Al terzo disco sulla lunga distanza, i romani Mardi Gras consolidano la propria esperienza e fissano la propria impronta stilistica: un rock dalla forte impronta chitarristica, frutto dell’apprendimento della lezione dei maestri d’oltreoceano, ma che non dimentica del tutto le radici del folk irlandese, primo punto di riferimento, qui rappresentate dalla collaborazione con Mundy, uno dei songwriter di punta dell’attuale scena dell’Isola di Smeraldo.
Il ‘campo da gioco’ dei Mardi Gras è corposo: 14 brani (cantati in inglese) per oltre un’ora di durata, trainati dall’interpretazione vocale di Claudia Loddo e dalle corpose chitarre di Simone Sammarone (elettrica) Fabrizio Fontanelli (acustica), a cavallo tra hard rock, AOR, ispirazioni country e qualche suggestione ‘metallara’.
A dispetto del titolo, il sestetto capitolino confeziona un lavoro sui cui è posato un alone di tristezza e di rimpianto: il tema ricorrente è quello dell’amore infelice, perché finito male o finito e basta, perché in una fase burrascosa, perché lontano o perché caduto in oscuro abisso di violenza.
Ci si guarda dentro, cercando di tracciare i contorni della propria identità; ci si guarda intorno, giunti a un punto cruciale della propria esistenza; ci si guarda alle spalle, quando coscienti di essere giunti al termine della propria vicenda terrena, buttando uno sguardo sul percorso compiuto.
Dr.Jekyll e Mr Hyde, John Fante, i Vangeli tradotti dai monaci irlandesi, allusioni a Foscolo e citazioni dei “Superamici” degli anni ’80, all’insegna del classico immaginario che mescola cultura ‘alta’ e ‘popular’, sacro e profano, inserendo con ‘Are we ready for the sun’, una parentesi di sensibilità ecologista.
Un piatto ottimo e abbondante, si potrebbe dire, anche se alla lunga il ricorso alla classica forma della ‘ballad’, per quanto corroborata da momenti di più spiccata personalità, appare un po’ troppo insistito: tirando le somme i momenti migliori finiscono per essere quelli che più si distanziano dal mood dominante del disco: l’escursione ‘metallica’ di ‘Painlover’ e il trascinante groove funk di “Superfriends’.
Nonostante qualche calo di tensione, comprensibile in oltre una dozzina di brani, “Playground” ci dà la conferma di un gruppo in salute, tra le proposte più interessanti del panorama rock capitolino.