURNO, “DANCING POLONIA” (GOODFELLAS)

Leggete il nome della band; leggete il titolo del disco; e poi domandatevi se ci sia veramente da stupirsi se all’ascolto ci sia qualcosa di obliquo, di ‘strano’; di sfuggente.

Lui è Mirco Mariani, uno che ha collaborato (alla batteria) per dire, con Enrico Rava e Vinicio Capossela; lo stesso, tra l’altro, che nei ’90 diede vita ai Mazapegul, rimasti nelle orecchie, e nel cuore, di chi ama la musica italiana meno ‘irregimentata’.

In fondo, la musica dei Saluti da Saturno è nient’altro che pop cantautorale; tuttavia c’è sempre uno ‘scarto’, qualcosa che non torna: nella musica, in cui c’è sempre qualche elemento dissonante; nelle parole, dove sembra sempre che ‘manchi’ qualcosa, fine. Un luogo immaginario, il Dancing Polonia, molto ‘cinematografico’, se vogliamo, come cinematografici spesso e volentieri sono i riferimenti del disco, con omaggi all’armeno “Vodka Lemon” firmato da Hiner Saleem o al Kaurismaki di “Miracolo a Le Havre”.

E insomma, ti immagini questo “Dancing” vecchio stile, nel bel mezzo del nulla, forse manco sulla Terra, alla fine, forse proprio su Saturno o in una dimensione ‘tangenziale’, che sfiora appena il nostro mondo. Ti immagini, forse un pò banalmente, ‘sto locale dove avventori vari ed eventuali si ritrovano senza manco sapere come né perché e si raccontano storie; e sullo sfondo del locale, su un palco trasandato, suonano i Saluti da Saturno, con un armamentario di strumenti strani dai nomi strani: Optigan, Mellotron, Ondes Martenot, Theremin, Glassarmonica, Wurlitzer, Ondioline… retaggi di un’archeologia dei suoni che Mariani porta avanti ormai da anni.

E poi ogni tanto qualche avventore si alza e sale sul palco; facce note, a guardarle bene: quelle, ad esempio di Paolo Benvegnù ed Arto Lindsay, per dire. E ascolti i tredici brani, tra un violino, una tromba, un banjo, ti lasci portare dalle parole, da queste immagini spesso bucoliche, dediche famigliari e sentimentali, sequenze di emozioni suscitate da episodi di minima quotidianità, sprazzi di esistenzialismo, storie surreali come l’amore di un custode per la piscina di cui è a guardia o come detto, di ispirazione cinematografica. Il tutto in un’atmosfera sospesa, come se mancasse il famoso ultimo pezzo per rendere il puzzle pienamente comprensibile, che poi uno lo trova una settimana dopo, impolverato sotto al letto.

Cantautorato sbilenco, pop obliquo, brandelli di folk, musica da balera aliena (che forse in sottofondo nel famoso “Ristorante al termine dell’Universo” di Adams, suonano proprio i Saluti da Saturno)… qua è là, certo, l’esperienza con il buon Capossela si fa sentire, ma definire i Saluti da Saturno solo in forza di quella ‘derivazione’ sarebbe ingeneroso, e anche scorretto, alla fine. I Saluti da Saturno sono i Saluti da Saturno: ascoltateveli.

Brano consigliato: Un giorno nuovo