Posts Tagged ‘avanguardia’

NICHELODEON / INSONAR & RELATIVES, “INCIDENTI – LO SCHIANTO”(SNOWDONIA)

Nichelodeon è il progetto che il cantante e polistrumentista Claudio Milano porta avanti da oltre un decennio: con questo lavoro, e quelli collegati, siamo giunti al sesto disco;

InSonar & Relatives è il faraonico ensemble che l’autore ha assemblato per l’occasione: oltre 40 elementi che hanno contribuito a creare e formare quest’opera.

“Incidenti – Lo Schianto”, che giunge a sette anni di distanza dal precedente lavoro, frutto di una gestazione di cinque anni (2014 – 2019), subendo poi i ritardi di pubblicazione connessi alla situazione degli ultimi due anni è…

Cosa sia, è difficile spiegarlo: si farebbe prima a dire: “Andatevelo ad ascoltare… se avete il coraggio”.

“Incidenti – Lo Schianto” non è un disco ‘comune’, nemmeno per chi scrive, che insomma, con un minimo di ‘presunzione’ è abituato a percorrere anche sentieri sonori poco battuti…

17 tracce, che vanno a coprire gli 80 minuti, durata limite di un cd, che gettato l’ascoltatore in un vortice: avant-metal, folk medievale di tradizione italica, elettronica, jazz, è l’elenco stilato dallo stesso Milano, cui si aggiunge la musica colta, che fa da collante, attraverso un’esposizione vocale che viaggia tra suggestioni liriche, che sfociano nell’operistica, e recitativi, e l’ensemble strumentale, concepito come una formazione da ‘camera’, in cui elementi classici, violino in primis, dialogano con l’avanguardia elettronica, la ‘tradizione attualizzata’ (ghironde e arpe elettrificate), strumentazione ‘rock’ (chitarre, moog), pianoforte preparato, fiati, fisarmonica e l’elenco potrebbe proseguire.

Un viaggio e un vortice sonoro che viene definito ‘Senza Valore’, forse per tagliare la testa al toro nei confronti di qualsiasi polemica o critica, una sorta di “Così è se vi pare”; un lavoro che per stessa dichiarazione dell’autore nasce dalla rabbia e come tale non può che essere immediato (proprio nel senso di ‘senza mediazioni’) e viscerale, semplice, ma non ‘facile’, essenziale e diretta espressione di un’emozione.

Lavoro che come tale rinuncia, e anzi non prende nemmeno in considerazione, l’idea di ‘farsi piacere’, di creare un ‘canale di comunicazione’, per lo meno dal punto di vista superficiale.

Poi nel profondo è altro discorso, perché in controluce, tra le righe di queste canzoni sghembe, i vocalizzi che riecheggiano Demetrio Stratos, l’atteggiamento talvolta irridente, sardonico, tra litanie, versioni aliene di ‘Mamma dammi 100 lire’ e cori dei puffi in versione manicomiale, ci sono le emozioni, che appunto sono semplici e dirette e basta aprirsi ad esse per riuscire ad intercettarle.

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JURI, “ESTETICA” (NEW MODEL LABEL – CONSORZIO ZDB)

‘Estetica’ come ‘esperienza emotiva’, in contrapposizione al, concetto oggi prevalente, di puro insieme di ‘dati formali’.

I non avvezzi alla filosofia potranno trovare ostico il concetto, tuttavia ogni tanto c’è anche bisogno che qualcuno rifletta sulle motivazioni del ‘fare musica’.

È il caso di Juri Panizzi, chitarrista e compositore con vari progetti e collaborazioni all’attivo (tra cui Gianni Nocenzi del Banco del Mutuo Soccorso).

Qui lo troviamo in quattro lunghe composizioni (in un caso si superano i 14 minuti ( per chitarra solista – elettrica e acustica – con isolati inserti si synth e piano, il ricorso alla loop station, l’utilizzo di registrazioni ‘d’ambiente’.

Varie le suggestioni di partenza: l’abbandono della macchina per immergersi nella natura, la forza dirompente del sopraggiungere di un’idea, la necessità che a volte si presenta di un taglio netto col passato e una storia d’amore, ispirata a “La leggenda di Olaf” di Roberto Vecchioni.

Disco dilatato, ‘ambient’ è termine abbastanza immediato, con allusioni blues e qualche reminiscenza prog.

Varie soluzioni tecniche – l’uso dell’archetto, l’alternanza tra i canali stereo, il ricorso ad accordature alternative – accrescono la varietà della grana sonora del disco.

Uno di quei lavori dai quali lasciarsi avvolgere ancora più che in altre occasioni, anche per dare compiutezza all’obbiettivo di ‘esperienza estetica’ voluto dall’autore.

ALBERTO NEMO, “6 X 0” (DIMORA RECORDS / NEW MODEL LABEL)

Come suggerisce il titolo, sei brani compongono il secondo lavoro del cantante / compositore veneto Alberto Nemo.

Siamo in territori al confine tra musica elettronica, colonne sonore, classica contemporanea: composizioni ‘palindrome’, composte in un verso e registrate all’incontrario, sull’esempio di quanto a suo tempo ideato da Jocelyn Pook per la colonna sonora di “Eyes Wide Shut”.

Un lavoro dal sapore sperimentale, con suggestioni ‘avanguardistiche’, accompagnato dal cantato ‘lirico’ e dolente di Nemo, che si staglia su tappeti ‘ambientali’ che possono evocare fabbriche abbandonate, cattedrali gotiche da archeologia post-industriale.

Un ‘esercizio di ascolto’ che offre un’esperienza diversa dal ‘consueto’; la brevità del lavoro (una ventina di minuti) e delle singole composizioni evitano l’effetto ‘prova di resistenza’ offrendo un’esperienza che, se avvicinata con curiosità, può affascinare.

ALDO BETTO WITH BLAKE C.S. FRANCHETTO & YOUSSEF AIT BOUAZZA , “SAVANA FUNK”(BRUTTURE MODERNE / AUDIOGLOBE / LIBELLULA PRESS)

A circa un anno di distanza dal lavoro d’esordio, “Musica Analoga”, secondo disco per il trio capitanato da Aldo Betto, chitarrista dalla carriera ventennale.

“Savana funk” è un titolo che già di suo suggerisce qualcosa: un incontro di mondi, una mescolanza di sapori: ed è proprio questa la ‘ragion d’essere’ delle dodici composizioni – interamente strumentali – che danno vita al disco: il continuo incrociarsi e accavallarsi di suggestioni, in uno sgargiante melting pot sonoro.

Il Jazz è il punto d’incontro per i ritmi ammiccanti del funk, con tanto di chitarre con effetto wah, wah; le assolate distese desertiche, quelle della frontiera americana o degli immensi paesaggi africani; le radici del gospel e l’estro dell’avanguardia; una spruzzata di ritmi hip hop, una manciata di ambient, una passata di rock.

Guida la variegata tinta delle chitarre di Betto, pronto a passare dalla briglia sciolta delle parentesi più ‘seventies’ a momenti all’insegna di una compostezza dall’espressione quasi ‘grave’. I bassi di Franchetto elevano la temperatura, il calore avvolgente dell’ensemble, con suoni dalla corposità quasi tangibile; la batteria di Youssef Ait Bouazza è il perfetto complemento all’insieme sonoro. Un manipolo di ospiti arricchisce la pietanza, a partire dai synth, tastiere e piano di Nicola Peruch, per arrivare alle percussioni del maliano Kalifa Kone: il trio che diviene formazione aperta, gli spazi sonori che si fanno più ampi: Nord America, Europa, Africa.

Un disco che vive su una prima parte più ‘irrequieta’, mentre sul finale lascia spazio a una maggiore ‘riflessività’, reclamando fin dalle prime note l’attenzione dell’ascoltatore,  distogliendolo da ogni altra occupazione.

PIN CUSHION QUEEN, “SETTINGS_2 EP” (AUTOPRODOTTO / SFERA CUBICA)

Ricapitoliamo: i Pin Cushion Queen sono un trio (Igor Micciola, Marco Calandrino, Zanardi) di base a Bologna, che sta pubblicando la propria musica in una sorta di trilogia: “Characters” il primo capitolo, targato 2011; “Stories” il terzo, ancora di là da venire; “Settings” quello in corso di pubblicazione, dato che la band ha deciso di scomporlo a sua volta in tre EP da tre brani ciascuno. La prima delle tre parti è uscita lo scorso aprile; giunge ora il momento della seconda.

I Pin Cushion Queen mescolano ruvidità elettriche ed elementi elettronici all’insegna di un’attitudine che loro stessi ammettono essere caratterizzata più dall’immediatezza e dall’istinto che non dallo studio, tenendo presenti i propri ‘numi’ tutelari – Radiohead, Battles e Liars – e strizzando l’occhio al minimalismo d’avanguardia (ricorrendo spesso alle ripetizioni insistite e vagamente stranianti di certe ‘cellule sonore’), articolandosi tra aperture movimentate e dilatazioni raccolte, usando l’elemento vocale (per quanto interpretando dei testi) come un ulteriore elemento che si aggiunge all’insieme sonoro.

Un disco in gran parte ‘suonato’ (a chitarre, bassi e batterie si aggiungono glockenspiel e pianoforte e synth ), in cui la componente elettronica acquisisce un ruolo di arricchimento dello sfondo sonoro, senza mai diventare invasiva.

Prima traccia dagli accenti plumbei, dolenti; seconda composizione volta ad un raccoglimento quasi contemplativo; più dinamica e articolata la terza, che supera gli otto minuti, ad attraversare vari climi, tra beat elettronici che alludono quasi al dancefloor e frustate ai limiti del noise.

Il secondo capitolo comincia a offrire un’idea più precisa della proposta dei Pin Cushion Queen, come di un gruppo volto alla sperimentazione, ma cercando di tenere aperto un canale di comunicazione con l’ascoltatore. Appuntamento alla terza parte per poter apprezzare “Settings” nella sua compiutezza.

“HYRIS CORP. LTD.” (NEW MODEL LABEL)

Lui si fa chiamare Bljak Randalls, anche se in realtà si chiama Dario Stoppa (provenienza: Venezia), polistrumentista qui all’esordio, coadiuvato dal batterista Matteo Anelli e da Paolo Messere (Seahorse Recordings, Blessed Child Opera) in sede di produzione.
Quattordici composizioni interamente strumentali, per un lavoro che si colloca in una di quei ‘territori di confine’ tra il progressive ‘storico’, le sue contaminazioni più o meno recenti (‘metalliche’ in particolare, frutto dei trascorsi del nostro), la musica da film e certe esperienze ai confini dell’avanguardia, vedi alla voce: math rock.
Un disco dove, per stessa ammissione di Randalls / Stoppa di matematica ce n’è molta: un ‘concept’ in cui il filo conduttore non è tanto tematico, quanto strutturale, originato da un pacchetto di regole, appunto matematiche, applicate alla composizione e alla commistione dei vari strumenti.
Il risultato è un lavoro che finisce per ondeggiare costantemente tra ‘ragione e sentimento’: in cui si alternano intensità emotiva, sia attraverso momenti che evocano l’introspezione, sia in aperture più ‘energiche’, e parentesi in cui sembra prendere il sopravvento una razionalità dai contorni ‘cerebrali’… che poi se vogliamo è la cifra storica del prog, sempre diviso tra l’urgenza di comunicare emozioni e la necessità di mostrare che il rock può essere qualcosa in più rispetto al semplice imbracciare degli strumenti.
L’esordio di Hyris Corp Ltd., non riesce forse a risolvere pienamente il dilemma, sembrando a tratti un po’ ‘slegato’, effetto d’altro canto prevedibile, se si pensa i pezzi in questione sono stati composti nell’arco di un decennio… alla fine, anche considerando quando affermato dallo stesso autore, si tratta di un lavoro sperimentale, il cui significato, più che nell’effetto dell’ascolto finale, risiede nel lavoro di ricerca compositiva / strutturale, nei ‘canoni’ e nelle ‘regole’ che sono state poste alla base della gestazione del disco.
Discorso non facile per i non addetti ai lavori, ai quali non resta che prendere il disco com’è, lasciandosi attrarre (o respingere) dal susseguirsi delle suggestioni evocate dai suoni.
Un lavoro che può risultare comunque intrigante, specie per gli ascoltatori più curiosi.

ENDLESS TAPES, “BRILLIANT WAVES” (AUTOPRODOTTO)

Primo lavoro sulla lunga distanza per il progetto di Colin Edwin ed Alessandro Pedretti: più noto – anche a livello internazionale – il primo, se non altro per aver militato in quei Porcupine Tree che in Italia hanno raggiunto uno status di gruppo di culto tra gli amanti del progressive; forse meno conosciuto il secondo, anche se i più attenti lo ricorderanno forse negli SDANG! o a fianco di Ettore Giuradei.

Dopo un Ep di assaggio, ecco dunque che il due anglo-italiano mostra quante e quali frecce può scoccare dal suo arco: otto brani, più l’appendice di una ‘ghost track’, risultato di un anno e mezzo di collaborazione a distanza, tra l’Inghilterra di Edwin e la residenza bresciana di Pedretti.

I due, con l’ausilio del chitarrista Nicola Panteghini in due episodi, fanno scorrere le loro ‘onde splendenti’ (quasi del tutto strumentali) all’insegna di sonorità che, pur flirtando con l’ambient, non abbracciano mai del tutto certe dilatazioni monolitiche tipiche del genere, preferendo più spesso snodarsi all’insegna di un continuo mutare di umori e stili, tra un capitolo e l’altro e all’interno delle singole composizioni.

L’inventario dei riferimenti e delle suggestioni è di conseguenza variegato: prevedibilmente, si fa sentire lo stile del basso di Colin Edwin, con vaghe suggestioni della principale band di appartenenza, ma lungo il fluire del disco si avvertono intarsi trip-hop, riferimenti new wave – nei momenti in cui si fa più marcata una certa ‘impronta elettrica’, comunque costante in tutto il disco – allusioni prog, derive psichedeliche appena accennate, suggerimenti ‘avanguardistici’, una spolverata di crepitii elettronici e qualche rumorismo; oltre al basso, piano e synth la fanno da padrone, effetti elettronici in abbondanza, batteria a completare, in modo raccolto, la sezione ritmica ed episodici inserimenti di chitarre.

Un disco che vive su climi da fine estate diciamo, la luce che fronteggia l’avanzata delle ombre autunnali; analogo l’umore: non plumbeo, ma caratterizzato da una certa qual malinconia, una serenità appena offuscata da un filo di rimpianto.

“Brilliant Waves” appare il progetto di due musicisti che, nello sperimentare la propria collaborazione, sembrano però non perdere mai di vista la necessità di comunicare con l’ascoltatore, evitando dunque che tutto si trasforma in un dialogo tra loro, magari una ‘gara’ in cui al pubblico non resta che assistere; il rischio c’era, come troppo spesso avviene in progetti di questo tipo; non è questo il caso, per un lavoro che appare invece puntare a coinvolgere costantemente chi sta dall’altra parte, qualunque sia lo strumento utilizzato per l’ascolto.

JUNKFOOD – ENRICO GABRIELLI: “ITALIAN MASTERS – VOL.1: PIERO UMILIANI” (AUTOPRODOTTO)

I Junkfood, quartetto dedito a contaminazioni tra noise, jazz ed avanguardia; Enrico Gabrielli, conosciuto anche come Der Maurer, uno degli artefici dei Calibro 35, band capitolina che omaggia la fertile stagione delle sonorizzazioni del cinema italiano tra gli anni ’60 e ’70; Piero Umiliani di quella stagione è stato uno dei massimi e più prolifici rappresentanti, anche se un filo dimenticato dal grande pubblico, spesso messo in secondo piano rispetto a nomi ben più celebrati.

La scelta di Umiliani per aprire la serie degli ‘Italian Masters’, che dunque è prevedibile proseguirà con altri tributi, dunque non è casuale, ma chiaramente voluta, da parte dei fautori del progetto che hanno in quei ‘maestri’ i punti di riferimento espliciti della loro proposta.

Solo tre brani, il più riconoscibile è senz’altro ‘Gassman Blues’, che riprende il tema portante de “I soliti ignoti” in cui le sonorizzazioni originali vengono filtrate e trasfigurare dalla personalità debordante dei musicisti, trasformandosi in tre brevi cavalcante in cui le melodie originali vengono scartavetrate con schegge noise, i ritmi resi caracollanti da suggestioni free jazz, i climi – originariamente giocosi, rilassati o seducenti, tradotti in scenari da incubo, vagamente ansiogeni.

Se il buon giorno si vede dal mattino, la serie dedicata ai ‘maestri italiani’ promette di essere un progetto suggestivo e divertente; l’unico limite di questo primo volume è l’esiguo numero di brani, che alla fine lascia nell’ascoltatore la voglia, come se tutto finisse sul più bello.

Per chi vuole, il disco è scaricabile qui: https://junkfood4et1.bandcamp.com/album/italian-masters-vol-1-piero-umiliani

mentre qui trovate un videoreportage delle registrazioni: https://www.youtube.com/watch?v=mZvRdgQOjIM

MONOLOGUE, “THE SEA FROM THE TREES” (CHEMICAL TAPES)

Ambient synth drone movements: quando ci si trova di fronte a lavori poco incasellabili, ad esperienze sonore se vogliamo ‘difficili’, o semplicemente lontane dal consueto, a territori musicali ‘di confine’, non resta che affidarsi alla definizione che lo stesso autore dà della propria musica.

Dietro a Monologue si cela, Marie e Le Rose: artefice unica, autrice ed esecutrice di queste cinque composizioni, tutte – ad eccezione della conclusiva, ‘Indya (Caesura)’ senza titolo, contraddistinte solo da una sigla; più che una serie di brani, un flusso che si snoda lungo i circa 43 minuti di durata quasi senza soluzione di continuità che procede col passo lento e la consistenza viscosa di una colata magmatica.

Immaginate uno di quei documentari che si soffermano a lungo su paesaggi a prima vista immutabili, in cui i cambiamenti si succedono in maniera impercettibile; cercare ora di intuire come tutto ciò si possa tradurre nei suoni e forse potrete avere un’idea della proposta di MonoLogue… oppure, più semplicemente, andate al link del progetto e fatevi un’idea…

Lungo lo scorrere placido degli scenari sonori costruiti da synth, riverberi ed effetti vari si stagliano rarefatte linee melodiche, cori da monastero, sonorità che sembrano provenire da lontano oriente, suggestioni industriali, in un procedere talvolta ipnotico, a sfiorare territori onirici.

“The Sea From The Trees”, il mare dagli alberi: titolo evocativo per un lavoro dal quale ci si deve fare avvolgere, lasciando la mente libera di farsi suggestionare, immaginando.

WORLDSERVICE PROJECT, “FIRE IN A PET SHOP” (MEGASOUND / GOODFELLAS)

Nato nel 2011, il progetto WorldService Project, si è fatto apprezzare da pubblico e critica attraverso un’intensa attività dal vivo, culminata con la pubblicazione dell’esordio sulla lunga distanza.

Ritroviamo ora il quintetto inglese  guidato da Dave Morecroft in questo nuovo lavoro, che si addentra ancora una volta negli sfumati territori a cavallo tra jazz ed avanguardia, all’insegna della sperimentazione; nove composizioni, durata media sui quattro / cinque minuti, ad eccezione della straripante traccia conclusiva che sfora il muro dei nove.

Lo snodarsi del disco (pubblicato dall’etichetta italiana Megasound) rivela un mix di ascendenze e suggestioni abbastanza ‘classico’ per progetti del genere: dalla felice stagione del jazz elettrico degli anni ’70 alle debordanti derive zorniane, passando per la lezione trasversale di Frank Zappa, riprendendone a tratti anche gli accenti ludici, fino ad addentrarsi totalmente in territori avanguardistici nella magmatica traccia finale.

Tra fiati ‘ululanti’ una sezione ritmica che disegna ritmi frastagliati, tastiere che spesso rivestono i brani di una sottile patina ‘vintage’, a volte con qualche impressione filmica, i WorldService Project edificano una costruzione sonora forse non adatta a tutti, ma che si offre volentieri all’ascolto dei più curiosi.