Daniele Celona ha scritto e donato questo brano dopo l’incontro con Ilaria e Alessia Messutti, figlie di Giovanni, malato di Alzheimer, che hanno avviato una raccolta fondi a favore dell’Associazione Alzheimer Piemonte in memoria del padre.
Un brano intenso, per certi versi dolente, che però sembra aprirsi alla speranza, accompagnato da un video altrettanto emozionante, in cui la giovane Alice Di Natale, uscita dal Centro Sperimentale di Cinematografia di Torino, dona movimento ai quadri dipinti dallo stesso Giovanni, che nel corso della malattia ha seguito anche l’arte – terapia, scoprendo il disegno come nuovo modo di comunicazione.
Disco d’esordio per questo cantautore torinese che si fa conoscere solo con lo pseudonimo di Buzzy Lao, varie esperienze alle spalle tra cui una lunga parentesi londinese, la consueta gavetta dal vivo, di supporto, tra gli altri, a Dente, Daniele Celona e Omar Pedrini, un singolo e un primo Ep all’attivo.
Ora, il primo tentativo sulla lunga distanza, coadiuvato da Fabio Rizzo (già al lavoro con Nicolò Carnesi e Pan del Diavolo); tredici brani (tra cui un breve strumentale) poco più di cinquanta minuti la durata, per un lavoro che affianca ad una tipica impronta cantautorale, suggestioni sonore che, partendo da una forte componente blues, ampliano l’orizzonte verso il soul, il folk, fino a lambire territori reggae e rock.
Un disco che assume i connotati, se non di una sorta di seduta di analisi, quelli di un tirare le somme, di un fare il punto della situazione su quanto compiuto e percorso fino ad ora, come a fotografare una fase della propria vita prima che questa si chiuda e una porta si apra sul prossimo futuro.
Riflessioni esistenziali, magari dominate da un clima di incertezza, tipico di chi si trova a metà di un guado, a cercare dentro di sé la forza per affrontare nuove sfide ‘di vita’, si uniscono alle classiche traversie sentimentali, tra amori ‘in corso’ e storie già concluse, con tutto il carico che portano con sé.
Buzzy Lao interpreta con varie coloriture emotive, alternando intensità e leggerezza e trovando nella sua chitarra Weissenborn una sorta di ‘seconda voce’, di contraltare sonoro dominante.
Un lavoro per certi versi un filo dispersivo che però mostra un cantante già abbastanza consapevole delle proprie potenzialità.
Vicentina di nascita, torinese di adozione dai tempi dell’Università, dove ha studiato filosofia; violoncellista con la passione per l’indie rock, con varie collaborazioni all’attivo (Daniele Celona, Bianco, Luca Morino dei Mau Mau) e una parentesi dedicata alla musica degli anni ’50 e ’60 nel trio Bahamas, prima di dedicarsi al suo progetto solista che, preceduto da un EP che ha attirato un certo interesse, evolve ora nell’esordio sulla lunga distanza.
Bea Zanin impasta il suo violoncello con sonorità elettroniche a cavallo tra gli ’80 e i ’90 – il titolo del disco è un’ideale risposta a “A Berlino tutto bene” di Garbo – dividendo i dieci pezzi presenti in tre ‘sezioni’ (forse una reminiscenza dell’impostazione di certi concerti di musica classica): il primo dedicato al periodo universitario, il secondo più introspettivo all’insegna del contrasto tra un’indole ottimista e un carattere per certi versi spigoloso; l’amore in varie sfaccettature è protagonista del terzo.
Il risultato è un disco sinuoso, suadente come l’interpretazione della cantautrice; un disco dominato dal ‘calore sintetico’ delle tessiture elettroniche e da quello più corposo, ‘fisico’ del legno del violoncello.
Zanin apre con un omaggio alla città che l’ha accolta (Plaza Victoire), prosegue citando Pavese: “Se ti annoi è colpa tua”, per dipingere il ‘galleggiare’ talvolta annoiato degli anni universitari (che nasconde magari incertezze e prospettive), in tira in ballo Wittgenstein – con la collaborazione di due cantanti lirici – descrivendo problemi di comunicazione che si incontrano nelle relazioni con gli altri (Limiti).
Descrive il sapore agrodolce dell’estate si adombra dei primi refoli autunnali, l’allegria che si colora della nostalgia che verrà (Easy Summer); nostalgia come quella degli anni universitari, la vita allegramente ‘scoordinata’ degli studenti fuori sede; il rimpianto per il tempo apparentemente infinito e per questo impiegato male.
L’amore, infine: quello possibile ma bloccato da timidezza e insicurezze, quello vissuto per contro con troppa intensità fino a diventare ossessivo: in Pazzo di te, Bea duetta con Diego Perrone, anche produttore artistico del disco (già al lavoro con Caparezza); quello vissuto con leggerezza, libertà, ‘alla giornata’ come un viaggio improvvisato e infine quello spontaneo immediato, scaturito dall’incontro con persone viste per la prima volta che sembra di conoscere da sempre.
Bea Zanin assembla un disco convincente: una scrittura immediata, ma sicura, fondata sul ‘vissuto’, il matrimonio tra elettronica e violoncello all’insegna di un amalgama forse non sempre compiuto; un’autrice cui le passate esperienze permettono di evitare in gran parte le incertezze tipiche di ogni esordio. L’augurio di riascoltarla presto.
E’ la sera dello scorso 15 aprile Daniele Celona – due dischi e varie collaborazioni (Nàdar Solo, Levante) all’attivo – sale sul palco del Diavolo Rosso di Asti, per scrivere TRE volte la parola ‘fine’: al tour con cui ha portato in giro i brani del suo secondo lavoro, “Amantide Atlantide” , alla rassegna Indi(e)Avolate, soprattutto, alla stessa esperienza del locale (ricavato in una chiesa sconsacrata) che dopo sedici anni di attività ha dovuto alzare bandiera bianca.
A testimoniare quella serata giunge Ep, che raggruppa cinque dei brani registrati nel corso della serata, che ha valicato i confini di una semplice esibizione del vivo per diventare una sorta di celebrazione (dopo tutto, siamo pur sempre in quella che un tempo era una chiesa), cui sono intervenuti vari ospiti, ampliando la formazione base e assumendo per certi versi i contorni di un happening dai contorni improvvisativi.
Celona diventa così il capofila di una band(a) in cui si mescolano synth, violoncello e tre chitarre, assieme a basso e batteria ‘d’ordinanza’ a costruire un muro sonoro dall’afflato spesso rumoristico attorno al cantato di Celona, costantemente all’insegna di una rabbia mai trattenuta scaturita più che dall’ira dal rimpianto, dalle recriminazioni, dal ‘male di vivere’, che caratterizza tanti dei cantautori dell’ultima generazione.
Brani la cui indole dolente (tra le righe si avverte quasi la sensazione di una nostalgia per ciò che poteva essere e non è stato) non poteva che essere accresciuta dal clima della serata, dominato da par suo dalla ‘nostalgia preventiva’ provocata dall’imminente chiusura del locale.
Brani che dunque finiscono per essere spogliati della loro semplice natura di esecuzioni dal vivo per diventare altro: la testimonianza, la ‘cristalizzazione’ su disco dell’atmosfera che in quel momento si respirava nel locale, sensazioni che non potevano non essere percepite dai musicisti e che almeno in parte finiscono per essere trasmesse anche all’ascoltatore.