Posts Tagged ‘Ivan Graziani’

NICOLÒ PICCINNI & GLI INTERNAUTI, “AUTREMENT” (INDIEPENDENCE)

‘Autrement’, ovvero ‘altrimenti’: il secondo disco lavoro del cantautore torinese Nicolò Piccinni, qui accompagnano dai cinque

musicisti degli Internauti è una riflessione sul ‘guardare oltre’, cambiando magari punto di vista rispetto a modi di pensare consolidati nell’affrontare dal quotidiano, dal ‘personale’ all”universale’.

Una riflessione che in molti hanno / abbiamo fatto nel corso dell’ultimo anno e mezzo e passa, costretti, specie nei periodi più duri, a rivedere le proprie abitudini.

Sette i pezzi, durata contenuta (attorno alla mezz’ora): lo scorrere del tempo, i rapporti sentimentali al di là di genere ed etnia, il rapporto con la natura (con una dedica all’orso M49, simbolo appunto di quella natura che l’uomo vorrebbe sempre tenere sotto controllo), la casualità che crea differenze tra gli uomini anche solo per il luogo di nascita, gli amori violenti e le tossicodipendenze i temi affrontati.

Ballate di ispirazione ‘popolare’ (con qualche reminiscenza di Dalla), episodi che ora flirtano col dub, ora puntano decisamente verso il rock, con un esito che, sia per la vocalità, sia per l’attitudine in cui emergono disincanto e un pizzico d’ironia può ricordare a tratti Ivan Graziani.

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IL DINOSAURO E I MANICHINI, “IL DINOSAURO E I MANICHINI” (NEW MODEL LABEL)

Esordio per il nuovo progetto del cantautore (ma formatosi come batterista) Andrea Campostrini, dopo lo scioglimento di un gruppo precedente.

Il ‘dinosauro’ è chi, nei tempi attuali, preferisce guardare alle proprie radici, che magari, come in questo caso, affondano realmente nella ‘terra’, volgendosi altrove, rispetto a un atteggiamento comune tutto incentrato sul mostrarsi, magari nelle vetrine dei ‘social’, appunto come ‘manichini’.

Dodici pezzi dall’impianto per lo più autobiografico, sprazzi di pensieri, pagine di diario, tra riflessioni, sentimenti, sguardi sulla realtà.

Si veleggia tra intimità ed esplosioni di rabbia, pianoforte e ruvidità chitarristiche, ad accompagnare Campostrini un nutrito gruppo di musicisti tra cui Alberto Nemo, che ha collaborato anche in sede di registrazione.

Ci troviamo per certi versi a metà strada tra il cantautorato rock – folk di Rino Gaetano e Ivan Graziani e certe esperienze più recenti (De Niro, Le luci Della Centrale Elettrica).

Un lavoro che fa dell’immediatezza la sua impronta principale, prendendosi forse qualche rischio: personalmente non amo chi alza troppo la voce, a tratti con un atteggiamento un po’ inca**ato e magari buttando lì qualche parolaccia per rimarcare il concetto…

L’impressione comunque è che le potenzialità non manchino, potendo forse essere sviluppate con una direzione sonora più precisa e qualche ‘freno emotivo’ in più.

DANIELE CASTELLANI, “ARRIVEDERCI EMILIA” (NEW MODEL LABEL)

Dopo alcune esperienze in un paio di band, Daniele Castellani emiliano di Scandiano (RE) si cimenta col suo primo disco solista.

Sette pezzi (tra cui uno strumentale) scelti tra la produzione non troppo ampia di un autore che “scrive solo quando ha qualcosa da dire”, in cui prevale l’elemento biografico, tra ricordi d’infanzia, riflessioni su momenti di crescita, il progressivo mutamento del paesaggio (fisico, ma forse anche umano), le immancabili traversie sentimentali…

Lo sguardo appare disincantato, velato di un’ironia che sfiora il cinismo, sotto traccia forse un filo di rabbia, l’ombra di certi rimpianti e recriminazioni, con modi che a tratti possono ricordare Ivan Graziani.

Interessante l’aspetto sonoro della faccenda, all’insegna di un rock che cercando di evitare certe scelte ‘scontate’ (dopo tutto, siamo sempre in Emilia), finisce per rifugiarsi negli anni ’70 e nei primi ’80, tra vaghi richiami prog, allusioni psichedeliche, accenni reggae.

EUGENIO IN VIA DI GIOIA, “TUTTI SU PER TERRA” (LIBELLULA MUSIC)

I torinesi Eugenio In Via di Gioia approdano al traguardo del secondo lavoro sulla lunga distanza, dopo aver mietuto un buon successo di pubblico e critica con l’esordio, “Lorenzo Federici”.

Il titolo, “Tutti su per terra”, accompagnato da una copertina che rivolta il mito di Atlante mostrandocelo schiacciato sul pianeta, anziché a sostenere la volta celeste, delinea il filo conduttore dei nove brani, quello di un ‘mondo alla rovescia’, dominato da una generale inconsistenza fatta di mode passeggere, rapporti umani labili, una società sempre più rarefatta.

“La realtà è aumentata a tal punto da rendere esigua la fantasia”: l’incipit di ‘Giovani Illuminati’, traccia di apertura, appare quasi programmatica, paradigma di un progresso tecnologico nel quale ormai siamo immersi quotidianamente, che apparentemente rende tutto possibile, ma che alla fine tarpa proprio la capacità immaginifica che distingue gli uomini dagli altri esseri viventi.

Si continua così, per mezz’ora, in un mondo che appare correre con noncuranza verso l’Apocalisse, in cui il rapporto di interdipendenza con la natura si è forse irrimediabilmente deteriorato, in cui si vive oppressi dalle nevrosi quotidiane perdendo forse di vista il quadro generale.

Il rumore di fondo di un mondo sempre più interconnesso porta a un bisogno di silenzio che viene colmato con la rarefazione dei rapporti umani. Soluzioni ‘estreme’ al problema del bullismo, un Pinocchio divenuto adulto e, venuto meno il Grillo Parlante, libero di vivere senza troppi scrupoli morali. La bulimia informativa che porta all’insensibilità, così come il disboscamento continuo rende i terreni impermeabili, fino a un finale che evoca una ‘pace mondiale’ prodotto di un’inquietante democrazia globale, in cui anche gli eroi hanno alzato bandiera bianca.

Gli Eugenio In Via Di Gioia scelgono ancora una volta l’arma del sarcasmo, condito con un filo di cinismo e una punta di autentica cattiveria, per prendere di petto una società per certi versi ormai sotto controllo; la formula sonora continua ad essere arrembante, mescolando folk e rock, cantautorato e suggestioni da ‘banda di paese’, anche se tra le pieghe del disco si intravede la necessità di qualche complicazione in più, di non volerla buttare completamente sull’aspetto ludico, di ritagliarsi spazi di riflessione, anche amara.

Guardando a certi illustri predecessori – Gaber, Jannacci, Graziani – gli Eugenio In Via di Gioia continuano a percorrere con personalità la propria strada, riuscendo a superare le difficoltà poste da un secondo lavoro che doveva confermare quanto di buono mostrato nell’esordio.

DAVIDE SOLFRINI, “VÈSTITI MALE

Un po’ più di un EP, un po’ meno di un full length: il nuovo lavoro di Davide Solfrini, romagnolo di Cattolica, si pone un po’ al confine, con i suoi sei brani e una mezz’ora circa di durata, arrivando ad arricchire un curriculum sonoro che conta già due lavori sulla lunga distanza arrivati a seguire altrettanti EP, pubblicati all’inizio del proprio percorso.

Il cantautore, classe 1981, dà vita a una galleria di personaggi, pretesti per parlare dell’oggi e della società, proseguendo discorsi già avviati nei lavori precedenti, a cominciare da quello sul mondo del lavoro, forte della sua esperienza come operaio. Solfrini affronta il tema con rabbia – trattenuta e amara ironia in parti uguali: alla fine la vera ‘stortura’ del sistema appare l’acquiescenza e l’incapacità delle ‘vittime’ di reagire, unico atto di possibile ribellione quello di ‘vestirsi male’, come cita il titolo. L’altra faccia della medaglia è l’introspezione, anche qui senza fare sconti.

Sotto il profilo sonoro, Solfrini – almeno rispetto a Muda, esordio sulla lunga distanza (recensito altrove qui) – sembra aver abbracciato con più decisione certe sonorità d’oltreoceano, in particolare con reminiscenze dei REM, continuando allo stesso tempo un discorso cantautorale che per certi momenti ironici continua a ricordare a tratti Ivan Graziani e Alberto Fortis nei momenti di maggiore asprezza.

Il nuovo tassello di una produzione che, almeno sotto il profilo quantitativo, comincia ad essere corposa; il limite forse in questo caso è proprio la durata: questi sei brani alla fine danno l’idea di un discorso non compiutamente concluso, come se alla fine si sentisse la mancanza di quei due / tre pezzi necessari a ‘chiudere il cerchio’.

AA.VV., “SOTTO IL CIELO DI FRED – UN TRIBUTO A FRED BUSCAGLIONE” (PREMIO BUSCAGLIONE /LIBELLULA MUSIC / AUDIOGLOBE)

Nato nel 2010, il Premio Buscaglione, “Sotto il cielo di Fred” punta a valorizzare le band emergenti, omaggiando allo stesso tempo il cantautore torinese.

La pubblicazione di un cd – tributo era uno degli obbiettivi degli organizzatori fin dalle prime edizioni: meta finalmente raggiunta, grazie al contributo di dodici rappresentanti del cantautorato dei giorni nostri.

L’interesse di questa compilation risiede nell’essere una fotografia di buona parte di ciò che meglio ha da offrire la scena musicale italiana degli anni ’10 del ventunesimo secolo, dai Perturbazione a Paolo Benvegnù, da Dente a Lo Stato Sociale, da Brunori Sas, a Il Pan del Diavolo, e l’elenco potrebbe proseguire… certo, forse non ci sono proprio tutti – tutti (personalmente, sarei stato curioso di vedere alle prese col caro vecchio Fred gente come Il Teatro degli Orrori, per dirne uno), ma comunque il piatto, come si dice in questi casi, è ottimo e abbondante.

I partecipanti hanno rispettato il materiale di partenza, mettendoci del loro: senza dilungarsi troppo ad elencare i caratteri di ognuno, sarebbe sufficiente citare la versione quasi anni’40 di ‘Juke Box’ presentata dai Sweet Life Society, i ritmi quasi reggaeggianti con cui Lo Stato Sociale ha tradotto ‘Teresa’, gli accenti mariachi con cui gli Etruski from Lakota hanno costellato ‘Porfirio’; si fanno ricordare la lettura carica di nostalgia che Paolo Benvegnù ha dato di ‘Love in Portofino’ e soprattutto il brano più famoso dell’intera discografia di Buscaglione, ‘Eri piccola così’, qui eseguita da Bugo con la sua solita attitudine all’insegna di un disincanto quasi annoiato.

Quando il materiale di partenza è di livello e gli esecutori sono di valore, il risultato non può essere che soddisfacente… al di là degli esiti, l’importanza di “Sotto il cielo di Fred” sta proprio nell’omaggiare un artista fin troppo spesso dimenticato, almeno quando si tratta di elencare i grandi della canzone italiana: forse per il suo essere stato un ‘irregolare’ (sorte condivisa con altri ‘non allineati’, si pensi ad esempio a Ivan Graziani, o Enzo Jannacci) una sorta di ‘unicum’, per il suo costante ricorso all’ironia, talvolta allo sberleffo, per quanto amari, che lo ha distanziato dalla ‘norma’ del cantautore italiano tutto volto ad un’introspezione, spesso cupa.

“Sotto il cielo di Fred” per certi versi finisce quindi per fare in un certo senso ‘giustizia’: e per questo lo si può quasi definire un disco ‘Necessario’.

DAVIDE SOLFRINI, “MUDA” (NEW MODEL LABEL)

Un disco dedicato a tutto quanto causa perdita di produttività, tempi morti, cali di efficienza: Muda è un termine giapponese per sintetizzare tutto questo… Una particolare teoria dell’organizzazione dei processi produttivi ha teorizzato l’eliminazione di qualsiasi perdita di efficienza attraverso il metodo del ‘just in time’: nella catena produttiva, ogni pezzo deve essere disponibile immediatamente, al momento giusto e nelle quantità richieste, in modo da ridurre al minimo i rischi di interruzione, i tempi di attesa, etc… Muda sintetizza dunque tutto ciò che questo sistema vuole evitare…

Davide Solfrini da Cattolica, classe 1981, questo sistema lo conosce bene, lavorando abitualmente come operaio in una grande azienda: non casuale, dunque la scelta di questo titolo per il proprio esordio sulla lunga distanza (dopo due EP), esaltazione dei tempi morti e delle ‘dispersioni’ rispetto all’imperante concetto della produttività, del riempire, spasmodicamente, qualsiasi ‘vuoto’. Concetto non nuovo, se vogliamo, ma esposto nei nove brani presenti (il decimo è una riproposizione dal vivo del pezzo di apertura), in uno stile discretamente autonomo.

L’aspetto migliore di Muda è proprio il fatto che ascoltandolo si ha una lieve sensazione di già sentito, ma che poi a pensarci non si riesce mai a capire ‘dove’ lo si sia in effetti ascoltato: per certi versi potrebbe venire in mente Branduardi (anche se qui di tradizione popolare medievale non c’è traccia), un certo sentore caustico che percorre i brani può forse far venire in mente Ivan Graziani, anche se qui c’è forse una minore tendenza al gioco… Alla fine si ha la sensazione di un cantautorato che ha molto a che fare con la musica leggera italiana a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, corredato da suggestioni sonore d’oltreoceano, il tutto in salsa semiacustica, con le chitarre a fare da padrone e le tastiere da sostegno, per un canzone pop-rock di classe, condita con vaghe riminiscenze indie.

Davide Solfrini prende di mira l’ossessione del ‘riempimento’ del tempo dei giorni nostri, l’invadenza dei media che incide su qualsiasi su abitudini, modi di pensare, persino gusti in fatto di cucina, la solitudine di chi si sente fuori posto, o fuori tempo, quella di chi rifiuta il contatto col prossimo, visto come un ostacolo alla propria (presunta) realizzazione personale e quella di chi progressivamente sostituisce al calore del rapporto interpersonale la freddezza di quelli digitali, fino ad un efficace ritratto del ‘bugiardo’, autentica figura di riferimento dei nostri tempi… la salvezza da tutto ciò, affidata puntualmente all’intimità domestica e famigliare…

“Muda” vive su una scrittura a tratti vagamente ellittica, giocata talvolta su ciò che manca, sul ‘non detto’, su quegli stessi ‘spazi e tempi vuoti’ di una modernità ossessiva dei quali il disco intende essere un po’ un’esaltazione; un disco che ci propone una nuova interessante voce del panorama cantautorale italiano.

FRANKSPARA: “IL DOTTOR CREPAPELLE E L’ALBERO CHE CAMMINA” (REINCANTO DISCHI)

Terzo lavoro per i Frankspara, trio capitanato dal bolognese Francesco Viani, che già coi lavori precedenti aveva dato prova delle proprie qualità. Con “Il dottor Crepapelle…” la band compie un ulteriore passo in avanti, dando prova di aver raggiunto (o di essere molto vicino a farlo) la piena compiutezza stilistica.

I dieci brani che vanno a comporre questo si susseguono fluidamente all’insegna di un efficace pop dai modi eleganti che non varca mai il confine della sofisticatezza e dell’autoreferenzialità, miscelato con la classica tradizione del cantautorato italiano.

Un disco caratterizzato da tonalità il più delle volte solari, a tratti vagamente oscurate da qualche tinta crepuscolare, che si muove lungo tre classiche direttrici tematiche: i sentimenti, il rapporto col sè, l’osservazione della società.

L’umore, anche nelle occasioni più riflessive, è però sempre aperto all’ironia, al sorriso magari amaro, quando non al sarcasmo (specie laddove ci si orienta a una critica sociale dai tratti corrosivi: Voglio diventare cretino è un titolo che dice tutto e rappresenta probabilmente l’episodio più riuscito del lotto); viene in mente l’eleganza dei Denovo e, tra le righe, un pizzico dell’ironia di Graziani, il tutto riportato alla contemporaneità, ad affiancarsi a certe nuove leve del cantautorato italiano (leggi alla voce: Dente).

I Frankspara fanno dunque centro, con un disco convincente che dà un pò l’idea dello ‘spartiacque’ apparendo un pò come l’ultimo disco di una band che vive ancora il proprio processo di formazione stilistica e il primo lavoro di chi, avendo già concluso questo primo periodo di ‘evoluzione’, comincia a lavorarci attorno per cercare di arricchire ulteriormente il proprio bagaglio di idee… la curiosità per il proseguio resta più che mai intatta.

IN COLLABORAZIONE CON LOSINGTODAY