Posts Tagged ‘Minimalismo’

FEDERICO MECOZZI, “INWARDS” (WARNER MUSIC ITALY)

Secondo lavoro sulla lunga distanza per il violinista (e non solo), collaboratore di lunga data di Ludovico Einaudi.
Il precedente “Awakening” era scaturito dai viaggi e dagli incontri del compositore; stavolta, complice l’esperienza collettiva degli ultimi anni, il viaggio è all’interno di s:; un percorso di conoscenza forse necessario, al di là delle circostanze obbligate che ne sono alla base.
Nove composizioni interamente strumentali che si muovono inevitabilmente sul traino del violino e della sua gamma di possibilità, tra suggestioni etniche, dal Mediterraneo ad ambientazioni celtiche, e i territori della classica contemporanea, con accenti da colonna sonora e sfioramenti minimalistici.
Synth e sottili trame percussive si stagliano su uno sfondo sonoro variegato, ad accompagnare lo strumento solista.
Disco di vari umori e colori, “Inward” è disco che supera l’impressione di ‘già sentito’ con l’intensità della carica emotiva.

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FALLEN, “LJÓS” (ROHS! RECORDS)

Nuova produzione per il prolifico compositore, che presenta sette nuovi pezzi interamente strumentali, nel segno della sua proposta stilistica: minimalismo, ambient, suggestioni ‘spaziali’ e atmosfere gotiche, tra tastiere, chitarre e ‘tappeti’ assortiti, con qualche spruzzata new wave.

Tinte crepuscolari ma non troppo, per un disco come al solito evocativo.

FALLEN, “GLIMPSES” (CATHEDRAL TRANSMISSION)

Nuovo lavoro per il progetto Fallen, che dal 2015 ha proseguito il discorso cominciato dallo stesso autore con lo pseudonimo di The Child of A Creek.

Disco registrato per lo più in notturna, facendosi suggestionare dal clima esterno o dal fluire dei propri pensieri, “Glimpses”, come buona parte dei suoi predecessori è tutto giocato su atmosfere sospese e oniriche, sonorità dilatate, ambient e minimalismo.

Otto composizioni in cui chitarre dalle trame evanescenti, piano , celesta e sintetizzatori assortiti si mescolano a echi, scricchiolii, forse l’evocazione del picchiettare della pioggia sui vetri.

Come i suoi predecessori, anche “Glimpses” è un disco tutto affidato all’evocazione, che lascia all’ascoltatore il compito di ‘riempirlo’ di dargli un senso facendosene avvolgere e permettendo così di emergere al proprio personale vissuto, con riflessioni, pensieri e ricordi, magari sorseggiando un the in piena notte, volgendo lo sguardo verso il mondo circostante.

FALLEN “NO LOVE IS SORROW” (AOSMOSIS RECORDS)

Nuovo lavoro per Fallen, progetto portato avanti dall’artista precedentemente fattosi conoscere come The Child of A Creek.

Sei le composizioni presenti, come di consueto strumentali, formula più o meno invariata rispetto ai precedenti lavori dello stesso compositore: ci si addentra in territori al crocevia tra un filone che mescola rarefazioni ambienti e ripetizioni dai caratteri minimalisti con l’intensità di certe ispirazioni gotiche, in un insieme sonoro che affonda le proprie radici nella lezione impressionista.

Prevalgono le atmosfere dilatate, a tratti liquide, frutto di una strumentazione variegata in cui trovano spazio tappeti sintetiche, chitarre e batterie passate attraverso processi elettronici, la concretezza ‘materiale’ del pianoforte, l’afflato rasserenante, ma più spesso malinconico, dell’oboe, spezie dal lontano oriente apportate dai suoni del santoor o del koto.

Il titolo non lascia molto spazio all’immaginazione: le atmosfere sono dominate da un velo di malinconia che talvolta diviene un più pesante drappo; i titoli dei singoli brani vanno riportano suggestioni di sguardi verso l’infinito (Eyes like windows), sprazzi di luce (Shimmering), l’incontro tra elegia e carnalità (Soft Skin, Eternal Verses), fino al finale di un New Beginning che alla fine sembra comunque aprire la speranza alla fine di un percorso travagliato.

Un lavoro che come i precedenti ondeggia tra la difficoltà di una formula sonora che per la sua natura sperimentale richiede all’ascoltatore meno ‘pratico’ di tali territori uno ‘sforzo intellettuale’ in più, e la forza delle suggestioni che alla fine consentono più o meno a chiunque di lasciarsi andare.

PIN CUSHION QUEEN, “SETTINGS_2 EP” (AUTOPRODOTTO / SFERA CUBICA)

Ricapitoliamo: i Pin Cushion Queen sono un trio (Igor Micciola, Marco Calandrino, Zanardi) di base a Bologna, che sta pubblicando la propria musica in una sorta di trilogia: “Characters” il primo capitolo, targato 2011; “Stories” il terzo, ancora di là da venire; “Settings” quello in corso di pubblicazione, dato che la band ha deciso di scomporlo a sua volta in tre EP da tre brani ciascuno. La prima delle tre parti è uscita lo scorso aprile; giunge ora il momento della seconda.

I Pin Cushion Queen mescolano ruvidità elettriche ed elementi elettronici all’insegna di un’attitudine che loro stessi ammettono essere caratterizzata più dall’immediatezza e dall’istinto che non dallo studio, tenendo presenti i propri ‘numi’ tutelari – Radiohead, Battles e Liars – e strizzando l’occhio al minimalismo d’avanguardia (ricorrendo spesso alle ripetizioni insistite e vagamente stranianti di certe ‘cellule sonore’), articolandosi tra aperture movimentate e dilatazioni raccolte, usando l’elemento vocale (per quanto interpretando dei testi) come un ulteriore elemento che si aggiunge all’insieme sonoro.

Un disco in gran parte ‘suonato’ (a chitarre, bassi e batterie si aggiungono glockenspiel e pianoforte e synth ), in cui la componente elettronica acquisisce un ruolo di arricchimento dello sfondo sonoro, senza mai diventare invasiva.

Prima traccia dagli accenti plumbei, dolenti; seconda composizione volta ad un raccoglimento quasi contemplativo; più dinamica e articolata la terza, che supera gli otto minuti, ad attraversare vari climi, tra beat elettronici che alludono quasi al dancefloor e frustate ai limiti del noise.

Il secondo capitolo comincia a offrire un’idea più precisa della proposta dei Pin Cushion Queen, come di un gruppo volto alla sperimentazione, ma cercando di tenere aperto un canale di comunicazione con l’ascoltatore. Appuntamento alla terza parte per poter apprezzare “Settings” nella sua compiutezza.

PERTEGO’, “STATIONS” (COLLAPSED RECORDS)

Addentrarsi nel mare magnum della musica ‘indipendente’ italiana, quella fuori dai grandi giri delle etichette e dei media, significa anche e soprattutto avere a che fare con incontri casuali, come appunto può capitare allorché due navi incrocino le proprie rotte, salutandosi per non rivedersi più… la vita dura del sottobosco musicale è spesso fatta di band che durano il tempo di un disco o due, abbandonando preso la strada… ma a volte, capita di re-imbattersi in un gruppo conosciuto anni prima, scoprire, con piacere che, toh, hanno proseguito, sono andati avanti…

E’ quello che mi è successo coi Pertegò, la risposta (o almeno, una delle possibili risposte) italiana ai Sigùr Ros: conosciuti a fine 2008, con quello che ai tempi era il loro primo disco ‘importante’; li ritrovo, con piacere, oggi con il loro terzo full length (cui si va aggiunto un EP di 4 tracce), in uscita ad inizio giugno.

La formula è immutata, all’insegna di quel particolare connubio tra dilatazioni che evocano distese algide ed incontaminata e allo stesso tempo il calore trasmesso dalle tessiture chitarristiche, spesso dalla grana new wave . Il trio di Piacenza non fa certo mistero di avere il gruppo islandese come principale fonte di espressione ma, come in occasione del precedente disco, limitarsi solo a questo sarebbe semplicistico; del resto le dilatazioni non sono certo monopolio degli scandinavi, basti solo ricordare certe esperienze più ‘pesanti’ come quella degli Explosions In The Sky o dei Neurosis, padrini del genere…

“Stations”  (nove brani,  per circa un’ora di durata,  con  episodi che sforano i sette, gli otto, anche gli undici minuti)  tuttavia appare vivere anche su altro: la band sembra aver intrapreso un cammino di ulteriore studio dei propri suoni e affinamento del proprio stile; si avverte una certa voglia di sperimentare in più, la necessità di non incasellarsi troppo, la ricerca – nelle dilatazioni ambientali (dietro alle quali si celano naturalmente le lezioni della scuola minimalista, di Brian Eno o di certe sperimentazioni frippiane) – del connubio tra melodie struggenti ed esplosioni,  scarna essenzialità e muri sonori, con un cantato (quando presente) evanescente, all’insegna di un falsetto volto ad una malinconia singhiozzante, sovente con una funzione, da strumento aggiuntivo all’ensemble.

Il nuovo lavoro dei Pertegò è uno di quei dischi che finisce per ‘sfidare’ l’ascoltatore: al primo ascolto se ne sta lì, tranquillo, quasi come fosse musica di sottofondo, ma in seguito comincia a svelare particolari e pieghe nascoste, stimolando la curiosità per il dettaglio. Emotività intensa e cura tecnica per un disco che affascina.

K-CONJOG, “DASEIN” (ABANDON BUILDING RECORDS)

Costruire un disco partendo dal filosofo Martin Heidegger denota, se non altro, una certa dose di coraggio… attenzione, non che Fabrizio Somma, alias K-Conjog, scelga di enucleare nel suo disco le idee dell’autore di ‘Essere e tempo’: l’idea è piuttosto un ‘filo conduttore ideale’ che resta in gran parte nella testa dell’autore e che forse l’ha guidato nella realizzazione del lavoro, la cui unica traccia evidente alla fine resta nel titolo, “Dasein” (ovvero l’esistenza, concetto centrale della filosofia heideggeriana)…

Se avete avuto la pazienza di leggere fin qui, non vi siete stufati o non siete stati presi dall’impulso irresistibile di andarvi a rileggere Heidegger (lettura più impegnativa e stimolante di questa recensione), vi interesserà sapere che “Dasein”, è il quarto lavoro di Somma / K-Conjog, che rinnova la collaborazione dell’autore con l’etichetta americana Abandon Buildings.

Le dodici tracce (sette a comporre il ‘nocciolo’ del disco, cui si aggiungono cinque remix), completamente strumentali (eccetto che per qualche episodico vocalizzo e per la traccia conclusiva, l’unica ad avere un testo cantato) che compongono Dasein vanno ad assemblare un lavoro che si addentra negli ampi spazi dell’elettronica in salsa ambient, riportando un campionario abbastanza consueto delle varie declinazioni del genere: da episodi in cui predomina la rarefazione a composizioni che riflettono l’ispirazione ‘classica’ dell’impressionismo à la Erik Satie, da capitoli all’insegna del minimalismo a parentesi dalla forte connotazione ‘cinematografica’.

Un Ep per numero di brani, ma la cui lunga durata gli fa assumere tutti i crimi di un vero e proprio full length, nel corso del quale tappeti ed effetti elettronici che offrono la classica sensazione eterea, attenuando il rischio di sfociare in composizione fin troppo monolitiche, anche attraverso l’utilizzo di piano e di archi (questi ultimi curati da Nicola Manzan, sempre più autentico jolly della scena indipendente italica quando si tratta di impugnare l’archetto).

Il risultato è un lavoro indicato per gli appassionati, ma che potrà risultare gradito (magari se preso a piccole dose) anche a chi, pur non frequentando assiduamente il genere, è disposto a sperimentare nuovi territori sonori.

THE STAR PILLOW, “FATTORE AMBIENTALE” (TAVERNA)

Terza prova per il progetto Star Pillow, portato avanti da Paolo Monti e Federico Gerini: “Fattore Ambientale” è uno di quei dischi che potrebbero definirsi ‘cinematografici’, in cui più di altri i suoni appaiono indicati ad evocare le sequenze di film immaginari che ognuno può costruirsi nel corso dell’ascolto. L’aspetto ‘visivo’ delle dieci composizioni del resto viene citato tra le principali ragioni d’essere del lavoro dagli stessi autori.  Troneggia la title track che oltrepassa i ventisei minuti di durata, nel segno di dilatazioni – nomen omen – ambientali che rimandano (naturalmente) a Brian Eno. Attorno, a mò di ancelle, le altre composizioni, tra vaghi rimandi all’impressionismo di Satie o Debussy e parentesi minimaliste, ovviamente con influenze derivanti dal filone delle sonorizzazioni da cinema (viene in mente a volte Michel Nyman).

“Fattore Ambientale” si fa sinuosamente strada nell’attenzione dell’ascoltatore, affascinando, in qualche occasione mettendolo alla prova, ma difficilmente lasciandolo indifferente: un disco dal quale farsi avvolgere e che può rivelare più di una sorpresa.

LOSINGTODAY

CHEWING WITH GUSTO, “VOL.1” (AUTOPRODOTTO)

Da una parte i Chewing Magnetic Tape: siciliani di Palermo, nati nel 2005 dalle ceneri degli Immagine Tv, trio sperimentale che di volta in volta si fregia di vari collaboratori; dall’altra Gusto Extermination Fluid, progetto solista del britannico Paul Taylor, specializzato in elettronica e computer.

Il nome dato a questo connubio anglo – italiano non poteva forse essere altro se non Chewing With Gusto, in un’efficace fusione dei due nomi originari, così come il disco, omonimo, cui si aggiunge un solo Vol.1, a far immaginare la prossima prosecuzione della storia.

Sette composizioni in cui la collaborazione trai due progetti sfocia in un insieme sonoro che appare per un verso ispirato ad ambient e minimalismo sonoro, per altro alla felice stagione dell’elettronica ‘crucca’, inserendo su questi elementi di base ampie e riuscite variazioni sul tema. L’esito, pur mantenendo una certa coerenza stilistica, restituisce una discreta gamma di suggestioni: si va, appunto da brani ispirati dalla consistenza più sintetica, quasi ‘fredda’ a parentesi crepuscolari, da vaghe abrasioni che conferiscono ad alcuni frangenti una grana più ruvida a suggestioni, specie nel brano di chiusura quasi folk.

Il disco è in gran parte strumentale, pur fregiandosi di un paio di partecipazioni vocali, da parte della ceka Zuzi Ki e della statunitense Mary Rath. Un lavoro tutto sommato riuscito, pur dando comunque l’idea di una collaborazione agli inizi e che quindi attende una successiva ‘centratura’ alla ricerca di una maggiore efficacia.

Il mix di strumentazione ‘classica’ (chitarre, percussioni) ed elettronica, con il ricorso a loop e lievi rumorismi, pur se non certamente nuovo, viene proposto con una sua discreta efficacia: l’eventuale seguito si fa allora attendere con curiosità.

IN COLLABORAZIONE CON: LOSINGTODAY

AU, “BOTH LIGHTS” (THE LEAF LABEL)

Un profluvio di suoni; un’ondata di caotiche distorsioni che, per uno di quegli strani effetti ‘magici’ finiscono per costruire muri di melodia avvolgente… Il terzo, fantasmagorico lavoro degli Au, duo di Portland formato da Luke Wayland e Dana Valatka: il primo, a disegnare coi sintetizzatori panorami sonori alieni, algidi come l’artico, ma pronti ad esplodere nell’incandescenza di un vulcano islandese; la seconda, ad arricchire il tutto con le sue multicolori percussioni.

Il risultato sono questi undici brani, nei quali si mescolano composizioni strumentali (la maggior parte) e brani cantati (talvolta da entrambi), ardite rapide che sfociano in cascate sonore iridescenti e più tranquilli, placidi frangenti, colorati dalla grana crepuscolare del piano.

Una serie di brani in cui si mescolano momenti che rimandano a dei Sigur Ròs ‘iperproteici’, parentesi dal sapore prog, sprazzi ai limiti del jazz rock e frustate sperimentali dal sapore talvolta zappiano (con l’aggiunta di qualche fiato) e più spesso minimalista per un disco dal quale è veramente dura staccarsi, scoprendo ad ogni ascolto particolari precedentemente sfuggiti.

Uno dei migliori ascolti di questo 2012.

LOSINGOTODAY