Viene da una storia lunga e densa, Giovanni Battaglino: divisa tra la musica ‘colta’, lirica e sinfonica, e quella ‘popolare’, cantautorale, dapprima come componente di gruppi e poi come solista.
Al secondo disco ‘da solo’, Battaglino fa ‘il punto della situazione’, mette insieme spunti e idee raccolti negli ultimi anni, chiama un gruppo di sodali ad affiancarlo in diversi dei dieci pezzi presenti.
Un lavoro non esclusivamente autobiografico, che si allarga a raccontare storie, un paio di brani in con protagoniste femminili, un episodio dedicato alla condizione degli ipovedenti.
Occasioni, sentimentali e ‘di vita’ perse e colte, di rimpianti, di guerra, di contatto con la propria spiritualità.
Il nucleo sonoro, voce e piano, con archi e fiati, va a disegnare un pop ‘di classe’, a tratti un po’ manieristico, se vogliamo; più convincente l’esito quando si abbracciano territori vagamente jazz, in un isolato episodio volto alla Bossa Nova o nei pezzi cui si imbracciano le chitarre.
Avevano appena pubblicato il proprio esordio, gli Elephant Brain, quando il mondo ‘ha chiuso’… Così, nella clausura forzata e soprattutto nell’impossibilità di portare la propria musica in giro, nella rinuncia obbligata al rapporto col pubblico, sono nati e sono stati costruiti i pezzi che compongono questo secondo lavoro. Canzoni ‘da odiare’: il paradosso forse è voluto, forse chissà un filo di rabbia nei confronti di questi brani nati in quel contesto c’è veramente… il mood del resto non è certo dei più tranquilli: dal cantato gridato alla grintosa ruvidità delle chitarre alla sezione ritmica ‘quadrata’ e granitica, i nove pezzi (inclusi i brevi strumentali in apertura e chiusura) sono una corsa senza soste, ad eccezione di ‘Rimini’, dove si riprende fiato, in quella che è un’ode alla tranquillità, alla ricerca di serenità. Una pausa, appunto, in un lavoro, quello del quintetto proveniente da Perugia, che parla di incertezze, di notti insonni, dell’agognato ritorno alla normalità, della frustrazione di un periodo in cui la normalità è negata: senza riferimenti espliciti a quanto successo, ma in un semplice rincorrersi di emozioni e di parole usate per descriverle.
A colpire è la sensibilita, la delicatezza, la capacità di inquadrare emozioni e sensazioni con poche parole, essenziali. Sembra facile, bisogna provarci. Non è poi probabilmente un caso che il pezzo ‘augurale’, che dà il titolo all’intero lavoro, sia posto in coda al secondo disco (‘album’ si sarebbe detto una volta) di Fabrizio Fusaro, nel segno della consolidata collaborazione – in testi e musiche – con Ale Bavo (già collaboratore di Subsonica e Levante). Non è nemmeno un caso che invece il disco si apra con ‘Morto lui rimango io’, una ‘mazzata emotiva’ dedicata a chi per un motivo o per l’altro, ha perso la speranza e si ritrova solo, ad appigliarsi al semplice ‘respiro’ come unica ancora al futuro. Insomma: si apre con la morte di Dio (scegliete voi se con la ‘d’ maiuscola o minuscola) che ci lascia soli a noi stessi, si chiude con le porte che si aprono alla speranza di una bufera che si ritira, allegoria nemmeno tanto nascosta del lockdown e della sua conclusione. In mezzo si parla di dubbi e incertezze, errori che non si sa come recuperare, l’affidarsi alla ‘Fortuna’ in mancanza apparente di punti fermi su cui costruire il futuro; si parla di amore e di ricordi d’infanzia, di rapporti padre – figlio. Una costruzione sonora che parte dalla semplicità di chitarra e / o piano e voce per acquisire profondità e ricchezza con effetti assortiti, ad avvolgere l’ascoltatore. Fuori da certi ‘radar’, lontano dalla ‘frenesia’ che impone di sfornare singoli a ripetizione da dare in pasto all’usa e getta di YouTube, c’è chi dà voce alle fragilità di questi tempi complicati.
Disco d’esordio per questo duo pescarese (Pepi ed Andrew i ‘nomi di battaglia’), primo traguardo di una collaborazione che dura già da qualche anno. Frutto di jam session e collaborazioni assortite, i sei brani che compongono “Speedbeforedeath” si snodano all’insegna di un’elettronica dalle varie consistenze e suggestioni, dal coloratissimo funky iniziale, dai tratti dance, al fluire quasi liquido di suggestioni orientali che chiude il lavoro. In mezzo, si toccano territori cosmici e divagazioni psichedeliche, si lambisce il lounge e si flirta con suggestioni etniche. Rari gli interventi vocali: il refrain ripetuto del brano di apertura, il testo della title track, unica ‘concessione’ a un accenno di forma – canzone all’insegna dell’ironia. Una serie di tappe, alcune delle quali non si ritraggono dall’ampliarsi fino a 9 – 10 minuti di durata, offrendo all’ascoltatore occasioni di straniamento ed immersione. Un lavoro che, per quanto affidato a beat, basi e loop, non rinuncia a una vivace componente percussiva o interventi di chitarra, in un caso quella dell’ospite Lorenzo Conti (già con Negative Trip e Santo Niente). È insomma un’elettronica che lavora di cesello su parti e campioni di musica ‘suonata’ che offre all’ascoltatore il proverbiale viaggio sonoro…
Sì fa chiamare Krait, si chiama Michela Di Mauro, e ha scelto di buttarsi anima, corpo e soprattutto voce, sul versante più duro del rock: attività ben avviata coi Deceit Machine, affiancata dai primi passi da solista, giunta al terzo singolo.
Accompagnato da un video ‘pulp’ che riporta a Robert Rodriguez e più in là a Tarantino, tra gangster e donne fatali, ‘Slate’, prodotto da A-Kurt, è un pezzo che strizza l’occhio a certo rock ‘industriale’ (Nine Inch Nails, Alec Empire, qualcosina dei Fear Factory) e che gioca ovviamente gran parte delle sue sorti sull’attitudine e la performance della vocalist, che fa flirtare screaming ‘metallico’ e cadenze hip hop.
L’esito, pur non fenomenale, è comunque più che gradevole, specie per chi magari è un po’ stanco di artiste votate a soul e affini.
Il pianeta rock di casa nostra a cercarle può ancora riservare delle sorprese.
Secondo singolo dell’anno per Francesco Morrone, cosentino di nascita, ‘nomade’ per vocazione, in attesa di pubblicare il suo secondo lavoro da solista.
Riflessioni sparse sull’amore, le insicurezze che portano alla fine delle storie, l’impossibilità, nonostante tutto, di chiudersi ai sentimenti; voce e chitarra con suggestioni orientali che conferiscono al pezzo un sapore quasi onirico, complice un’interpretazione quasi sussurrata, sempre sotto traccia, all’insegna di una parola più parlata che cantata con qualche reminiscenza di Fosssati.
Nuovo singolo per Claudio Rigo da Torino, cantautore con un passato e presente da imprenditore, e la passione per la musica, portata avanti in parallelo.
Un caleidoscopio di colori come metafora della vita coi suoi alti e bassi, e come fonte di speranza verso il futuro.
Voce e piano con inserti di chitarra elettrica, per un brano nel solco del classico cantautorato – pop di casa nostra, senza scosse.
Abbruzzese di Lanciano, un trascorsi di batterista nei Management Del Dolore Post Operatorio (qualcuno forse li ricorderà), Ceroli ha fa qualche tempo avviato la carriera da solista, con un EP e qualche singolo, in un percorso che punta, a breve, all’uscita del primo lavoro sulla lunga distanza.
Cantautorato indie, per un brano che descrive il naufragio di una relazione con un cantato minimale e quasi sussurrato che si perde in un’atmosfera sonora evanescente, tra effetti e riverberi assortiti.
Un’altra notte per voltare pagina rispetto a una storia finita e ricominciare: notturno il riferimento, danzereccia l’impostazione, per un brano che strizza l’occhio ad r’n’b e soul, a cominciare da una vocalità abbastanza ‘consueta’.
Ruggero Ricci (un passaggio a X-Factor, ormai parecchi anni fa), prosegue il suo percorso all’insegna di un pop decisamente ‘piacione’ e ammiccante, anche troppo…