Posts Tagged ‘Kraftwerk’

RESONANZ KREIS, “AFRIKA” EP (THEDUSTREALM MUSIC)

Resonanz Kreis

Afrika EP

theDustRealm Music

Nuovo lavoro per questo progetto solista, attivo in quel di Cuneo da fine anni ’90 e dedito a un’elettronica che attinge a piene mani dai ‘capisaldi del genere’, dagli anni ’70 (Kraftwerk) a esperienze più vicine (Röyksopp), passando per gli ’80 dei Depeche Mode.

Qui le cose si fanno se vogliamo più ambiziose: il titolo rivela gran pare delle intenzioni e l’obbiettivo di coniugare l’elettronica con le sonorità del continente africano.

Sei pezzi, in cui dominano le costruzioni strumentali, ma che non disdegna – e sono forse gli episodi più riusciti – il ricorso a campionamenti di cori e voci ‘tribali’, come prevedibilmente tribali sono le percussioni che accompagnano tappeti e ‘ambienti’ sonori ancorati all’elettronica europea di cui sopra.

Il risultato è effettivamente affascinante e la brevità del lavoro lascia un po’ la ‘voglia’.

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PORCO ROSSO, “LIVING DEAD” (NEW MODEL LABEL)

Il protagonista dell’omonimo film d’animazione non c’entra , o forse sì, ma a solo livello di omonimia; molto di più, prevedibilmente, George Romero e i suoi morti viventi.

Michele Ricoveri scrive, ‘canta’ – più corretto forse ‘declama’ – e tesse i fili elettronici; Giovanni Soldi si occupa della parte più ‘suonata’ della faccenda, tra organo, synth e quant’altro: insieme, sono, appunto i Porco Rosso, qui (suppongo) all’esordio.

Otto tracce, racchiuse tra un ‘intro’ e un ‘outro’ che presentano e chiudono la vicenda, come succede spesso nei film horror; in mezzo, sonorità d’incubo, spesso e volentieri orientate all’ossessione, ma che non rinunciano a qualche parentesi che si apre volentieri al pop, tenendo presente la lezione dei ‘maestri’ (Kraftewerk).

Dominano, come accennato, elettronica, synth, tastiere e quant’altro, ancora una volta con echi del cinema di genere; a fare da sfondo a testi che dipingono la decadenza (putrefazione, forse in questo caso è il termine più adatto) dell’uomo e del corpo sociale e la loro resurrezione sotto forma di cadaveri ambulanti… intuibile, ancora una volta, il parallelo con la ‘filosofia’ di Romero, l’avvento dei ‘morti viventi’ come metafora del consumismo imperante, valida ancora oggi, a quasi mezzo secolo dal primo episodio della saga.

La distruzione dell’ambiente e delle altre specie animali, fino al consumo di ogni risorsa; la ricerca di ‘un senso’ nella fiera dell’effimero, il cammino verso la ‘disumanizzazione’ lastricato di apparecchi elettronici e ingegneria genetica… fino alla profezia di una bella guerra atomica che rifaccia partire tutto da zero…

Porco Rosso dà vita a un viaggio nel ‘cuore nero’ della società, apprezzabile nel martellare incessante che sfida la resistenza dell’ascoltatore, in parte ‘disturbante’ come appunto i propri espliciti riferimenti il legame con i quali finisce forse per essere fin troppo stretto, a livello sonoro e di ‘contenuti’: pur intuendo discrete potenzialità, si avverte alla fine la mancanza di un ‘guizzo’ di personalità in più.

SQUID TO SQUEEZE, “DADA IS NOT DEAD” (NEW MODEL LABEL)

Elettropop e una spruzzata di psichedelia, il tutto con un occhio alla sperimentazione. Squid To Squeeze è la ‘creatura’ di Jacopo Gobber, questo, presumo, il primo lavoro.

Dieci tracce, che riecheggiano le sonorità che hanno sancito il successo di certa elettronica d’oltralpe (Daft Punk e non solo): sonorità sintetiche che affondano le radice nell’età dell’oro di Kraftwerk & co., spogliate delle vesti più ruvide e rese più ‘accessibili’ attraverso un indubbia predisposizione pop, ma senza esagerare: qua è là tra le righe si scorge la lezione dei Depeche Mode; non rinunciando, in alcune parentesi, a trovate più sperimentali: Jelly (S)tone è tutto un crepitare di bit, quasi come se si giocasse con le sonorizzazioni dei videogame anni ’80.

Gobber / Squid to Squeeze trova anche il tempo di omaggiare i propri ‘eroi’ di riferimento: tre le cover presenti, rispettivamente pescate nel repertorio di Syd Barrett, dei Jesus & Mary Chain, del meno conosciuto Nigeriano William Onyeabor, uno dei capostipiti dell’elettrofunk africano.

L’attitudine è quella di chi, cercando un proprio sentiero sulla strada, ampiamente battuta, di un’elettronica che pur aperta all’ascoltatore, non scelga mai percorsi troppo ‘facili’, mantiene intatta una certa attitudine ‘ludica’, forse la voglia di spiazzare vagamente, un filo straniante, ma senza chiudersi in sé stessa: e forse non poteva essere che così, dato il titolo – manifesto con l’esplicito riferimento al dadaismo.

 

PHOENIX CAN DIE, “AMEN” (BLACK FADING RECORDS / AUDIOGLOBE)

Nati dalla ceneri (e in questo caso il concetto è più che mai adatto, parlando di fenici) dei Rock Destroy Legends, i Phoenix Can Die sono la nuova creatura di Mirco Campioni e Riccardo Franceschini, artisti di stanza a Bologna, noti anche per la loro attività nel mondo tatuaggi.

“Amen” segna una decisa mutazione nelle scelte sonore del duo: dall’alternative rock della precedente esperienza, ci si tuffa nel mare dell’elettronica, dei suoni da club. Nove brani, tra pezzi cantati ed episodi interamente strumentali, in cui i due cercano di tenere la barra dritta, avendo ben presenti i propri punti di riferimento, cercando allo stesso tempo una propria impronta stilistica; ad aiutarli in fase di produzione, Cristiano Santini, già voce dei Disciplinatha e collaboratore di CCCP, CSI e Battiato.

Vengono ovviamente in mente i ‘mostri’ sacri del passato: remoto (Kraftwerk) e più recente (Underwold), tra episodi più tirati e prettamente ‘danzerecci’ e parentesi – a cominciare da Control, primo singolo con tanto di video di accompagnamento – che strizzano l’occhio alla filone dell’elettropop; il tutto arricchito da qualche ‘scoria industriale’. I frequentatori più assidui del genere inquadreranno sicuramente meglio i punti di riferimento ideali del duo, in un lavoro che per i due ha i caratteri dei primi passi in territori finora poco battuti.

L’esito comunque non dispiace, per quanto molti dei pezzi siano più adatti ad un contesto ‘da dancefloor’ più che a un ascolto ‘immobile’ ; un primo disco coi pregi e i difetti tipici di quello che è, considerando il cambio radicale di genere, può essere considerato a tutti gli effetti un esordio: appuntamento a un possibile secondo capitolo per capire se il percorso intrapreso è quello giusto.

CANI GIGANTI, “BRAIN CONFUSION” (51BEAT)

Dopo un primo lavoro registrato dal vivo, i Cani Giganti tornano con questo esordio da studio, in parte fondato sulla rielaborazione delle registrazioni dal vivo del trio.

Siamo nel settore dell’elettronica, quella più orientata a scenari techno e da dancefloor, non a caso il disco esce per la 51beats, etichetta che negli ultimi tempi di è distina per dinamismo e iniziativa nella diffusione del genere.

Otto tracce (l’ultima delle quali è un remix della title track) che spesso e volentieri superano i cinque minuti di durata, in un paio di casi ampliandosi verso gli otto-nove, per un disco, che sgombrando subito il campo da equivoci, è difficile ascoltare, nel chiuso di una stanza, ambiente d’ascolto evidentemente poco indicato per un lavoro spesso e volentieri ‘ballabili’, più adatto agli ampi e affollati spazi di qualche locale. Synth e samples dominano la scena, accompagnati da drum machine, distorsioni ed effetti vari.

L’ascoltatore meno avvezzo al genere sarà messo a dura prova sopratutto dai brani più lunghi e ripetitivi, ai confini dell’ipnosi, tuttavia va comunque sottolineato come anche per chi raramente frequenta questi territori, “Brain Confusion” possa offrire qualche spunto d’interesse.

Qua e là infatti fanno capolino suggestioni che riportano alla scuola teutonica (leggi, ovviamente, Kraftwerk & Co.), o profumi industriali, mentre in qualche altro frangente diverte una certa attitudine ludica (come nei campionamenti del vecchio Grillo Parlante della Texas Instruments utilizzati in Turkey= Tacchino), cui si aggiunge qualche parentesi in cui si lambiscono territori ambient.

Un lavoro sicuramente consigliabile agli amanti del genere, ma che merita un ascolto anche da parte di chi non è solito percorrere queste strade.

/RUN, “THE STANDARD MODEL (SCRIBBLEMEDIA)

L’esordio, a quanto mi risulta, rimasto l’unica produzione del progetto /Run, usciva nel 2010: per quegli strani percorsi compiuti da questi lavori, appartenenti a una discografia che più che indipendente è definibile come ‘sotterranea’, finisce tra le mani di LT solo oggi: c’è da chiedersi nel frattempo quali strade abbiano preso i suoi artefici…

Peraltro, si tratta di una collaborazione padre – figlio, abbastanza singolare, non solo per il mondo musicale Aidan e Robert Fantinatto (quest’ultimo di professione videomaker), origini palesemente italiane, città di provenienza Toronto, esplorano in questo “Standard Model” le vie, ampiamente percorse, dell’elettronica: se non altro, per una volta parliamo di un progetto canadese che non si dedichi al ‘solito’ indie rock, molto di moda negli ultimi anni.

Il titolo, ascoltate le dodici tracce presenti, sembra far trasparire la volontà di omaggiare il passato, più che di azzardare qualche nuova suggestione: il lavoro appare infatti sospeso tra l’impeto sperimentale della felice stagione dell’elettronica tedesca (leggi, ovviamente, alla voce Karaftwerk) e i suoi sviluppi se vogliamo più ‘popolari’, raggiunti attraverso la musica da film composta da autori come Vangelis.

Il risultato, pur non offrendo spunti di sostanziale originalità, risulta comunque apprezzabile, tra brevi parentesi e brani un pò più articolati, che non si dilungano mai, dando vita ad un disco dinamico, che cambia spesso scenario e che quindi non mette mai alla prova la ‘resistenza’, o la pazienza dell’ascoltatore.

Semmai vi dovesse capitare tra le mani (l’impressione è che visto il tempo passato e il fatto che il progetto non sembra poi essersi ulteriormente sviluppato la cosa sia un pò ‘ardua’), un ascolto è tutto sommato suggerito.

IN COLLABORAZIONE CON LOSINGTODAY

ROLL THE DICE, “IN DUST” (THE LEAF LABEL)

Secondo lavoro per il duo elettronico formato dagli svedesi Malcolm Pardon e Peter Mannerfelt: undici composizioni interamente strumentali che coniugano avanguardia minimalista e suggestioni cinematografiche (e ciò non meraviglia, dal momento che Pardon vanta già qualche esperienza nella composizione di musiche da film. “In dust” finisce così per porsi a metà strada (o se vogliamo all’incrocio) tra Philip Glass e John Carpenter: le atmosfere futuristiche, a tratti tinteggiate di oscurità (quando non di una certa inquietudine), ricordano infatti le colonne sonore del regista di “1999 e affini”; qua e là, si intravedono squarci teutonici (pur se abbastanza banalmente, è almeno il caso di citare i Kraftwerk).

L’ora e passa di durata garantisce un ascolto ricco e anche abbastanza variato sotto il profilo delle atmosfere ‘emotive’, in qualche caso c’è anche spazio per un pizzico di ‘energia’ in più, pur in un quadro votato alla rarefazione e a tonalità ambient che, complice la ripetitività ‘microvariata’ tipica di certo minimalismo (procedendo magari per arricchimenti sonori progressivi) dà spesso e volentieri un effetto ipnotico, finendo per portare a ‘galleggiare’ sulle musiche del duo scandinavo.

Un lavoro suggestivo e a tratti anche intenso, che forse però nei meno avvezzi potrà talvolta indurre un pizzico di noia strisciante e stimolare uno sbadiglio: un disco quindi consigliato soprattutto agli amanti del genere e agli ascoltatori più ‘propensi’ a certe suggestioni sonore.

IN COLLABORAZIONE CON LOSINGTODAY