Esordio sulla lunga distanza (dopo un precedente EP) per gli italo-berlinesi Caboose.
Il titolo dice tutto, o almeno gran parte: il blues al centro, con la sua varietà di umori, ruotati attorno certo a quella tipica malinconia ricorrente, ma sviluppati di volta in volta in modo dolente, o più energico, col passo pesante e il fiato corto con cui si procede nei terreni paludosi o il ritmo incalzante di un treno in corsa.
Non sono più i tempi degli schiavi nelle piantagioni, ma sono tempi di diverse schiavitù e costrizioni, non fisiche (almeno non nel senso originario), ma spesso sociali, a volte ‘morali’; alla tirannia dei campi si sostituisce quella della disoccupazione che costringe spesso le persone a partire; a pratiche di sfruttamento se ne sostituiscono altre, i guadagni volti alla soddisfazione di bisogni ‘indotti’, l’onnipresenza dei social fa sentire fuori posto chi appartiene ad un’altra epoca…
La fuga, allora: reale o solo immaginata, temporanea o senza ritorno (fino all’autodistruzione), forse e soprattutto per conoscere meglio sé stessi…
I Caboose esprimono tutto questo con un disco che, pur fermamente radicato nei suoni di riferimento, cerca continuamente delle variazioni, tra ballate oscure, parentesi country, episodi più ‘virulenti’, l’armonica spesso e volentieri a prendersi la scena, lasciando alle chitarre il compito di dare corpo e solidità.
Non solo per gli amanti del genere.