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TUBAX, “GOVERNO LASER” (MEGASOUND / GOODFELLAS)

Poliziotteschi anni ’70, inseguimenti da cartoni animati giapponesi, sci-fi di serie B, pionieri del downolad, escursioni in terra sarda, e… galline.

I Tubax fanno parte di quel gruppo di band che negli ultimi anni ha ripreso, attualizzandola e attestandone la resistenza al passare del tempo, la nobile tradizione delle sonorizzazioni cinematografiche degli anni’70, altri esempi i già discretamente affermati romani Calibro 35 o, con esiti più estremi, Nicola Manzan col suo progetto Bologna Violenta o ancora, più recentemente La Batteria.

Giunti al terzo disco, il secondo da studio dopo l’uscita di un Live nel 2013, i Tubax aggiungono stavolta all’impianto di base di basso (Giacomo Schirru) , batteria (Alberto Fogli) e synth e campionamenti ( Davide Stampini) le chitarre, curate in due delle otto composizioni da Francesco Giovanetti, divenuto ormai il quarto componente fisso della band con l’aggiunta in un episodio del dubstep curato da Comakid.

La band bolognese assembla un disco frenetico, senza requie: come un inseguimento, scegliete voi se preso di peso da un film con Maurizio Merli o da un episodio di Lupin III (il fatto che uno dei brani sia intitolato ‘Zenigata’, farebbe comunque propendere per la seconda ipotesi), gettando l’ascoltatore in una corsa a per di fiato su e giù per ideali highways dall’aspetto futuristico, facendolo talvolta a partire a razzo verso il cosmo, o magari gettandolo in territori evanescenti, dalla consistenza liquida, fino a sfiorare territori che evocano paesaggi post industriali e apocalissi zombie, fondate su sonorità che nel loro tremendo fascino vintage sfoderano tutta la loro attualità.

La dinamica senza pace e vagamente ossessiva della sezione ritmica, si affianca alle soluzioni dei synth, sempre sul crinale dell’incubo o dell’intento ludico, corroborate da qualche suggestione prog, per un lavoro dove la voce fa capolino solo episodicamente, filtrata dal computer, in maniera delirante, come nell’ultima traccia, debordante coi suoi undici minuti di durata.

E le galline? Vi chiederete. Tranquilli, ci sono anche quelle…

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FRATELLI DI SOLEDAD, “SALVIAMO IL SALVABILE – ATTO II” (FRANK FAMILY RECORDS / GOODFELLAS)

A vent’anni di distanza dal primo capitolo, i Fratelli di Soledad danno un seguito a Salviamo il salvabile, ancora una volta omaggiando la storia della canzone italiana, con il contributo di un nutrito gruppo di amici, trai quali alcuni degli autori o interpreti dei brani originali.

Undici portate per un pasto ottimo e abbondante, in cui i Fratelli rileggono alla loro maniera, un repertorio più che mai variegato: da una ‘Svalutation’  più che mai ‘combattente’, impreziosita dalla voce di Gino Santercole (autore dell’originale assieme a Celentano), ad una ‘Stasera l’aria è fresca’ dai profumi psychobilly e i paesaggi western cantata dalla voce originale di Goran Kuzminac; da ‘A me mi piace vivere alla grande’, del compianto Franco Fanigliulo (interpretata da Riccardo Borghetti, uno degli autori originali) a ‘Versante Est’, presa direttamente dal repertorio dei primi Litfiba, qui riproposta in versione Ska, a ‘Cimici e Bromuro’ di Sergio Caputo, trasfigurata attraverso un punk trascinante; Max Casacci contribuisce a rileggere ‘Il mio funerale’ dei Gufi e Bunna degli Africa Unite offre la sua voce per ‘Il Tuffatore” di  Flavio Giurato.

Deliziosa la versione ska del ‘O Rugido do Leao’ di Piccioni (uno dei pezzi-simbolo di Alberto Sordi), mentre Tommaso Cerasuolo dei Perturbazione è tra gli ‘aiutanti di campo’ nella rielaborazione acustica dell’unico brano orignale degli FdS presente in scaletta, ‘Je vous salue Ninì’. Completano la lista ‘Stranamore’ di Vecchioni e ‘Ho le tasche sfondate’ di Piero Ciampi.

Solare, divertente, a tratti trascinante: i Fratelli di Soledad colpiscono nel segno con un disco di cover che riesce nell’intento di rivisitare in modo originale ma rispettoso il materiale di partenza, che mostra così tanto solido da resistere al passare del tempo, quanto efficace anche quando vestito di nuovi abiti sonori.

WORLDSERVICE PROJECT, “FIRE IN A PET SHOP” (MEGASOUND / GOODFELLAS)

Nato nel 2011, il progetto WorldService Project, si è fatto apprezzare da pubblico e critica attraverso un’intensa attività dal vivo, culminata con la pubblicazione dell’esordio sulla lunga distanza.

Ritroviamo ora il quintetto inglese  guidato da Dave Morecroft in questo nuovo lavoro, che si addentra ancora una volta negli sfumati territori a cavallo tra jazz ed avanguardia, all’insegna della sperimentazione; nove composizioni, durata media sui quattro / cinque minuti, ad eccezione della straripante traccia conclusiva che sfora il muro dei nove.

Lo snodarsi del disco (pubblicato dall’etichetta italiana Megasound) rivela un mix di ascendenze e suggestioni abbastanza ‘classico’ per progetti del genere: dalla felice stagione del jazz elettrico degli anni ’70 alle debordanti derive zorniane, passando per la lezione trasversale di Frank Zappa, riprendendone a tratti anche gli accenti ludici, fino ad addentrarsi totalmente in territori avanguardistici nella magmatica traccia finale.

Tra fiati ‘ululanti’ una sezione ritmica che disegna ritmi frastagliati, tastiere che spesso rivestono i brani di una sottile patina ‘vintage’, a volte con qualche impressione filmica, i WorldService Project edificano una costruzione sonora forse non adatta a tutti, ma che si offre volentieri all’ascolto dei più curiosi.

THE CHANFRUGHEN, “MUSICHE DA INSEGUIMENTO” (HIVE / GOODFELLAS)

Esordio sulla lunga distanza per questo trio di Savona, dedito ad una sana miscela di garage – rock, psichedelia, funky e blues, conditi con vaghi accenni metallici e sottili allusioni ‘prog’; nulla di nuovo – si dirà – e in effetti è improbabile che i Chanfrughen (il nome, tra il dialettale e l’onomatopeico gli è stato ‘assegnato’ da una di quelle classiche figure che animano la vita di paese) passino alla storia per aver svelato chissà quali percorsi nei territori ormai battutissimi del rock.

Il discorso (valido alla fine per il 99 per cento delle band in circolazione), si sposta allora dal ‘cosa’ al ‘come’, e qui le cose cambiano: il trio ligure confeziona dieci brani viscerali, a tratti privi di grazia, che si muovono, incuranti delle conseguenze, tra chitarre a tratti lancinanti e una vocalità sbraitata, spesso esagitata (il termine l’ha usato mia madre passando di qua, mentre scrivevo questa recensione), con la batteria a fare il classico ‘lavoro sporco’ (l’essenzialità della sezione ritmica costituisce il miglior esempio del desiderio della band di andare al sodo), con le tastiere a fare capolino qua e là, nei momenti più ‘lisergici’ del disco.

Un ensemble strumentale al calor bianco che si accompagna a una scrittura frammentaria che va a dipingere una sorta di ‘riassunto’ socio-politico degli ultimi vent’anni, tra ispirazioni andreottiane (Il dromedario), omaggi a Gorbaciov che diviene il simbolo di certe ‘magnifiche sorti progressive’ puntualmente andate deluse, personaggi da reality, ridicoli se non inquadrassero tragicamente certi modelli ‘di successo’ della società (Osvaldo Paniccia) pseudo-citazioni dei poliziotteschi anni ’70 (La gladio spia e il commissario Rizzo scopre l’inghippo) e una dedica, riuscita, al Dalla degli inizi (Lucio).

Un disco che scorre ardente senza cali di tensione, per una band alla quale si augura di far presto parlare di sé.

Chi volesse farsi un’idea più chiara,  può ascoltare alcuni pezzi QUI

SALUTI DA SATURNO, “DANCING POLONIA” (GOODFELLAS)

Leggete il nome della band; leggete il titolo del disco; e poi domandatevi se ci sia veramente da stupirsi se all’ascolto ci sia qualcosa di obliquo, di ‘strano’; di sfuggente.

Lui è Mirco Mariani, uno che ha collaborato (alla batteria) per dire, con Enrico Rava e Vinicio Capossela; lo stesso, tra l’altro, che nei ’90 diede vita ai Mazapegul, rimasti nelle orecchie, e nel cuore, di chi ama la musica italiana meno ‘irregimentata’.

In fondo, la musica dei Saluti da Saturno è nient’altro che pop cantautorale; tuttavia c’è sempre uno ‘scarto’, qualcosa che non torna: nella musica, in cui c’è sempre qualche elemento dissonante; nelle parole, dove sembra sempre che ‘manchi’ qualcosa, fine. Un luogo immaginario, il Dancing Polonia, molto ‘cinematografico’, se vogliamo, come cinematografici spesso e volentieri sono i riferimenti del disco, con omaggi all’armeno “Vodka Lemon” firmato da Hiner Saleem o al Kaurismaki di “Miracolo a Le Havre”.

E insomma, ti immagini questo “Dancing” vecchio stile, nel bel mezzo del nulla, forse manco sulla Terra, alla fine, forse proprio su Saturno o in una dimensione ‘tangenziale’, che sfiora appena il nostro mondo. Ti immagini, forse un pò banalmente, ‘sto locale dove avventori vari ed eventuali si ritrovano senza manco sapere come né perché e si raccontano storie; e sullo sfondo del locale, su un palco trasandato, suonano i Saluti da Saturno, con un armamentario di strumenti strani dai nomi strani: Optigan, Mellotron, Ondes Martenot, Theremin, Glassarmonica, Wurlitzer, Ondioline… retaggi di un’archeologia dei suoni che Mariani porta avanti ormai da anni.

E poi ogni tanto qualche avventore si alza e sale sul palco; facce note, a guardarle bene: quelle, ad esempio di Paolo Benvegnù ed Arto Lindsay, per dire. E ascolti i tredici brani, tra un violino, una tromba, un banjo, ti lasci portare dalle parole, da queste immagini spesso bucoliche, dediche famigliari e sentimentali, sequenze di emozioni suscitate da episodi di minima quotidianità, sprazzi di esistenzialismo, storie surreali come l’amore di un custode per la piscina di cui è a guardia o come detto, di ispirazione cinematografica. Il tutto in un’atmosfera sospesa, come se mancasse il famoso ultimo pezzo per rendere il puzzle pienamente comprensibile, che poi uno lo trova una settimana dopo, impolverato sotto al letto.

Cantautorato sbilenco, pop obliquo, brandelli di folk, musica da balera aliena (che forse in sottofondo nel famoso “Ristorante al termine dell’Universo” di Adams, suonano proprio i Saluti da Saturno)… qua è là, certo, l’esperienza con il buon Capossela si fa sentire, ma definire i Saluti da Saturno solo in forza di quella ‘derivazione’ sarebbe ingeneroso, e anche scorretto, alla fine. I Saluti da Saturno sono i Saluti da Saturno: ascoltateveli.

Brano consigliato: Un giorno nuovo

ROULETTE C(H)INESE, “CHINESE POP” (FRIDGE / GOODFELLAS)

Tornano Joe Raggi e Matteo Robutti, alias Roulette C(h)inese, che confezionano dodici pezzi, anche grazie all’aiuto di un nutrito numero di ospiti, come si conviene a quello che viene esplicitamente definito come un ‘progetto musicale aperto’

A circa quattro di distanza dal precedente “Ibrido Meccanico”, il duo proveniente dal piemonte ripresenta la propria miscela di pop elettronico che, ovviamente, porta con se l’eredità di un ‘genere’ che ormai può contare su una trentina e più anni di storia; quasi scontato citare gruppi e punti di riferimento: la lista è lunga e tutto sommato prevedibile.

‘Pop cinese’ dunque; titolo ammiccante quanto in parte fuorviante: in effetti Roulette C(H)inese non disdegna certo brani ammiccanti, anche con qualche lieve accenno danzereccio, mostrando tuttavia di trovarsi a suo agio con atmosfere molto meno ‘concilianti’, crepuscolari, vagamente oniriche, sul filo di ‘battiti regolari’ che qua e là portano con se qualche ‘scoria idustriale’.

Vagamente inquietanti, si potrebbe dire: del resto, anche la dimensione testuale dei pezzi (cantati con poche eccezioni, in italiano) non è delle più rassicuranti, muovendosi talvolta sul filo del flusso di coscienza, o all’opposto concentrandosi sull’osservazione della realtà, tra figure sull’orlo dell’alienazione e rapporti ‘virtuali’.

Un lavoro nel quale il duo trova il modo di dare sfogo anche alla propria vena più sperimentale, come nella plurilingue Dies Irae, o in Sventrato, che sembra quasi uscire da un repertorio da melodramma di inizio ‘900.

I Roulette C(H)inese presentano insomma un disco convincente, anche se con qualche passaggio a vuoto, qualche pezzo meno riuscito, bilanciati però da parentesi con maggiore appeal, anche radiofonico.

IN COLLABORAZIONE CON LOSINGTODAY