Il sesto disco di Cranchi (Massimiliano) da Mantova.
Ricerca di un ‘posto dove stare’, paradossalmente o forse no durante la ‘clausura collettiva’ del 2020, quando si è dovuti stare dove si stava.
Luoghi reali o filtrati dall’immaginazione di altri tempi attuali, o più o meno passati.
Dante e Borges, Vonnegut e Steinbeck.
I profughi di Mostar per ricordare quelli del Mediterraneo e involontariamente quelli dell’Ucraina, quasi un presagio.
Calciatori argentini di culto.
L’amore, complicato o in esaurimento.
Ricordi famigliari.
Tutto visto, o immaginato, dalle rive del Po, con un’atmosfera indefinita, come certi silenzi in mezzo alla nebbia.
Certo indie folk nordamericano (con escursioni al sudamerica) riportato nella pianura padana: non Nebraska, ma Felonica (MN), più che cantato mezzo declamato, con disillusione: l’ombra di Guccini che si allunga.
Cranchi, di nuovo, una riposta possibile a chi chiede che fine abbiano fatto ‘i Cantautori’.
Nasce un po’ per caso e un po’ per noia, magari nel corso di certi apatici pomeriggi che quasi tutti abbiamo vissuto nel corso del lockdown, questo progetto di Fernando Fidanza, che ha musicato 13 testi inviatigli da altrettanti poeti.
Romano, classe ’76, Fidanza ha vissuto 14 anni in Cina, scrivendo colonne sonore, pubblicando un lavoro con la sua band creata lì e girando in lungo e in largo per il Paese… che dato che parliamo della Cina significa più o meno aver attraversato un continente.
Lo ritroviamo a Roma, in piena ‘clausura’ a sperimentare appunto la sonorizzazione di una poesia del fratello Luca. Parte da qui l’idea di estendere l’esperimento a un progetto più corposo, ottenendo il riscontro positivo di una manciata di poeti, per un progetto il cui titolo mescola appunto la ‘nuova’ poesia, al ‘vecchio’ folk, inteso più come attitudine e scelta di vita basata sul viaggio e sull’incontro col prossimo.
I tredici brani presenti sono per lo più orientati a una dimensione acustica o semiacustica, in cui l’elettricità è presente, ma con discrezione e isolatamente prende il sopravvento, in episodiche parentesi più volte al rock.
Forse non poteva essere altrimenti, dato che i testi poetici necessitavano comunque di un adeguato risato; dominano le chitarre, che si stagliano su ritmiche essenziali e qualche vago effetto di sottofondo.
Se l’indole ‘metallara’ di Fidanza, che cita Iron Maiden, Metallica e Slayer tra le proprie influenze, non appare immediatamente percettibile (forse giusto in qualche vaga melodia che starebbe bene anche su qualche ‘ballata’ del genere), più evidente è invece l’influenza dei Pearl Jam più acustici e quella di Guccini, in particolare in un cantato che sovente si fa quasi discorsivo.
Testi poetici (per pura statistica segnalo che tra gli autori presenti si contano sei poetesse) per lo più volti a un certo intimismo.
La riflessione finale è che se certo, da un lato, l’obbiettivo era quello di affiancare un ‘vecchio’ da non intendersi come il proverbiale ‘classico indiscutibile’ e il ‘nuovo’, da non intendersi come ‘nuovismo’ e se l’intento era quello di superare certe diffidenze personali che caratterizzano il mondo dell’arte, impedendo di ‘fare fronte’ verso uno scopo, dall’altro mi pare che l’esperimento rappresenti il tentativo di trovare un terreno comune tra musica e poesia.
Non che non sia già stato fatto in passato, intendiamoci, ma spesso c’è questa idea secondo cui la poesia sia sempre un gradino sopra la canzone: spesso per lodare un cantautore si dice: “Quello non è un cantante, è un poeta” come se il fatto di scrivere testi destinati ad essere accompagnati, o ad accompagnare, la musica, sia in qualche modo squalificante.
In questo caso i testi nascono probabilmente in maniera autonoma e il lavoro sonoro è successivo, ma l’esperimento è comunque riuscito.
Cantautore e psicoterapeuta, Cristian Grassilli ha unito passione e professione, spesso usando la musica per far meglio conoscere la malattia mentale.
“Presente” è il terzo (mi pare) disco di un percorso che ha portato il cantautore bolognere a collaborare anche con Guccini, per il suo “L’Ultima Thule”.
I dieci brani che compongono “Presente” costituiscono in gran parte un inno alla vita, a vivere il ‘presente’ senza tante recriminazioni per il passato o paure per il futuro, a volersi bene, all’insegna di una ‘Leggerezza’ (per citare uno dei titoli) che nei tempi attuali è più che mai necessaria.
La seconda parte del disco si apre anche ad altre tematiche: i rapporti padre – figlio, lo sfruttamento dell’Africa, l’ossessione per la ricchezza…
Un lavoro inserito nei binari più canonici di un cantautorato svolto il più delle volte in ballate dal sapore di canzoni popolari, con qualche vaga concessione pop.
A tratti si avverte la mancanza di qualche variazione in più, sia nelle scelte sonore, sia nel ‘tono’ dei brani, che talvolta sembra un po’ troppo ‘paternalistico’.
Cantare le ‘virtù liberatorie’ del vino, da Alceo in poi, è ormai consuetudine da un paio di millenni e passa (evidentemente, i quasi astemi come me non sanno cosa si perdono..
Buona ultima, ecco la capitolina Elisa Benetti, alias Amarena, che con la produzione di Alessandro D’Orazi e un accompagnamento essenziale di synth, hammond e percussioni in appoggio alla sua chitarra, ci narra di una serata poco riuscita in cui il vino appare un’ottima via di fuga di fronte alla noia suscitata dall’interlocutore… Fresco e ironico, decisamente ‘estivo’; pop con qualche venatura sudamericana.
Elisa / Amarena è all’esordio (a settembre dovrebbe uscire un EP), ma tutt’altro altro che una sprovveduta: a parte la canonica ‘formazione cantautorale’ (a base di Battisti, De André e Guccini), la nostra ha trascorso una gavetta da ‘busker’ in giro per l’Europa.
Ammiccante e vagamente ‘civettuola’ (ma non è un difetto) Amarena sa come porsi all’attenzione e lascia curiosità per le prossime tappe…
Indigo
Stiamo bene
Autoprodotto
Fotogrammi di vita quotidiana, ricordi di una vicenda sentimentale ormai finita (o forse non del tutto), in questo brano del torinese Indigo, che un annetto fa ha cominciato il proprio percorso musicale.
Un mix solare di suggestioni hip hop, vena cantautorale e una spruzzata di funk.
Siamo agli inizi, ma si intravede qualche spunto interessante.
Quarto disco da studio per la band di Massimiliano Cranchi: stavolta, il disco più che dalla gestazione collettiva della band, nasce dalla stretta collaborazione col produttore Marco Malvasi: il risultato è un lavoro che forse più dei precedenti riporta l’impronta personale nei temi ed esistenziale nei testi dei sette brani presenti (poco meno di mezz’ora la durata complessiva).
Un lavoro caratterizzato da un continuo ‘muoversi’, spostarsi: dal brano di apertura – ‘Spiegazioni improbabili sul metodo’ – quasi la versione moderna di un racconto medievale, un gruppo di persone e vari incontri sulla strada che porta verso le coste francesi, al faticoso pedalare di ‘Malabrocca’, poco ricordati gregario del ciclismo mitologico degli anni ’40; da ‘L’amore è un treno’, metafora parallela di un amore accidentato e di una società in via di deragliamento a ‘Cinque mesi’, in cui l’amore, concluso, continua ad essere ricercato.
Il viaggio come ricerca di un ‘pezzo mancante’, risposta alle proprie inquietudini: probabilmente non è un caso che il brano conclusivo, ‘Fa un freddo che si muore’ appare incentrato su una ‘pace’ trovata finalmente nel calore domestico, nella rassicurante monotonia del ‘minimo quotidiano’.
Completano la manciata di brani un omaggio a Ferrara e uno a Berta ‘Anna’ Pappenheim, scrittrice e giornalista austriaca la cui vita fu tormentata dalla malattia mentale.
Un lavoro fortemente ancorato alla tradizione cantautorale, a partire dal semplice dato vocale che ricorda molto, molto da vicino quello di Guccini e che nel suo svolgersi assume un’impronta indie – folk, pronto ad acquistare di volta in volta toni diversi grazie all’intervento di violino, pianoforte, fisarmonica, nel caso di ‘L’amore è un treno’ di fiati e un coro di bambini, nella conclusiva ‘Fa un freddo che si muore’ di una tastiera dalle tonalità vintage che dà al brano una certa ariosità, una veste dai tratti gradevolmente pop.
Resta l’idea di un disco intimo, estremamente personale, in cui l’autore costantemente sul filo di una certa malinconia, qualche rimpianto e recriminazione, fa i conti col proprio vissuto, forse affrontando questioni rimandate in precedenza.
Secondo lavoro per i Cranchi (il nome, anzi il cognome, glie l’ha dato il cantante e chitarrista Massimiliano), dopo l’esordio del 2010: un progetto nato tra Mantova e Rovigo (città di provenienza dei quattro componenti della band), tutti già con qualche esperienza alle spalle (tra queste, i The Great Nothern X, già recensiti su queste pagine). “Volevamo uccidere il re”: laddove il re è la personale metafora per il ‘pensiero unico’ dominante ai giorni nostri.
I Cranchi conducono la loro battaglia attraverso un folk acustico (talvolta vestito con divisa ‘da combattimento’, all’insegna di un ensemble che agli strumenti consueti aggiunge fisarmonica, banjo e piano), venato di ‘indie’ e impastato con la tradizione del cantautorato italiano, quella del filone più orientato a uno sguardo critico verso la società (tornano alla mente Guccini o Claudio Lolli). Storie ispirate dalle guerre, magari quelle così lontante ‘nella mente’, ma geograficamente appena oltre un braccio di mare, o dagli ‘anni di piombo’ (rievocati nel brano conclusivo), un cuoco anarchico e un redivivo Robin Hood, sono solo alcuni degli scenari e dei personaggi che incrociamo lungo gli otto brani presenti, in cui si trova anche spazio per un paio di episodi sentimentali.
Un disco su cui aleggia costantemente un alone di rabbia venata di malinconia, espressa con personalità dal cantante, in un episodio accompagnato da una voce femminile. I Cranchi superano con personalità la prova del secondo disco, dando l’idea di avere ancora ampi margini di miglioramento.