Giugno 1940, Dunkirk (o Dunquerque), al confine tra Francia e Belgio: centinaia di migliaia di soldati alleati – inglesi e francesi soprattutto – sono in trappola: da una parte il mare, dall’altra l’esercito tedesco che incalza.
L’unica via di fuga è appunto navigare fino alle coste inglesi, tanto vicine da vedersi a occhio nudo o quasi, ma le navi da guerra non bastano e l’area è costantemente sotto tiro da parte dell’aviazione nazista; arriva così una ‘chiamata generale’ a chiunque in Inghilterra possieda un qualche tipo di natante, affinché parta alla volta delle coste francesi per trarre in salvo più uomini possibile.
Christopher Nolan porta finalmente sugli schermi quello che fin qui può considerarsi il suo progetto più ambizioso (si dice che sia un’idea rimasta in sospeso per vent’anni e passa) e lo fa seguendo tre vicende parallele: una settimana nella vita di alcuni soldati impegnati a trovare una via di fuga, con qualsiasi mezzo; un giorno in quella di un ‘privato cittadino’ che, assieme al figlio e a un altro ragazzo, parte col suo yacht al salvataggio degli assediati; un’ora di un pilota inglese, impegnato in un duello dei cieli, in appoggio all’operazione. Vicende che finiranno per incrociarsi o solo sfiorarsi, in modo mai troppo ‘forzato’, come se tutto fosse veramente frutto del ‘Caso’.
Peraltro, per le riprese ci si è avvalsi di aerei d’epoca ancora funzionanti e si è riusciti a reperire imbarcazioni che parteciparono veramente all’opera di soccorso.
“Dunkirk” è per molti versi un film spiazzante; lo è, innanzitutto, se paragonato al comune canone del genere: tutto qui è ridotto all’osso, all’essenziale; girato con un piglio vicino al documentario, una sceneggiatura scarnificata, che lascia spazio da un lato alle scene di massa, ai corpi e dall’altro alle vedute sterminate del cielo e del mare.
Privo di qualsiasi concessione alla retorica cinematografica dei film di guerra: sia quella dei generali in piedi davanti a una mappa a disegnare piani di battaglia, sia quella delle trincee opposte, magari delle vicende sentimentali o dell’incontro col nemico che si scopre dopo tutto simile a sé; qui il nemico è praticamente invisibile: si manifesta solo sotto forma di bombe che piovono dall’alto o di inseguimenti aerei nei cieli.
Dunkirk forse non è nemmeno un film – documentario di guerra in senso stretto: per due ore assistiamo solo alle vicende di uomini che tentano in ogni modo di salvarsi la pelle e di altri uomini che per quanto possono cercano di dargli una mano: la guerra, insomma, appare il preteso per parlare di sopravvivenza in situazioni estreme.
Un film ancora più spiazzante se si pensa che è un film di Nolan: ci si sarebbe potuti immaginare un kolossal roboante, con scene destinate a restare nell’immaginario, come più o meno accaduto con i vari film dedicati a Batman e ancora di più con “Inception”… invece, niente di tutto questo: di fronte alla guerra, Nolan fa un passo indietro, riduce tutto al ‘grado zero’ o quasi: anche il momento più epico del film, ‘l’arrivano i nostri’ con barche di ogni tipo e dimensione che giungono sulle coste per salvare gli assediati (e che può strappare una lacrima) è reso in modo dimesso, contenuto, come se dopo tutto non ci si potesse scordare nemmeno per un attimo che pur sempre di guerra si tratta: non è la ‘cavalleria alla riscossa’.
Il film è costantemente dominato da un’atmosfera plumbea, con la sensazione di una tragedia sempre imminente e che spesso arriva puntualmente, togliendo ogni spazio per battute, momenti di goliardia, esistenzialismo, baci alle crocerossine e quant’altro; un clima cui contribuisce in maniera decisiva – come avvenuto in altri film di Nolan, ma stavolta con segno diametralmente opposto – la colonna sonora di Hans Zimmer, anch’essa dai toni quasi funerei, priva dell’epica di molti suoi lavori precedenti: è come se stavolta il trionfalismo di Wagner o di Shostakovic avesse lasciato il posto ai toni cupi di Mahler.
Le interpretazioni più incisive di un film che comunque si presenta come la narrazione di un episodio storico nel suo complesso, più che delle singole vicende, sono affidate a un ristretto pugno di attori: tra questi Mark Rylance è il comune cittadino che con la sua barca parte alla volta del recupero; Fionn Whiteead è uno dei soldati alla ricerca della salvezza; Tom Hardy il pilota all’inseguimento dei caccia tedeschi; Kennet Branagh l’alto ufficiale che, sul molo, coordina le operazioni; ma a svettare su tutti, in modo anche inaspettato, è Cillian Murphy, che finalmente è costretto a mettere in secondo piano l’occhio azzurro e il bell’aspetto per dare vita in modo convincente, a un soldato traumatizzato.
“Dunkirk” è quindi senz’altro un film unusuale, per il cinema bellico e per quello di Nolan; resta però il dubbio se questo suo ‘differenziarsi’ corrisponda, come è stato spesso affermato, a un ‘elevarsi’: perché se è vero che lo sforzo di Nolan di togliere di mezzo la gran parte di certi artifici retorici, sia bellicisti che pacifisti, a favore di una narrazione quasi ‘in presa diretta’, è lodevole, è anche vero che forse non tutto funziona fino in fondo, che certe scene di massa finiscono per essere confuse, che talvolta tutto procede troppo a ‘strattoni’, che determinate sequenze sembrano un po’ prive di senso, quasi dei riempitivi e che alcune delle trame narrative finiscono per essere fin troppo esili o fini a sé stesse.
Il senso di tutto questo rientra forse in quella ‘riflessione sulla realtà’ che Nolan torna costantemente a riproporre nel suo cinema, da “Memento” a “Inception”: la realtà non è lineare, alla fine, è fatta di tempi morti e di vicende sfilacciate, ma l’impressione di fondo è che più che essere ‘voluto’, questo sia il risultato di un’incapacità di fondo del regista di mantenere salde le redini del film dall’inizio alla fine… e a proposito, il finale rappresenta forse la parte meno convincente, con i ‘ritorni a casa’ che sanno tanto di una ‘ricaduta’ nei luoghi comuni di certo cinema.
Lo sforzo di mostrare qualcosa di ‘diverso’ è apprezzabile ; tenderei però a non unirmi al coro che descrive “Dunkirk” come il miglior film di Nolan (per me “Inception” rimane ancora insuperato) o come uno dei migliori film di guerra di sempre… anche perché, se vogliamo – e a voler essere un po’ ‘cattivi’ – “Dunkirk” potrebbe essere definito come una sorta di ‘docufiction’ in stile National Geographic, portata solo su una scala più vasta per mezzi e attori a disposizione; il che non toglie nulla al tanto di apprezzabile offerto dal film, ma lascia la domanda di fondo sul fatto che questo fosse il risultato realmente voluto.