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CHRIS YAN, VI SKIN, SO BEAST: SINGOLI

Chris Yan

I Paesaggi di Böcklin – Singolo

Chris Yan (alias Christian Mastroianni, da Tivoli), compositore, polistrumentista, manipolatore di suoni, preannuncia il suo prossimo disco, Blasè, con un un singolo dedicato al pittore svizzero Arnold Böcklin, introdotto da alcune riflessioni del filosofo George Simmel.

Suoni, ma non solo: il brano, un lento, dilatato fluire di tappeti sonori estremamente

evocativi, accompagna un video suggestivo, una ripresa in ‘time lapse’ delle rovine della Torre di Castelnuovo (Meldola, provincia di Forlì – Cesena) teatro, secondo la tradizione delle vicende di Paolo e Francesca.

Il risultato, come detto, è fortemente evocativo: la Torre inquadrata nel video, ‘toccata’ solo dalle variazioni di luce date dallo scorrere del tempo, si trasfigura presto in una sorta di atavico monolite con echi kubrickiani, coi suoni a sostenere questa idea quasi ancestrale, rafforzata dalla totale assenza di un elemento umano che pure è l’artefice e dei suoni e delle immagini.

Suggestivo.

Vi Skin

Nei Guai

PaKo Music Records

Nuovo brano, il quarto, per questa giovane cantautrice della provincia di Frosinone, all’anagrafe Sofia Pelle, con la collaborazione di Frank Meta.

I sentimenti sono complicati, perché forse prima che gli altri, bisogna amare almeno un po’ anche sé stessi, quel tanto che permetta di superare timidezze e insicurezze.

Concetto che vale un po’ per tutti gli aspetti della vita che prevedono un confronto con l’altro o gli altri, la giovane Sofia sa di cosa parla, visto che la sua carriera ha rischiato di non partire per la sua timidezza nel presentare i suoi brani in pubblico; qui, la questione è trattata rispetto all’amore e ai sentimenti.

La scrittura è certo forse un po’ acerba, ma Vi Skin ha tutto il tempo per maturare, la voce c’è già, ed evoca a tratti la Pausini degli inizi.

A lei l’augurio di proseguire su questa strada.

So Beast

Punch

Machweo

Katarina Poklepovic da Spalato, Michele Quadri da Bologna: insieme hanno dato vita al progetto So Beast, che vede la pubblicazione di questo singolo, anticipazione di un EP di prossima uscita.

Elettronica campionata con effetti variegati, la voce di Katarina quasi a ‘declamare’, il ‘Pugno’ del titolo non tanto un atto di ‘violenza’, quanto forse l’espressione della necessità di un contatto umano, ‘fisico’, in tempi in cui questo è per molti versi precluso.

Intorno, una selva di beat, campionamenti, scricchiolii e crepitii assorbiti, con un effetto a tratti disorientante.

Per chi vuole provare a percorrere i sentieri di una musica poco ‘battuta’.

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BLADE RUNNER 2049

Risulta un po’ difficile, parlare di “Blade Runner 2049”: un po’ perché non si può certo ignorare il suo essere sequel di un film che rappresenta una delle ‘pietre miliari’ di un genere; un po’ perché parlare di questo film solo in quanto ‘seguito’ risulterebbe alla fine ingeneroso; un po’ perché, diciamocela, ed è questo, soprattutto, il bello del film, il rischio è da un lato di finire per essere ultrasintetici onde non rivelare troppo, o di buttare giù un ‘mattone critico’ (e io in fondo non sarei nemmeno in grado) per parlare di tutto o quasi.
Siamo, appunto, nel 2049 e i nuovi modelli di ‘replicanti’, più ‘obbedienti’ rispetto ai loro precursori, danno la caccia a quelli ancora in fuga.
Uno di questi, l’agente ‘K’, finirà per imbattersi, più o meno volutamente, in un ‘giallo’ che ruota attorno a un evento che sancirà un punto di non ritorno nell’evoluzione della ‘vita artificiale’, che lo vedrà coinvolto in prima persona, finendo per farlo incontrare con Rick Deckard, protagonista del primo film… di più veramente non è lecito dire.

Molti, credo, ricorderanno le parole di Roy Batty in “Blade Runner”, la mitologica frase sulle ‘cose che voi umani non potreste immaginarvi…’; quella frase si concludeva coi ‘ricordi che si perdono come lacrime nella pioggia’; i ‘ricordi’ sono, appunto, una delle cose che ci rendono ‘vivi’, umani; e la riflessione di “Blade Runner 2049”, gira tutta attorno a questo, ai ricordi, la cui veridicità rappresenta una delle prove finali della propria umanità, in un mondo in cui i ricordi stessi possono essere impiantati artificialmente nei replicanti per dare loro una sorta di passato fittizio.

Il protagonista intraprende un’indagine di cui molto presto l’oggetto diventa egli stesso e la propria umanità, in un modo che a tratti può ricordare “A.I.” e forse non a caso, vista la firma di Kubrick su almeno parte di quel progetto: magari è solo un impressione, ma in questo film ho trovato molto di Kubrick: la lentezza di ‘2001…’, l’abbandono di certi luoghi che può ricordare alla lontana quello dell’Overlook Hotel.

Il viaggio di ‘K’ attraversa un mondo non solo futuristico, ma futuribile, molto più futuribile di quello delineato dal suo predecessore: tecnologie che indagano corpi e ossa a livello quasi atomico, ‘assistenti elettroniche’ che giungono alle soglie – e forse un passo oltre – dell’autoconsapevolezza, fino a ‘fondersi’ quasi letteralmente coi viventi per viverne le stesse esperienze… megalopoli dominate da torri interminabili, paesaggi extraurbani costellati di serre in cui i prodotti della terra che vengono cresciuti ormai quasi esclusivamente per via artificiali.

A convincere più di tutto è questo scenario, certo prodotto grazie ai passi da gigante compiuti dalla tecnologia, e quindi non ci si dovrebbe stupire, ma alla fine si resta ugualmente estasiati.

Denis Villeneuve riesce a dare vita a un film coerente, rispettoso del predecessore, che omaggia con apparizioni e ‘comparsate’ che vanno oltre l’attesissimo ritorno di Deckard / Ford, nel contempo costruendo un’opera che funziona benissimo da sola; al suo interno si muove un convincente Ryan Gosling, circondato da uno stuolo di donne tra le quali si segnala soprattutto Ana de Armas; Ford è sempre Ford, assorbito dalla presenza iconica del suo personaggio; Jared Leto, pur in ruolo ridotto, come al solito offre una prestazione di livello.

E’ difficile riuscire a vedere e considerare “Blade Runner 2049” senza tenere conto di ciò che l’ha preceduto; eppure, forse questa è la strada migliore per goderselo; poi ovviamente si possono fare tutte le considerazioni del caso, gridare all’impresa riuscita o esacerbare la propria insoddisfazione, ma penso che alla fine ogni film debba vivere di vita propria, anche – e forse, un filo paradossalmente – soprattutto in questo caso.

 

 

RITORNO DAL RE

Che io ricordi, il mio primo contatto con Stephen King avvenne in un’estate dell’85 (o ’86?) allorché in televisione mi imbattei nel trailer di “Brivido” (unica sua regia cinematografica, ben poco memorabile, tra l’altro); all’epoca, avrò avuto 11 o 12 anni e quelle immagini (il ponte stradale che si ribalta, causando un macello, il coltello elettrico che taglia il polso della cuoca nella tavola calda, la mitragliatrice che spara da sola) mi provocarono una scarica di adrenalina non indifferente: non tanto paura (che io ricordi, l’unico vero spavento da ragazzino me lo provocò il video di “Thriller” di Michael Jackson), quanto di sottile ‘esaltazione’: l’idea delle macchine che si ribellano all’uomo col senno di poi sembra piuttosto stupida (anche considerando come venne svolta in quel film), ma ad un ragazzino di 11 anni risulta un mix di divertimento… e di paura (ma si, ammettiamolo). In quel trailer vidi per la prima volta Stephen King: mi risultò un pò strano, un filo inquietante forse, con quel sorriso e lo sguardo un po’ strabico.
In precedenza, a dire il vero, ci fu il trailer di “Shining” (quello degli ascensori e del mare di sangue), ma all’epoca non sapevo chi fosse Kubrick e il collegamento con King era del tutto assente nella presentazione.

Un annetto dopo (non tanti, forse un paio), convinsi i miei a portarmi a vedere “L’occhio del gatto” (strano come i miei primi contatti con Stephen King siano legati alle sue trasposizioni cinematografiche meno riuscite): ricordo distintamente quella serata perché mia madre, già abbastanza irritata dal primo episodio (quello in cui un fumatore incallito ricorre ad una clinica che per togliere il vizio ai nicotinomani ricorre a metodi estremi, e si trova di fronte alla moglie che viene quasi ‘fritta’ su una sorta di griglia elettrica), di fronte al secondo (un marito cornuto costringe l’amante della moglie a percorrere il cornicione esterno di un grattacielo), decise che quel film non era adatto ad un ragazzino di 11 anni, costringendo mio padre e me ad alzarci e andarcene… ricordo che da parte mia ci fu una piazzata allucinante; la verità è che io non ero affatto spaventato da quelle scene: all’epoca avevo già visto cose ben più inquietanti nel cartone animato “Bem – Il mostro umano”…

Non mi dilungherò sulla storia dei miei rapporti con mia madre; vi basti che quello fu un esempio classico: mia madre all’epoca non riusciva a capire che un film del genere per me non risultava per nulla spaventoso; che a 11 anni o giù di lì ero già in grado di separare realtà e finzione e di assistere a certe storie senza venirne sconvolto; di come non solo mia madre non riusciva a capirlo, ma di come in fondo non si sforzasse nemmeno, capirlo (e il problema, col passare degli anni è rimasto quello: la sua incapacità di capire e la sua totale mancanza di volontà di farlo, pena ammettere di essersi sbagliata).

Il primo libro che ho comprato di Stephen King è stato la raccolta “A volte ritornano”; col passare del tempo, molti altri ne sono seguiti… La mia vita di lettore mi ha portato a percorrere in lungo e in largo la letteratura horror, quella fantascientifica, ma anche la narrativa tradizionale: ricordo l’emozione di leggere i racconti di Poe e quelli di Lovecraft, le storie di Clive Barker, i romanzi di Asimov; potrei parlarvi del mio periodo ‘De Carlo’, in cui divorai quasi tutti i suoi libri uno appresso all’altro; di come imparai ad apprezzare, e progressivamente a disiniteressarmi, di Welsh; della mia passione per Nick Hornby e del piacere con cui sfogliavo le pagine di Roddy Doyle o Alain De Bottom; o di quando scoprii Jonathan Coe; del progressivo accumularsi nella mia libreria dei romanzi di Benni, Pennac e della Yoshimoto; di come, leggendo certi libri di Richard Ford o i racconti di Alice Munro o di Carver, abbia capito come si scrive ‘ad un livello superiore’; dei miei periodici ritorni sui classici…
Potrei continuare ad elencare nomi, raccontarvi di tutto questo e tanto altro, dipingere il ritratto abbastanza fedele di un lettore ‘onnivoro’…
Ma Stephen King, è tutto un altro paio di maniche.

Con King è diverso: ci sono tanti libri di cui ho scordato anche la trama (e purtroppo in qualche caso questo è vero anche per il ‘Re’), ma di norma, quando mi trovo davanti un libro di Stephen King, lo riconnetto immediatamente a qualche momento della mia esistenza.

Guardo la copertina di “Cose Preziose” (nell’edizione dell’allora Euroclub, che ora credo non esista più) e ricordo di come rimasi estasiato dal meccanismo ad orologeria costruito in quel romanzo; i tanti suoi libri comprati usati in un chiosco di libri e fumetti in viale Marconi (tutt’oggi esistente); i libri comprati alla Feltrinelli di Largo Argentina, quando ancora non era grande come oggi, e in cui c’era un angolo, al secondo piano, tutto dedicato a King; i libri tascabili pubblicati nelle collane supereconomiche, da edicola, letti magari sulla Metro, andando all’Università; o, qualche anno fa, “Duma Key”, letto sull’autobus nel breve periodo in cui feci il volontario ai Mondiali di Nuoto qui a Roma; libri che evocano estati al mare, o inverni in casa…

Qualche giorno fa, dopo tanto tempo, ho comprato due libri di Stephen King: “Colorado Kid” (già finito di leggere) e “Joyland” (cominciato da qualche giorno), a cui è seguito “Dr. Sleep” (le cui pagine spiegazzate mi ricorderanno la lettura sulle panchine di Villa Pamphilj): e l’impressione è sempre la stessa: una sorta di ‘ritorno a casa’, un emozione che ti prende fin dalle prime righe, quando riconosci lo stile (anche se ‘filtrato’ dai traduttori, dallo ‘storico’ Dobner al più recente Arduino) e ti accorgi che in fondo poco è cambiato: è come quando torni in qualche posto che conosci bene; magari un negozio può avere chiuso e per arrivarci hai dovuto superare uno svincolo che prima non c’era, ma appena giungi lì, capisci che il posto è quello: immagini, odori, impressioni…

In questo i sensi non vengono colpiti ‘direttamente’, ma fin dalle prime righe le sensazioni che vengono evocate sono le stesse: il modo di descrivere climi, luoghi, personaggi, atmosfere… e si è sicuri che, nonostante non si sappia come va a finire (raramente con King le cose finiscono ‘bene’, le sue storie raramente si concludono con “…e vissero tutti felici e contenti”… spesso e volentieri bisogna accontentarsi del “… e vissero…” e nemmeno tutti), si verrà accompagnati in un mondo che si conosce bene. C’è un suo romanzo – non ricordo quale – che comincia con “Sei già stato qui”: in quel caso King si riferiva a Castle Rock, ambientazione di molti suoi romanzi a cavallo tra gli ’80 e i ’90; ecco: questo incipit è quello che potrebbe idealmente aprire ogni romanzo di Stephen King: “sei già stato qui”, stavolta non a Castle Rock, ma nell’universo letterario del “Re”.
Per quanti libri abbia potuto leggere, per quanti libri potrò mai leggere, dubito che aprendone uno di un qualsiasi autore proverò la stessa emozione che provo con un libro di Stephen King: per quanti universi letterari potrò mai girare, il ritorno dal Re è sempre un po’ come un ritorno a casa.

LIEBSTER AWARD

Come già successo qualche mese addietro, sono stato nominato – stavolta dall’amico di Cose per cui vivere, per il Liebster Award:

vado a rispondere alle dieci domande di questo giro:
1) Libro versus Film: ha senso secondo te questo storico ‘scontro’ che li vede l’uno migliore dell’altro, contrapposti?

Essendo due modalità di racconto molto diverse, direi di no; tuttavia, dovendo scegliere, propenderei per il libro, se non altro perché richiede al lettore un contributo maggiore in termini di immaginazione: insomma, leggendo un libro personaggi ed ambienti per quanto ben descritti, te li devi comunque immaginare, il cinema ti propone tutto già fatto…
2) Qual è la città più cinematografica del mondo?

Sarò di parte, ma da romano dico Roma, e non solo per la Roma conosciuta, ‘turistica’, che peraltro è ancora capace di offrire scorci poco battuti, ma anche per la Roma più periferica e marginale… è una città che raccoglie in sé tanti e tali stili, dalla grandiosità del bello a livelli di bruttura quasi irraggiungibili, che può essere lo scenario di qualsiasi tipo di storia.

 

3) Con quale mezzo si esprime il tuo rapporto prediletto con il cinema: sala? Home video? Streaming/Video-on-demand?

Fondamentalmente sono un ‘animale da sala’: quel momento di sospensione in cui la sala è buia e lo schermo si spegne non potrà mai essere toccato dalla visione di un dvd o di uno streaming; tra l’altro quando si tratta di guardare video sullo schermo di un computer ho una soglia di attenzione molto bassa, quindi per me andare oltre gli spezzoni o i video musicali su Internet è abbastanza difficile.
4) Coppia attore/regista migliore che esista?

Anche se limitata ad un solo episodio, credo che l’accoppiata Nicholson / Kubrick di Shining abbia pochi paragoni.

 

5) Qual è il tuo regista preferito? Cosa gli diresti se lo potessi ipoteticamente incontrare a tu per tu?

Stanley Kubrick; a pensarci, forse gli avrei chiesto se non avesse mai pensato di portare sullo schermo l’Iliade o la Divina Commedia.

 

6) Se la tua vita fosse un film, quale sarebbe?

Così su due piedi, non saprei rispondere: credo che ritrovare la propria vita espressa in un film sia comunque un’enorme fortuna, anche un po’ inquietante; se poi il film in questione fosse di Tarantino, o Dario Argento, o Wes Craven, allora ci sarebbe da preoccuparsi.
7) Qual è quel film di cui ti vergogni un po’ ma che adori?

Non credo abbia molto senso ‘vergognarsi’ dei propri gusti, specie quando si è onnivori e quindi si riescono ad apprezzare per motivi diversi film molto diversi tra loro: amo Shining, ma se mi trovo davanti a Tomas Milian o Alvaro Vitali, non mi tiro indietro 🙂 ciò probabilmente farà innoridire qualcuno, ma come si dice: de gustibus…
8) Un film che odi? Perché?

Odio, mai: magari avrei da eccepire sul fatto che spesso il pubblico corra in massa a vedere quelle che a mio modesto parere sono delle boiate, incoraggiando così gli investimenti in certi filoni a discapito di altri, ma il discorso sarebbe lungo e includerebbe la disamina della formazione dei gusti del pubblico sulla quale sono state scritte tonnellate di libri… E poi, in fondo, i blockbuster a volte servono per finanziare prodotti meno pedestri…
9) Il cinema è un’invenzione senza futuro (cit)?

Il cinema racconta storie ed esisterà fin tanto che qualcuno avrà qualcosa da raccontare e qualcun altro lo vorrà ascoltare: muterà, come stanno mutando la musica e la letteratura; il rischio, forse, è che grazie alla tecnologia, la possibilità di raccontare e raccontarsi attraverso il cinema sia sempre più accessibile a tutti e che ognuno racconti la propria storia, senza ascoltare quelle altrui, come sta succedendo con i libri: con i blog e il self-publishing, tanti si cimentano con la scrittura, ma quanti di questi si dedicano alla lettura?
10) Che mondo e che vita sarebbe senza cinema?

Beh, quando non c’era il cinema, la gente andava a teatro, o ascoltava i radiodrammi alla radio, o leggeva; sarebbe certo un mondo diverso, ma non credo necessariamente peggiore: in fondo il cinema è solo uno dei modi che l’uomo ha inventato per raccontare delle storie: anche se non ci fosse il cinema, non si smetterebbe di raccontare od ascoltare.

E qui finisco; ora, teoricamente a questo punto dovrei ‘invitare’ altri a rispondere, ma lascio aperta la porta: se seguite abitualmente questo blog, e apprezzate, sentitevi liberi di partecipare e rispondere.